Le proteste che hanno scosso la Turchia negli ultimi giorni hanno poco a che vedere con gli alberi del parco Gezi. Quella che ha colpito prima Istanbul, e successivamente tutte le città principali della Turchia, sembra essere l’onda lunga dei problemi istituzionali che la Turchia coltiva da decenni: sono problemi che l’AKP, il partito del primo ministro Recep Tayyip Erdogan, ha finora sfruttato a proprio vantaggio e in parte esasperato.
Quando, nell’aprile 2007, Erdogan annunciò la candidatura di Abdullah Gul (una delle figure politiche più importanti all’interno dell’AKP) a presidente della Repubblica, gli ambienti secolaristi insorsero contro quella che percepivano una minaccia ad un bastione istituzionale dell’identità secolare della Repubblica. Quella che un tempo era la posizione del fondatore della Repubblica Mustafa Kemal Ataturk, e che negli anni era stata occupata rigorosamente da generali in pensione o da figure politiche vicine al Kemalismo, era per loro minacciata dalla scelta unilaterale dell’AKP di presentare un candidato dal background islamista. I vertici delle forze armate pubblicarono un comunicato via internet, ribadendo di essere fedeli ai principi del Kemalismo e pronti ad intervenire nel caso in cui questi venissero violati – una critica non solo verso le posizioni politiche dell’AKP e di Gul in particolare, ma anche verso un accentramento dei poteri nelle mani del partito, che già godeva di una solida maggioranza parlamentare. Qualche giorno dopo, milioni di turchi scesero in piazza per una protesta pacifica contro la candidatura di Gul, molti abbracciando il nuovo slogan “né sharia, né golpe”: con ciò volevano indicare come non fossero disposti ad accettare un più forte ruolo della religione nella politica, ma pretendevano anche che i militari, autori di quattro colpi di stato (il più recente nel 1997) e tradizionalmente considerati i protettori del carattere secolare della Repubblica, restassero fuori dalla questione.
Per quanto le proteste fossero numericamente imponenti, l’altra “metà silenziosa” della società turca si manifestò in occasione delle elezioni generali che si tennero nel luglio 2007, e che elessero Erdogan, per il secondo mandato, con il 46% dei voti. I due maggiori partiti all’opposizione, il secolarista e Kemalista CHP ed il nazionalista MHP, ottennero rispettivamente il 20% ed il 14%. Gul venne successivamente eletto presidente con il solo voto dei parlamentari dell’AKP, nonostante l’opposizione del CHP e del MHP.
La Turchia che è scesa oggi in piazza è per alcuni aspetti simile a quella del 2007, ma nel frattempo sono intervenute delle differenze fondamentali che vanno tenute in considerazione. Erdogan ha ottenuto un terzo mandato, nel 2011, con il 49% dei voti. Il CHP ha tentato la via del cambiamento interno, sostituendo il leader tradizionalista Deniz Baykal con Kemal Kilicdaroglu, che sulla carta avrebbe dovuto portare nuove idee ed energie nel partito. Ma il cambiamento non si è materializzato, e dopo un risultato elettorale al di sotto delle aspettative nel 2011 (25%), il CHP è progressivamente e pigramente ritornato su posizioni più tradizionaliste – tutela del Kemalismo, ed opposizione totale alle iniziative dell’AKP.
Nel frattempo, il terremoto dei processi Ergenekon e Balyoz, nei quali si indaga un presunto network clandestino che avrebbe operato per facilitare un colpo di stato militare dopo l’ascesa al potere dell’AKP, ha scosso gli ambienti delle forze armate; l’arresto di centinaia di ufficiali ha avuto il risultato di delegittimare, almeno temporaneamente, la presenza dei militari nella politica interna turca, riducendone drasticamente l’influenza. In questi anni, i critici dei casi Ergenekon e Balyoz hanno sollevato l’ipotesi che i due processi siano nientemeno che una purga delle forze armate, il “nemico eccellente” dell’AKP, e delle voci più critiche nei confronti del governo: in effetti, decine di giornalisti sono attualmente in prigione con l’accusa di essere membri di Ergenekon, molti dei quali per accuse basate sulle critiche nei confronti del governo che avevano espresso sui media turchi. La crisi politica del 2007 aveva già fortemente ridimensionato le aspettative politiche dei militari, che dovettero farsi da parte davanti alla maggioranza schiacciante ottenuta dal partito di Erdogan ed alla totale assenza di alternative politiche che potessero garantire stabilità al paese. Indipendentemente dalla regolarità dei processi, gli arresti compiuti negli ultimi anni (sono circa 400 gli ufficiali in carcere) hanno poi contribuito sia ad isolare i membri più radicali delle forze armate, che a marginalizzare le opinioni dei generali.
