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Il ruolo chiave dei militari egiziani

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Le forze armate sono talvolta decisive nelle fasi in cui una società vede spezzarsi del tutto il rapporto di fiducia, o almeno di acquiescenza, tra cittadini e organi di governo. Come in Egitto, l’esercito diventa allora l’unico argine che può fermare una deriva verso la guerra civile e l’uso della forza da parte di gruppi armati irregolari. In questi giorni, nonostante alcuni episodi violenti, abbiamo visto le uniformi fare da vero contingente di interposizione tra enormi masse di manifestanti che rischiavano di creare una situazione letteralmente esplosiva.

I militari egiziani svolsero un ruolo chiave nella deposizione di Hosni Mubarak (come naturalmente nella sua ascesa al potere) e nella delicatissima transizione del 2011; mantenendo la promessa di assumere poteri soltanto temporanei, consentirono le elezioni che portarono al governo il partito dei Fratelli musulmani. Da quel momento, sono sembrati scendere a patti col nuovo vertice politico, senza però legare il proprio destino a quello del presidente Morsi e dei suoi compagni, e mantenendo in effetti (come è emerso ora chiaramente) un atteggiamento di cauto scetticismo.

Questi sviluppi egiziani si possono analizzare anche sulla scia di altri casi che presentano qualche analogia, come la lunga (pluridecennale) transizione turca che ha progressivamente sviluppato un sistema politico con molte garanzie democratico-costituzionali a partire da un ruolo centrale delle forze armate. Un sistema certo non privo di pecche, ma capace di resistere all’urto della modernità.

Oggi anche l’esercito egiziano è così in grado di assolvere un compito utile e costruttivo: fare da elemento di equilibrio e compensazione a fronte delle oscillazioni repentine di un’opinione pubblica confusa e delusa dall’operato dell’esecutivo, ma anche attiva, coraggiosa e, soprattutto nelle fasce più giovani di età, direttamente mobilitata. Se i leader militari sapranno assumere un atteggiamento illuminato e dunque limitato, potrebbero facilitare una specie di transizione guidata: l’obiettivo è facilitare la trasformazione delle piazze in movimenti civici che trovino uno sbocco naturale nella competizione politica, e rendere l’esecutivo più sensibile al clima sociale e meno tentato da soluzioni “super-maggioritarie” nella peggiore tradizione presidenzialista. È vero infatti che la piazza anti-Morsi ha decretato il destino di un governo eletto, ma è altrettanto vero che quel governo si era mostrato insensibile a richieste pressanti di compromessi e maggiore apertura.

Alcune caratteristiche dell’esercito egiziano fanno sperare che tale funzione costruttiva sia possibile: un fondamentale senso dello stato come corpo unitario, un approccio decisamente laico ma pragmatico, e una certa esposizione internazionale dei livelli più alti e meglio istruiti (in particolare attraverso il rapporto diretto con gli Stati Uniti, fatto di oltre un miliardo di dollari l’anno in aiuti ma anche di contatti diretti a più livelli).

Un dato particolarmente positivo è che in Egitto l’esercito non è oggi legato a un singolo gruppo dirigente, come è ad esempio il caso della Siria (sopratutto ai livelli di comando), né rischia di frammentarsi lungo linee claniche, come è accaduto nel caso della Libia. Può dunque fare da collante nazionale, a condizione di mantenersi fuori dalla gestione quotidiana delle scelte politiche ed evolvere anche nei modi di esercizio delle proprie funzioni: non possiamo dimenticare il ruolo spesso brutale che soprattutto le forze di polizia hanno svolto nel perpetuare il regime di Mubarak fino al gennaio 2011, sebbene quella memoria sembri oggi temporaneamente rimossa dall’entusiasmo popolare. Oltre alle questioni costituzionali (in particolare sulle prerogative presidenziali e sul ruolo della shari’a) che sono state in parte all’origine delle proteste contro il governo Morsi, restano aperti molti quesiti sul rapporto tra cittadini e apparato di sicurezza che non saranno facili da affrontare.

Inoltre, se le forze armate finiscono per considerarsi l’unico vero garante dell’ordine statuale, c’è il concreto rischio che mettano sotto tutela qualsiasi regime politico – anche il più democratico e liberale – qualora questo vada a colpire gli interessi dell’apparato. Ci può così essere la tentazione di stringere alleanze con qualunque movimento o gruppo che sia disposto a rispettare gli interessi costituiti dei militari e magari la loro presenza permanente nel sistema economico, con effetti distorsivi anche sullo sviluppo. In ogni caso, l’esercito può teoricamente diventare il braccio armato di chiunque se non si percepisce come parte integrante di un sistema costituzionale. In breve, lo “stato di eccezione” deve rimanere tale per non minare alla base le prospettive di consolidamento di un ordine liberale.

Quasi tutti questi dilemmi sono stati affrontati, a più riprese, anche dalla Turchia (in un contesto comunque diverso, peraltro culturalmente non arabo) e si ripresenteranno altrove nella regione. Tuttavia, gli aspetti peculiari della vicenda egiziana sono importanti, a cominciare dalla velocità dei cambiamenti avvenuti con l’esplosione della primavera araba. Quando tutto avviene a ritmo accelerato, le istituzioni non hanno il tempo di adattarsi, né la società  civile di trovare un equilibrio tra protesta e rispetto delle regole fondamentali, tra desiderio di miglioramenti rapidi ed esigenza di stabilità.

Su questo sfondo di incertezze, l’Egitto ha comunque superato un momento di rischio altissimo con il contributo decisivo delle sue forze armate. Ora deve darsi regole formali e prassi politiche che consentano una migliore selezione delle classi dirigenti soprattutto per la gestione dell’economia. Non va infatti dimenticato che la scintilla per quest’ultima sollevazione popolare, come del resto quella di due anni e mezzo fa, è scoccata in buona parte per le condizioni economiche – e oggi non ci si può aspettare che le forze laiche finora all’opposizione (e tantomeno l’esercito) trovino soluzioni quasi magiche per rilanciare la crescita, l’occupazione e il tenore di vita. Sarà quindi necessario che, anche in presenza di un governo più inclusivo e di una costituzione più ampiamente rappresentativa delle varie componenti sociali, tutti tengano sotto controllo le aspettative e le promesse, lavorando per migliorare anzitutto le prospettive economiche.

 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Il Messaggero il 6 luglio 2013.