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I partiti di sinistra in Europa: difficoltà contingente o crisi profonda?

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A pochi mesi dal voto per il Parlamento europeo, che deciderà la forma e la sostanza di molti rapporti di potere all’interno delle istituzioni comunitarie, le forze politiche della sinistra tradizionale (quella raccolta sotto le insegne del Partito socialista europeo, PSE), appaiono nella maggior parte dei casi in cattive condizioni. Si tratta di una crisi fisiologica, dettata dalla semplice alternanza con il campo conservatore – alla fine degli anni ’90 la sinistra era al governo nei quattro più importanti Stati dell’UE – oppure le difficoltà attuali hanno radici più profonde?

A un primo sguardo, la situazione potrebbe non sembrare così critica: i progressisti compaiono negli esecutivi di tredici paesi (su ventotto) dell’Unione. Si tratta però molto spesso di coalizioni con i partiti conservatori, ed è una novità nella politica europea, abituata tranne poche eccezioni a considerare la frattura destra-sinistra invalicabile: questo accade in Italia, Belgio, Austria, Slovenia (dove i governi sono capeggiati da socialisti o liberali), Paesi Bassi, Grecia, Lussemburgo e molto probabilmente Germania (in cui a guidare il paese c’è un esponente della destra).

In molti credevano che lo scoppio della crisi economica internazionale avrebbe infine favorito un rafforzamento generale delle forze di sinistra, considerata la sua origine nelle storture e nei difetti del capitalismo finanziario cresciuto a dismisura nell’ultimo trentennio e sostenuto direttamente da una parte importante dei partiti e della cultura politica di destra. Così non è stato. Nonostante gli ultimi cinque anni abbiano sconvolto i panorami politici di molte aree d’Europa, partiti riconducibili al PSE sono al governo – da soli o a capo di coalizioni progressiste – esclusivamente in Francia, Romania, Danimarca, Croazia, Slovacchia e Malta.

Nella parte orientale del continente, colpita pesantemente dalla congiuntura negativa, successi e insuccessi delle forze di sinistra sono riconducibili a due tendenze di fondo. Da un lato, una fragilità intrinseca derivante dall’eredità di quasi mezzo secolo di regime imposto da Mosca: una parte dei funzionari e dei quadri di questi partiti è ancora legata in qualche misura al vecchio potere, o così viene percepita. Le varie sfumature in cui si divide oggi il forte campo conservatore (destra tradizionalista, religiosa, liberale, ecc.) impediscono alle sinistre di occupare uno spazio politico significativo; le forze progressiste di recente fondazione non hanno ancora un radicamento sufficiente. È una situazione che si verifica nei paesi baltici, in Polonia, in Ungheria e in misura minore in Repubblica Ceca.

In altri casi, soprattutto negli Stati entrati più recentemente e con più difficoltà nell’Unione Europea, le forze di sinistra (liberale) hanno rappresentato, come in Slovacchia e Croazia, l’alternativa a vecchi e corrotti partiti nazionalisti fondamentalmente contrari all’aggancio dei loro paesi all’orbita di Bruxelles.

Anche in Europa Occidentale la debolezza attuale dei partiti di sinistra va ricondotta non solo alle esperienze dei singoli paesi, ma soprattutto a ragioni strutturali, insite nelle trasformazioni economico-sociali degli ultimi trent’anni. Dopo la seconda guerra mondiale, la sconfitta del nazi-fascismo aveva delegittimato e indebolito anche tutte le forme della destra democratica e invece rafforzato quelle della sinistra, sia socialdemocratica che comunista. Questa preponderanza culturale, e l’affermarsi dell’idea che bisognasse consentire il libero sviluppo della personalità individuale nelle condizioni della massima eguaglianza possibile, permise la creazione del maggiore lascito politico ed economico di quell’epoca: lo Stato sociale.

