Esistono luoghi in America dove la recessione non è mai finita perché, semplicemente, non è mai arrivata. Fra questi ci sono alcune aree metropolitane nelle quali la popolazione ha continuato a crescere durante gli anni della crisi, a tal punto che il mercato immobiliare non ha mai smesso di espandersi perché surriscaldato dalla sua stessa incapacità di fronteggiare una domanda in forte ascesa.
Fra le aree metropolitane che fra il 2011 e il 2012 sono cresciute di più in termini demografici, ci sono quelle di Odessa e di Destin, rispettivamente in Texas e Florida: si tratta di agglomerati urbani di taglia media-piccola le cui economie si sono avvantaggiate dell’espansione della locale industria dell’estrazione del petrolio e della ripresa delle “migrazioni pensionistiche” che portano gli anziani del Nord a preferire per la vecchiaia regioni più temperate. Entrambe le città si trovano infatti nella cosiddetta Sunbelt. L’ultimo rivolgimento geografico di grande importanza di cui ha fatto esperienza il paese risale infatti al grande riequilibrio fra Rustbelt – gli stati del nordest e del Midwest – e Sunbelt – gli stati del sud e dell’ovest – generatosi a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso. Quel passaggio ha sconvolto gerarchie urbane e regionali che sembravano destinate a durare ancora a lungo, rimescolando la graduatoria delle città non solo dal punto di vista della popolazione ma anche da quello del loro peso politico ed economico. Non ci si stancherà mai di citare il caso di Las Vegas, una sonnolenta stazione nel deserto abitata da qualche migliaio di persone subito dopo la seconda guerra mondiale e diventata oggi, a distanza di poco più di cinquant’anni, un’area metropolitana di oltre un milione e mezzo di abitanti. Un’espansione resa possibile da un tasso di incremento demografico che nell’intero periodo ha superato il 1.200%.
Ancora più interessanti però sono i casi di crescita demografica e urbana accelerata che si stanno verificando in aree rimaste periferiche anche nella nuova geografia dello sviluppo del paese. Diversamente dall’ascesa della Sunbelt, la crescita di queste aree non dipende da un complesso insieme di fattori – vantaggi localizzativi, struttura dei costi, investimenti pubblici, fattori ambientali – bensì dall’espansione di una sola industria, quella energetica. È il caso soprattutto di alcuni stati della regione dei Great Plains dove si stanno concentrando le nuove attività di estrazione di gas e petrolio legate alle tecniche del cosiddetto fracking. Queste erano, un tempo, zone a scarsissimo popolamento caratterizzate da una spiccata specializzazione nella produzione di alcune colture di base nel sistema altamente industrializzato e ingegnerizzato dell’agricoltura nordamericana; si stanno ora convertendo a un nuovo ruolo che le vede fra gli epicentri di un nuovo settore industriale considerato di rilevanza strategica a Washington. Il caso del North Dakota è esemplare di questa tendenza. A partire dal 2008, lo stato ha vissuto un vero e proprio boom dell’estrazione del petrolio e del gas naturale. Prima del 2008 le attività estrattive erano già presenti nel suo territorio ma lo erano in una misura infinitamente minore. Il grande successo del North Dakota (oggi il secondo stato per barili prodotti, dietro il Texas) è dovuto appunto all’introduzione delle nuove tecniche che hanno permesso uno sfruttamento molto più ampio di un’estesa e ricchissima formazione geologica – la cosiddetta Bakken formation (che sconfina anche nel territorio del Montana e degli stati canadesi Saskatchewan e Manitoba). Secondo una stima del 2007, dalla formazione sarebbero estraibili – a tecnologia invariata – oltre tre miliardi e mezzo di barili di petrolio; altre stime più recenti hanno fissato in oltre 24 miliardi di barili il potenziale produttivo complessivo inclusivo quindi anche quelle riserve sfruttabili solo nel caso di futuri progressi tecnologici. Questa nuova frontiera dell’estrazione ha permesso al North Dakota di decollare proprio mentre il resto del paese sprofondava nella grande recessione. Il tasso di disoccupazione è oggi il più basso degli Stati Uniti – il 3.5% secondo le ultime rilevazioni – mentre il bilancio dello stato vanta un surplus di un miliardo di dollari. Tale risultato è stato raggiunto, nonostante un taglio al prelievo fiscale decisamente in controtendenza con il resto del paese, proprio grazie alle royalties imposte sull’estrazione, che permettono al North Dakota di incamerare circa undici centesimi di dollaro per ogni barile prodotto.
