Quello del rapporto tra religione e conflitto è uno dei temi più spinosi della realtà contemporanea. Come osservato da Jonathan Fox, che è docente su questi temi all’università Bar-Ilan in Israele, i conflitti che coinvolgono la religione sono tra i più difficili da circoscrivere, con la conseguenza che spesso – anche grazie ai nuovi media – passano rapidamente dall’ambito locale a quello globale.
C’è motivo di temere che questo sia il caso anche dei recenti eventi della Birmania (Myanmar), dove nelle ultime settimane sono stati riportati violenti scontri tra esponenti della maggioranza buddhista e delle minoranze musulmane, in particolare nella città di Meiktila, nel centro del paese. Dopo una lite iniziata pare per motivi commerciali, folle appartenenti alla religione maggioritaria hanno assaltato le case dei musulmani e i loro negozi e moschee, causando scontri con decine di morti e addirittura migliaia di sfollati. I disordini di Meiktila seguono quelli dello scorso anno della regione di Rakhine, al confine con il Bangladesh, dove è stanziata la minoranza etno-religiosa musulmana dei Rohingya, che conta circa 800mila persone. Anche in quel caso, una disputa locale dovuta allo stupro di una ragazzina buddhista si era trasformata in una disputa etno-religiosa su vasta scala, con decine di morti e oltre 100mila sfollati, che aveva attratto l’attenzione di ONG come Human Rights Watch (che ha parlato di “pulizia etnica”).
Scontri di questo tipo non sono inusuali in casi come quello della Birmania, dove ad un basso tasso di sviluppo si accompagna un difficile e ancora incerto processo di regime change. Nel 2011 un governo semi-civile – ma sempre sotto lo stretto controllo dell’esercito – ha infatti preso il posto della giunta militare che aveva governato il paese quasi ininterrottamente per mezzo secolo. Molti addebitano questa conflagrazione di violenza all’allentarsi del controllo poliziesco, che non solo ha eliminato alcuni vincoli all’espressione identitaria, ma ha permesso anche un maggiore uso dei media e di internet.
Ciò che ha tuttavia colpito l’opinione pubblica internazionale – riuscendo a conquistare la copertina di Time – è tuttavia il ruolo attivo giocato negli scontri da numerosi monaci buddhisti, che avrebbero svolto un ruolo chiave sia nell’ispirare sia nel guidare i disordini. Ciò – benché molti monaci si siano dissociati dall’accaduto – mette in discussione la visione stereotipica del buddhismo come religione pacifista e poco orientata al coinvolgimento nelle contese politiche. Una visione che i religiosi birmani hanno già sfidato nel 2007, quando proprio la loro partecipazione diede il nome alla cosiddetta “rivoluzione zafferano”: un’ampia ondata di protesta che coinvolse il paese, prima di essere sedata dai militari. Oggi, a conquistare l’attenzione della stampa internazionale non è più la lotta per la democrazia, ma quella in favore di una patria birmana “pura” in senso buddhista, e libera dalla “minaccia” musulmana. I leader del movimento – come il monaco Wirathu, che guida un gruppo denominato “969” (dal numero delle virtù del Buddha, della legge e della comunità buddhista) – non esitano a definire i musulmani come una minaccia per l’identità religiosa del paese, in virtù della loro maggiore prolificità e delle loro risorse economiche. E, pur rifiutando ufficialmente ogni coinvolgimento negli scontri, vi vedono una dimostrazione di forza da parte dei buddhisti.
Questo tipo di dinamiche di scontro interreligioso sono sempre meno rare in Asia meridionale e sud-orientale, non solo in India (dove la retorica dei nazionalisti religiosi indù contro i musulmani somiglia molto a quella dei nazionalisti buddhisti birmani) ma anche in altri paesi della regione come la Thailandia (dove, tuttavia, è la maggioranza buddhista a doversi confrontare con una insurgency di carattere violento nelle regioni musulmane). Per il caso birmano, sorge soprattutto il paragone con Sri Lanka, dove per decenni i monaci buddhisti sono stati parte attiva non solo a livello governativo, ma soprattutto nella lotta decennale contro le “tigri” Tamil di religione indù. Anche in quel caso, si lamenta la minaccia rappresentata dalle minoranze – quella indù, ma sempre più, negli ultimi anni, anche quella musulmana – per la “purezza” del paese, ritenuto la patria dell’autentico buddhismo. Non è un caso che proprio da questo paese sia giunto appoggio alle proteste sorte in Birmania contro la pubblicazione di Time (che titolava “Il volto del terrore buddhista”), arrivando a bandire la pubblicazione.
Le vicende birmane non hanno tuttavia attirato l’attenzione solo del resto della galassia buddhista, ma anche quella del mondo musulmano, che ha una lunga tradizione di lotta transnazionale a favore dei correligionari – dalla Palestina, alla Bosnia, alla Cecenia fino a Iraq e Afghanistan. Sono così arrivate dichiarazioni a favore delle popolazioni musulmane della Birmania da parte della Guida suprema iraniana Khamenei, di Hezbollah libanese, dei talebani afghani e di gruppi jihadisti pakistani. Non è ancora detto che questo si traduca effettivamente in un fronte internazionale di jihad a favore dei Rohingya e delle altre minoranze musulmane birmane, ma ciò potrebbe succedere se le violenze degli ultimi mesi non rimanessero un fatto occasionale. Una circostanza che potrebbe ulteriormente essere favorita dalla transizione di regime in corso: non solo per il parziale vuoto di potere che si è creato e che potrebbe aumentare in vista delle prossime elezioni del 2015, ma anche per il rischio che elementi del regime, o altre forze politiche, decidano di puntare proprio sul nazionalismo religioso e sull’ostilità verso le minoranze per costruire la propria fortuna politica.
Nel complesso, le vicende birmane mostrano ancora una volta la problematicità di associare ad una confessione religiosa un comportamento predeterminato in campo politico: a contare sono più spesso le tradizioni culturali locali, le contingenze socio-economiche e le scelte degli ideologi politici. E mostrano come, all’interno di qualsiasi tradizione religiosa, sia cruciale la capacità di gestione politica delle crisi, che da incidenti locali possono sempre più facilmente allargarsi in conflitti di più ampio respiro.