Successivamente, il passaggio da un’economia industriale ad alta intensità di lavoro (operaio) a un’economia finanziaria in cui il lavoro perdeva la sua centralità a beneficio del credito e del consumo, tendenze mondiali come l’invecchiamento della popolazione e lo spostamento dei centri di produzione in altri continenti, e non ultima la caduta del comunismo, resero improvvisamente urgente un aggiornamento dell’impianto teorico alla base dei partiti classici che avevano dominato fino ad allora la scena.

La sinistra europea è riuscita ad adattarsi meno della destra a un tale cambiamento. Non che questo comporti la fine o l’inevitabile declino di una cultura politica con più di duecento anni di storia. Negli ultimi decenni però, la sinistra socialdemocratica, sopravvissuta a quella comunista – ma indirettamente delegittimata anch’essa dalla sconfitta del modello socialista sovietico – ha finito tendenzialmente per rinunciare all’idea di cambiare le leggi economiche (in varie fasi apparse trionfanti) che regolavano il mondo.

L’accettazione della quasi intangibilità del libero mercato era un salto teorico molto impegnativo per la sinistra, essendo essa idealmente costruita sul principio per cui le grandi leggi che regolano il mondo andassero cambiate a favore di una situazione di maggiore giustizia. Tuttavia, l’apparente floridità economica degli anni ’90 e 2000 rimandò gli effetti politici di quella che potrebbe essere anche definita come una colonizzazione culturale da parte della destra liberale. In quel periodo, avendo rinunciato all’ambito economico, i partiti progressisti concentravano i propri sforzi di trasformazione sociale sull’allargamento della sfera dei diritti individuali – con le unioni civili e il matrimonio omosessuale, ad esempio.

Non è stato un processo univoco, né rapido, né unidirezionale. Il partito socialista di Lionel Jospin introduceva in Francia le trentacinque ore settimanali alla fine degli anni ’90 – forse l’unica consistente riduzione dell’orario di lavoro sancita per legge dell’ultimo trentennio. Nello stesso momento, però, i grandi partiti di sinistra inglesi ed italiani compivano una significativa svolta in favore dei principi economici liberali; pochi anni dopo, sarebbero stati seguiti sullo stesso terreno dai socialdemocratici tedeschi di Schroeder e dai socialisti spagnoli di Zapatero.

La crisi economica ha reso evidente questa incongruenza fondamentale, e la mancanza di una proposta politica adeguata ai tempi. Lì dove governavano, i partiti di sinistra hanno risposto alla crisi con le stesse ricette proposte altrove dai colleghi conservatori, e l’elettorato li ha duramente puniti. Lì dove l’elettorato ha invece punito la destra di governo (come in Francia), i socialisti tornati al potere sono stati percepiti come incapaci di mettere in pratica politiche sostanzialmente differenti. In altri casi ancora, dove  hanno voluto recuperare una dimensione di critica economica e sociale elaborando un programma più radicale, si sono scontrati con la realtà della formazione liberale dei propri stessi leader: è ciò che è successo ai socialdemocratici durante la campagna elettorale tedesca.

Le sinistre devono poi fare i conti con un’ormai chiara incapacità di catturare il voto di protesta, che si distribuisce su vecchi e nuovi soggetti politici secondo distinzioni che ben poco hanno a che fare con la contrapposizione progressisti/conservatori. I delusi dalla classe politica tradizionale, i più critici nei confronti dell’Unione Europea, i fautori della difesa delle tradizioni locali, le classi sociali più colpite dalla crisi: tutte queste categorie di cittadini solo raramente considerano la sinistra un’opzione praticabile. Non è un caso che in molti paesi europei, quelli che erano dei grandi partiti di massa rappresentino oggi all’incirca un quarto di tutti i votanti.

Le varie anime della destra, che soffrono anch’esse una crisi esistenziale dovuta ai fattori globali sopra ricordati, sono però risultate più adatte ad offrire dei punti di riferimento a una società più insicura, instabile e impaurita – sebbene i risultati pratici dell’azione politica siano sempre piuttosto scarsi. In attesa del rinnovamento culturale di entrambe le grandi famiglie politiche – che non sembra nell’agenda immediata dei partiti – il PSE deve probabilmente prepararsi a una serie di debacle di grandi proporzioni.