Dopo l’epoca coloniale, i cristiani giocarono un ruolo molto significativo nella nascita e nello sviluppo del nazionalismo arabo. Non solo perché costituivano una parte qualificata delle élite di riferimento ma anche perché le rispettive Chiese hanno contribuito a definire l’identità araba nel contesto post-coloniale. I cristiani hanno così contribuito a formare l’ossatura del partito socialista Baath in Siria e in Iraq, e hanno svolto una preziosa funzione di stabilizzazione in Egitto, come anche in Giordania e in altri paesi della regione.
Sul versante dell’educazione, le istituzioni delle Chiese svolgevano inoltre una preziosa e riconosciuta funzione di formazione delle élite, comprese quelle di religione musulmana poiché le scuole cristiane non hanno mai posto particolari limiti o discriminazioni all’accesso. In cambio, alle Chiese cristiane, in virtù della legislazione sugli “statuti personali” di impronta ottomana, veniva riconosciuta la libertà di culto, una significativa autonomia di azione e giurisdizione, la titolarità e l’esercizio del diritto di proprietà, una discreta possibilità di circolazione per i missionari. La Santa Sede, che inizialmente non aveva ostacolato né favorito questo processo di parziale integrazione, ha gradualmente appoggiato la sua azione diplomatica su questa rete locale, negoziando con i regimi al potere spazi sempre più ampi di libertà per i fedeli.
Il delicato equilibrio è andato in crisi con le primavere arabe. Le Chiese cristiane, almeno in una prima fase, sono apparse aggrappate ai regimi, considerati l’unica ancora di salvezza di fronte alla dissoluzione di un sistema che le avrebbe esposte (come effettivamente è accaduto) all’impatto dell’ondata islamica più radicale. Mentre nel processo di affermazione del nazionalismo i cristiani arabi avevano saputo affrancarsi rapidamente dall’identificazione con le potenze coloniali, in occasione delle cosiddette “primavere arabe” hanno sofferto gravemente per la percepita mancanza di una coscienza critica rispetto ai regimi al potere negli anni precedenti. Il medesimo problema si è manifestato in Iraq e Siria, come anche in Egitto e Libia. La laicità proclamata dai regimi militari o autocratici è stata considerata fino all’ultimo una garanzia migliore rispetto a qualsiasi altro incerto percorso democratico. E sembra esserlo di nuovo alla vigilia delle prossime elezioni in Egitto, previste per la primavera.
Questa situazione ha aggravato l’isolamento dei cristiani, che sono rimasti in buona parte ai margini del processo di elaborazione costituzionale in vari Paesi della regione. Ad alimentare questo atteggiamento ha contributo anche il pregiudizio e la chiusura pressoché completa nei confronti di alcune realtà, come i Fratelli musulmani. Il momento storico ha coinciso altresì con un deciso ripiegamento della diplomazia della Santa Sede che ha accompagnato il pontificato di Joseph Ratzinger, condizionato dalle polemiche e dagli scontri con il mondo islamico seguiti al famoso discorso pronunciato da Benedetto XVI a Ratisbona nel 2006.
Gli ultimi anni sono stati difficili anche a causa della guerra in Iraq e della perdurante instabilità nei territori palestinesi e in Libano, che hanno alimentato una vera e propria fuga dei cristiani dal mondo arabo. Il caos istituzionale e sociale seguito alle primavere arabe in Egitto e nel Maghreb, con il caso più drammatico della guerra civile in Siria, ha amplificato questa dinamica.
Nell’attuale fase di riassetto profondo del mondo arabo, e di incertezza su chi ne siano oggi i custodi, si coglie una nuova strategia messa in campo dalla Santa Sede (già sotto il pontificato di Benedetto XVI) e condivisa dai vertici delle altre Chiese cristiane: è la strategia del dialogo ecumenico, cioè il dialogo tra le diverse confessioni cristiane. L’ecumenismo nasce anzitutto in ambito missionario, fin da quando le diverse Chiese si trovano ad operare in prima linea dei cosiddetti territori di missione. Si sviluppa poi su due piani paralleli: l’ecumenismo della “vita” a livello di Chiese di popolo con forme di dialogo e di collaborazione spontanee soprattutto nel campo della carità; e l’ecumenismo di vertice che si sviluppa sul piano teologico e accademico.
Ma l’ecumenismo può avere anche un profondo impatto a livello diplomatico. Lo aveva perfettamente compreso Paolo VI che nel 1964 si era reso protagonista del famoso abbraccio con il patriarca di Costantinopoli (Atenagora), a cui seguì, l’anno successivo, la remissione delle reciproche scomuniche. Non a caso il luogo scelto per quello storico abbraccio fu proprio Gerusalemme, come chiaro segnale inviato a israeliani e palestinesi e a tutta la regione mentre la situazione andava progressivamente degenerando dalla crisi di Suez nel 1956 alla guerra dei sei giorni del 1967.
Papa Francesco si colloca lungo questa direttrice di azione e indica l’ecumenismo come strategia dalla valenza anche politica per affrontare la difficile stagione seguita alle rivolte arabe. Tale strategia consente anzitutto ai cristiani di raggiungere una massa critica e un’unità di azione capace di far avvertire il proprio peso a livello politico e sociale, presentandosi più uniti di fronte alla pressione islamica. Si può in tal modo arginare l’esodo dei cristiani dal mondo arabo, che rischia pericolosamente di cancellare questa presenza proprio dalle terre che sono state la culla della loro religione. Papa Francesco tornerà a Gerusalemme e nei luoghi santi dal 24 al 26 maggio prossimi per ripetere lo storico abbraccio con l’attuale patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo. Oltre al dialogo con il mondo greco-ortodosso, c’è anche un intenso rapporto con il patriarca di Mosca Kirill, altrettanto decisivo per fronteggiare la presenza islamica nel Caucaso e per fare fronte comune a fianco dei cristiani in Medio Oriente.
L’ecumenismo emerge così non solo come esigenza teologica e spirituale per la cristianità, ma anche come prezioso strumento politico-diplomatico per recuperare il protagonismo perduto in un mondo arabo che è comunque sempre più frammentato.