Il dato demografico registra un aumento della popolazione del 4% nel giro degli ultimi due anni, dopo due decenni di stagnazione.
Questa crescita si è concentrata proprio nelle aree estrattive e, in particolare, nei pochi e piccoli centri urbani collocati nell’area della Bakken Formation. Cittadine in declino si sono così trasformate nel giro di qualche anno in boomtown nelle quali l’espansione forsennata della domanda – di lavoro, di case, di servizi – incrociandosi con un’offerta in crescita ma comunque inadeguata, ha creato condizioni di scarsità tali da condurre a un’esplosione dei prezzi e più in particolare dei salari e degli affitti.
Prendiamo il caso della città di Williston, una piccola cittadina a ottanta miglia dal confine canadese che pare abbia oggi una popolazione reale di circa 40.000 abitanti rispetto ai 14.700 registrati in occasione dell’ultimo censimento realizzato nel 2010. Sono migliaia le nuove abitazioni messe sul mercato negli ultimi due anni ma nonostante questo gli affitti rimangono stratosferici – la storia di un bilocale affittato a 2.300 dollari al mese, una cifra tipica di Manhattan più che delle Great Plains, ha fatto il giro del paese – e molte imprese, e la stessa amministrazione comunale, devono provvedere alla fornitura diretta di case in affitto per permettere ai dipendenti di avere un posto dove vivere. Chi non è così fortunato, pur di partecipare al grande affare del boom energetico, dorme in roulotte o perfino in automobile fino a quando le temperature – che d’inverno qui possono scendere fino a trenta gradi sotto zero – lo permettono. La ragione per cui gli affitti possono essere comunque così alti ha a che vedere con il fatto che, nonostante la crescita demografica, con un tasso di disoccupazione pressoché inesistente (poche centinaia di persone, meno dello 0.1%) anche l’offerta di lavoro scarseggia e i salari rimangono ben oltre la media nazionale: il boom energetico, ad esempio, è fatto anche d’impiegati di McDonald, che a Williston arrivano a guadagnare fino a 25 dollari l’ora.
Le amministrazioni di questi centri dovranno dimostrare nei prossimi anni di essere in grado di trasformarle in vere città, con pieno accesso a servizi di base che ora appaiono scarsi. La crescita prevista del settore energetico promette a cittadine come Williston un futuro di espansione che potrebbe – teoricamente – farne delle success stories demografiche paragonabili a quelle che hanno caratterizzato l’epopea della Sunbelt.
Ovviamente, il boom si regge su un presupposto che potrebbe almeno parzialmente venir meno nei prossimi anni: l’incondizionato orientamento alla crescita di queste comunità, che non sembrano prestare alcuna attenzione all’allarme degli ambientalisti riguardo gli effetti locali del fracking e quelli globali del predominio dei combustibili fossili. Allarme che viceversa sta già alterando modalità e dimensioni della nuova industria energetica non molto lontano da Williston: in Colorado, dove le trivelle sono arrivate a lambire aree suburbane spuntando qua e là fra le case unifamiliari, l’indignata reazione popolare ha già condotto a una forte ri-regolamentazione del settore.
Per ora, tuttavia, nell’America obamiana della retorica dei green jobs le poche città in forte crescita sono quelle del petrolio e del gas naturale: la boomtown di questo scorcio di XXI secolo è fracking-town.