Dopo avere consolidato il suo potere politico, avere ridimensionato l’influenza politica dei militari, e zittito le voci più critiche, Erdogan sembra aver creato le condizioni ideali per portare avanti l’agenda politica dell’AKP senza particolari problemi. Ed è sul tema più ampio dell’accentramento di poteri e della “democrazia a singhiozzo” che convergono ideologicamente i manifestanti del parco Gezi. L’idea portata in piazza è di reagire nei confronti di quella che viene percepita come la crescente arroganza ed insofferenza verso il dialogo politico del premier Erdogan. I (pochi) attivisti che hanno in un primo momento occupato il parco Gezi qualche giorno fa, sono stati fatti sgomberare tramite un dispiegamento di forze di sicurezza sproporzionato, che ha impiegato metodi a loro volta sproporzionati e brutali nei confronti di una manifestazione pacifica e limitata. Da quel momento in poi, tutto il risentimento covato negli ultimi mesi nei confronti di Erdogan, delle recenti riforme e progetti imposti unilateralmente, e della sua insofferenza verso le critiche, sono esplose nelle grandi proteste che hanno attirato anche l’attenzione internazionale. Il fatto che i media turchi, al contrario, abbiano volontariamente ignorato le manifestazioni (sono ormai divenuti un simbolo i pinguini del documentario che CNNTurk trasmetteva mentre CNN International mostrava in diretta gli scontri tra manifestanti e polizia) non ha fatto altro che radicalizzare ulteriormente la protesta, ed esporre ancora di più quanto il “sistema Turchia” soffra dell’accentramento di potere e della mancanza di contrappesi politici istituzionali ed informali.
Tra i gruppi che protestano esiste una piccola minoranza, formata da alcuni circoli ultranazionalisti e Kemalisti, che vorrebbe l’intervento dei generali; l’aspettativa, però, si infrange contro il fatto che non ci sono le condizioni politiche e sociali che in passato hanno portato all’intervento dei militari. Al contrario, la vasta maggioranza dei manifestanti è in piazza per reclamare un’autonomia di scelta su questioni sociali sulle quali, proprio come fecero i militari in passato, Erdogan pretende un monopolio decisionale.
Lo stile ruvido ed autoritario dell’Erdogan degli ultimi tempi ha semplicemente innescato dinamiche che covavano da tempo in quella parte di società turca che si oppone all’AKP, così come in quelli che si aspettavano un AKP più moderato. Ciononostante, il peso elettorale di Erdogan non va trascurato: dal 2002, le elezioni generali si sono regolamente trasformate in plebisciti per il suo partito, mentre il CHP ha sistematicamente arrancato, e lo sbarramento al 10% non ha permesso ai partiti più piccoli di emergere. Forte della posizione conquistata nei dieci anni passati al potere, consapevole delle dinamiche politiche del paese e, soprattutto, fedele a se stesso, Erdogan ha dato prova di quanto sia indifferente alle proteste: ha puntato il dito contro la stampa internazionale, i social network, ed i servizi segreti di paesi stranieri, che sarebbero responsabili rispettivamente di avere dato un’immagine distorta della Turchia, di avere diffuso notizie false, e di avere fomentato le proteste.
C’è, in sostanza, una frattura tra due concezioni diverse di democrazia. Da una parte, quella società turca che protesta contro un modello di democrazia che, nonostante i passi avanti dell’ultimo decennio, mantiene il carattere rigido e centralizzato definito dall’attuale Costituzione, voluta dai militari all’indomani del colpo di stato del 1980. Dall’altra Erdogan, il suo progetto politico, ed una Turchia “silenziosa” che lo sostiene.