Tra settembre e inizio ottobre sì è avuta la convergenza sulla Casa Bianca di una serie di momenti decisionali, sul piano interno e internazionale, che potrebbero definire gli ultimi tre anni dell’amministrazione Obama. Si stanno in pratica fissando i criteri in base ai quali l’America mobiliterà il suo peso internazionale: in che situazioni lo farà con cautela estrema e moderazione, e in che situazioni invece con assoluta libertà di manovra unilaterale.
Il primo episodio, a metà settembre, è stato la scelta di concentrare l’attenzione della comunità internazionale sull’arsenale chimico siriano (adottando il “piano russo”) invece che sull’uso di strumenti militari convenzionali contro gli avversari del regime ma anche la popolazione civile. Così facendo, la questione siriana è stata impostata in modo assai diverso rispetto agli ultimi mesi, portandola di nuovo sul piano multilaterale, rendendo improbabile un ricorso alla forza in tempi brevi, e soprattutto lasciando che le dinamiche interne del conflitto seguano il loro tragico corso. Come è ben noto, sono molte le influenze esterne sulla guerra civile in Siria, e gli sforzi di Washington sembrano ora concentrarsi sulla costruzione di una specie di cordone sanitario con la collaborazione almeno tacita degli attori regionali, compreso l’Iran: l’obiettivo primario è impedire almeno che la crisi si trasformi in un grande conflitto mediorientale senza confini.
Qui si inserisce l’apertura all’Iran, essenziale proprio per scongiurare il pericolo di una spirale di conflittualità – non solo tra Washington e Teheran ma anche tra quest’ultima e Riyād, con ripercussioni negative o imprevedibili su Israele, la Turchia e altri partner americani. Non appena Obama ha intravisto un’opportunità di cambiare discorso (rispetto alla Siria in quanto tale) per parlare di Iran (e con l’Iran) lo ha fatto. È questo il senso della repentina transizione a cui abbiamo assistito: dal dibattito su un imminente intervento aereo contro le forze di Assad a un dialogo regionale incentrato sul nuovo presidente iraniano Rohani – affrontando anzitutto il maggiore problema sul tappeto, cioè quello nucleare, ma con implicazioni più ampie. Insomma, sebbene la strategia americana sia apparsa confusa, e timorosa perfino delle proprie stesse scelte pregresse (la famigerata “linea rossa” sull’uso delle armi chimiche), da una fase di drammatica incertezza sta emergendo una visione complessiva, anche se dai contorni ancora poco definiti.
Poi è arrivato il caso più macroscopico di tirannia della politica interna: lo shutdown governativo per la questione irrisolta del bilancio federale. È una vicenda che senza dubbio danneggia il cosiddetto soft power degli Stati Uniti nel mondo – oltre che naturalmente la fiducia dei loro cittadini nelle istituzioni – e che frena la proiezione internazionale del governo.
L’ultimo episodio di queste settimane, conseguenza diretta proprio dello shutdown, è stato la scelta di disdire la partecipazione di Obama al vertice dell’APEC a Bali di inizio ottobre. I paesi rappresentati al summit annuale sommano circa il 45% del commercio mondiale, e l’assenza del presidente americano lascia inevitabilmente maggiore spazio all’attivismo cinese e russo (Xi e Putin). È una situazione che stride davvero con l’idea stessa di un “Pivot to Asia”. Sembra piuttosto di assiste ad un “Pivot to Washington”: per la prima volta dal 2008 si ha veramente la sensazione che gli Stati Uniti possano lasciare campo libero ad altre potenze su alcuni dossier di primaria importanza.
La combinazione di questi recenti episodi riflette soprattutto vincoli auto-imposti, cioè una specifica valutazione degli interessi nazionali fatta dall’amministrazione Obama. Ecco perché non si deve interpretare la tendenza in atto come una sorta di abdicazione indiscriminata: in effetti, le priorità americane si riducono per quantità ma non per intensità. Pertanto, su un tema come il programma nucleare iraniano la leadership esercitata da Washington sarà probabilmente forte e decisa, sia sul binario diplomatico che eventualmente su quello di un’ulteriore stretta sanzionatoria o perfino di azioni coercitive se il canale negoziale dovesse bloccarsi.
In sostanza, una selezione più rigorosa degli impegni diretti significa potenzialmente un’azione anche più incisiva sulle priorità selezionate, visto che su di esse si possono concentrare più risorse. Se ne è avuta una prova palpabile tra il 4 e 5 ottobre, con la sequenza ravvicinatissima di operazioni clandestine e chirurgiche di forze speciali in Somalia e Libia contro gruppi apparentemente affiliati ad Al-Qaeda. Cambiano gli strumenti che l’America impiega per perseguire i propri obiettivi, ma non dobbiamo travisare il ricorso ai droni o ai negoziati come se sancisse una sconfitta strategica della superpotenza. Dal 2008 Obama non si stanca di ripetere che il XX secolo è finito e che nel nuovo secolo le leve del potere sono diverse; questo presidente non sarà ricordato come un grande operatore della macchina politica, in particolare nei rapporti con il Congresso, ma certo ha ben compreso i limiti che quel sistema impone all’azione internazionale dell’esecutivo. In questi giorni, Washington è letteralmente bloccata dai dissidi tra una agguerrita minoranza al Congresso e la Casa Bianca; eppure, la politica estera americana non è morta.