Gli Stati Uniti hanno sfiorato la catastrofe finanziaria e il default? A giudicare dal comportamento dei mercati obbligazionari si direbbe proprio di no: nei giorni precedenti all’accordo su un bilancio provvisorio e sull’innalzamento del tetto legale del debito, i T-bond non sono stati svenduti da investitori in preda al panico ma hanno subito solo modeste oscillazioni. Wall Street non ha mai creduto seriamente che la strategia del Tea Party potesse avere successo, date le divisioni in campo repubblicano e la fermezza dei Democratici.
Il problema è però soltanto rimandato perché tra pochi mesi le due parti dovranno rinegoziare il compromesso raggiunto a metà ottobre. Per capire in che direzione ci si muove è opportuno ricordare alcuni fatti chiave sull’evoluzione del debito pubblico e del sistema pensionistico americani. Il punto di partenza è che il debito attuale, 16.740 miliardi di dollari, è pari a circa un anno di prodotto interno lordo, 16.661 miliardi di dollari nel giugno scorso (i dati dell’ultimo trimestre non sono ancora disponibili a causa dello shutdown durato fino al 17 ottobre).
A questa percentuale elevata ma non preoccupante, per i motivi che vedremo tra un attimo, si è arrivati non per la generosità del welfare del governo federale ma per le spese delle guerre in Afghanistan e in Iraq prima e per il salvataggio delle banche poi: nel 2000 Bill Clinton aveva consegnato a George W. Bush un debito che stava al 59% del PIL. Storicamente, sono stati i Repubblicani a far esplodere il deficit attraverso le massicce riduzioni fiscali a beneficio dei contribuenti più ricchi, prima con Ronald Reagan e poi con George W. Bush (l’investitore Warren Buffett paga un’aliquota fiscale minore di quella della sua segretaria, come è stato ricordato dal Presidente Barack Obama in campagna elettorale). Appare quindi paradossale che oggi gli stessi Repubblicani, in preda a un furore ideologico che viene da due sconfitte consecutive nelle elezioni presidenziali, si dichiarino pronti a “chiudere” il governo federale se non ci saranno sostanziali riduzioni della spesa pubblica.
Come scrive praticamente ogni settimana il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, quello del debito pubblico americano è un “non problema”, per svariati motivi. Il primo è che una parte consistente, il 28,4%, è costituito da titoli che sono nelle mani della Social Security oppure della Federal Reserve, si tratta quindi di debiti nei confronti di altre entità governative. Nel caso della Social Security, il grosso fondo di riserva accumulato dal 1983 ad oggi (2.760 miliardi di dollari) diminuirà lentamente nell’arco dei prossimi 20 anni, fino al 2033, se non vengono modificate le prestazioni, o i contributi attualmente versati dai lavoratori attivi. Le ragioni sono demografiche: già da qualche anno stanno andando in pensione le classi demografiche particolarmente numerose dei nati fra il 1946 e il 1964, i cosiddetti baby boomers. Ma il Congresso ha tutto il tempo di rimettere in equilibrio il sistema: sarebbe sufficiente, per esempio, aumentare il tetto di 113.700 dollari di stipendio annuo oltre il quale non si pagano più contributi pensionistici, il che fa della Social Security una tassa fortemente regressiva (e la ragione per cui la segretaria dell’amministratore delegato paga una maggiore percentuale del proprio reddito al fisco americano).
Il secondo motivo che mette in sicurezza il debito pubblico americano è il “privilegio imperiale” di battere una moneta da tutti accettata come strumento di pagamento internazionale e di riserva valutaria. Per esempio, la Cina detiene ben 1.280 miliardi di dollari di T-bond, di cui non può certo disfarsi dato il legame a doppio filo tra il suo sistema produttivo e le esportazioni verso gli Stati Uniti (si pensi solo ai prodotti Apple, tutti fabbricati nelle fabbriche Foxconn). Il Giappone, a sua volta, ha in cassaforte 1.100 miliardi di dollari e i rapporti militari e diplomatici con gli Stati Uniti impediscono, anche in questo caso, una politica di diversificazione delle riserve monetarie, se non in misura minima. In sostanza, il debito americano è per la stragrande maggioranza nelle mani di paesi amici, che lo considerano completamente al sicuro da rischi di insolvenza.
Infine, il debito oggi costa poco: se nel 2000 in media i titoli degli Stati Uniti pagavano il 6,63%, la politica monetaria perseguita dalla Federal Reserve negli ultimi anni ha fatto scendere questa cifra al 2,43%, un livello storicamente molto basso, a tutto vantaggio per le finanze del governo federale.
Non ci sono, quindi, veri motivi per accanirsi sul debito, se non il furore ideologico dei Repubblicani, ben decisi a far “fallire” la presidenza Obama impedendo l’attuazione della riforma sanitaria e prolungando la stagnazione dell’economia (Krugman ha calcolato che, se fossero state mantenute le riduzioni fiscali per le famiglie a basso reddito e fosse stata prolungata la durata delle indennità di disoccupazione la ripresa economica sarebbe stata ben più vigorosa).
Il problema del debito è tutto politico ma su questo fronte non ci sono soluzioni all’orizzonte: il meccanismo del gerrymandering, il “ritaglio” delle circoscrizioni elettorali fatto su misura per garantire la rielezione dei deputati uscenti, ha creato centinaia di collegi in cui questi non hanno alcun timore di perdere le prossime elezioni, qualunque posizione prendano e qualunque follia compiano. Una situazione destinata a influenzare anche il risultato delle elezioni congressuali del novembre 2014. Su questo sfondo, i ricatti della maggioranza repubblicana alla Camera rischiano di assumere ancora maggior peso tra dicembre e gennaio, data entro cui il Congresso e la Casa Bianca devono trovare un nuovo accordo fiscale. È possibile quindi che Obama si trovi così costretto a varare un budget di austerità che danneggerebbe la ripresa economica americana e, con essa, anche le economie europee.