international analysis and commentary

Lo strano destino dei partiti verdi europei

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Il variegato prisma delle famiglie politiche europee si è arricchito, a partire dalla fine degli anni ’70, di un nuovo colore: il verde. È nel vecchio continente infatti che l’ambientalismo, cresciuto tra i movimenti di protesta del decennio precedente, ha dato origine a stabili partiti organizzati. Pochi avrebbero scommesso sulla durata di queste forze nei decenni successivi. Tuttavia, il successo dei “Verdi” è stato tutt’altro che uniforme in Europa, e la loro stessa esistenza sembra ormai in dubbio in molti paesi.

Tra i fattori che spiegano la diversa intensità delle affermazioni dei partiti ecologisti sono da elencare il sistema elettorale, e soprattutto la sua capacità di valorizzare le forze alternative ai due blocchi principali; la presenza (o assenza) nel paese di una radicata tradizione partitica, che rendesse “naturale” anche per i gruppi in questione la scelta di istituzionalizzarsi; l’esistenza contemporanea di forti movimenti (non necessariamente configurati come partiti politici) ecologisti-pacifisti.

Sono senza dubbio i Grünen ad aggiudicarsi la palma di formazione ecologista di maggior successo. Nati in Germania Occidentale nel 1980, raccolsero la consistente eredità dell’attivismo contestatario tedesco. Nella fondazione del partito giocarono un ruolo di primo piano gli ex rappresentanti del movimento studentesco Rudi Dutschke, Petra Kelly e Joschka Fischer. I Verdi tedeschi furono immediatamente protagonisti della forte mobilitazione contro i missili Pershing II che gli Stati Uniti e la NATO – parallelamente ai sovietici nell’Est – stavano istallando in Europa Occidentale; e poi di quella anti-nucleare. Il riscontro elettorale fu immediato: il 5,7% delle elezioni del 1983 permise ai Grünen – che nel frattempo avevano elaborato un programma politico articolato di tipo libertario – di entrare nel Bundestag.

Il sistema proporzionale tedesco consentì ai Verdi di rendersi decisivi per la nascita dei governi di sinistra guidati da Gerhard Schröder dal 1998 al 2005. Gli ambientalisti occuparono ministeri importanti – Agricoltura, Ambiente e soprattutto Esteri con Fischer – e riuscirono a soddisfare il proprio elettorato, che li premiò con il 10% (loro migliore risultato) nel 2009. I Grünen sono preferiti dai trentenni-quarantenni della fascia di reddito medio-alta e dagli abitanti delle città universitarie, delle zone interessate da questioni ecologiche e delle grandi aree urbane: la roccaforte del partito è il collegio Friederichshain–Kreuzberg–Prenzlauerberg di Berlino, dove il candidato del partito raccoglie da solo il 46,7%. Hanno infine saputo proporsi come alternativa accettabile per i delusi di centrodestra: negli ultimi due anni, sia il Land del Baden Württemberg che il capoluogo Stoccarda (entrambi ricchi, benestanti e dominati per mezzo secolo dai democristiani della CDU) sono passati a una coalizione di centrosinistra a guida verde.

Mentre in paesi come Austria e Svezia si sono registrate vicende simili a quella dei Grünen, ben diversa è la storia dei partiti ambientalisti in altre parti del continente. In Francia l’affermazione dei Verdi ha sempre avuto un carattere ambivalente: gli ecologisti transalpini hanno dovuto scontare la concorrenza di formazioni (come comunisti e radicali) che già presidiavano l’estrema sinistra dello schieramento politico e che egemonizzavano i movimenti di protesta. Inoltre, il sistema elettorale a doppio turno e l’elezione diretta del presidente della repubblica li hanno senza dubbio svantaggiati, polarizzando il voto nazionale: i Verts hanno ottenuto risultati buoni e molto buoni solo a livello locale e sovranazionale. In entrambi questi casi sono stati scelti anche da elettori di centrodestra: è successo ciclicamente alle elezioni europee (in particolare nel 2009, quando l’ex sessantottino Daniel Cohn-Bendit li ha guidati al 16,3%), ma anche in occasione del passaggio a sinistra di tradizionali centri conservatori come Parigi e Lione, proprio grazie al voto “verde” dei giovani. Gli ambientalisti hanno partecipato ai (pochi) governi di sinistra dell’ultimo ventennio (Jospin, Ayrault), ma con una presenza simbolica e sproporzionata rispetto al peso preponderante dei socialisti.

Ancora minore, o marginale, è il peso delle formazioni ecologiste in altri paesi, come per esempio Spagna o Inghilterra. Qui il sistema elettorale favorisce nettamente le due forze più grandi, anche a livello locale – è interessante infatti notare che in Catalogna, regione in cui vige invece un sistema proporzionale, i Verdi si sono ritagliati una posizione stabile e non irrilevante nell’arena politica. In Spagna, il vecchio partito comunista e le sue nuove filiazioni hanno assorbito parte della spinta radicale che poteva essere intercettata dagli ecologisti (così come in Italia). Oltre la Manica, invece, le correnti di protesta degli anni ’60 non hanno avuto sbocchi partitici: il Green Party – oggi all’1% – nacque nel 1973 da un gruppo di avvocati e agenti immobiliari senza grande capacità di penetrazione nell’opinione pubblica.

Il mancato sviluppo dei partiti verdi nei paesi ex socialisti peggiora le prospettive dell’ambientalismo europeo. Eppure, proprio su questo tema agirono alcuni movimenti anti-regime degli anni ’80. In Germania Est, forti proteste di carattere ecologico e pacifista furono guidate sia dalla chiesa cattolica che dalla parte più riformista del partito, fino alla costruzione nel 1990 di un cartello elettorale. In Bulgaria, la piattaforma di opposizione Ecoglasnost portò nelle strade di Sofia migliaia di dimostranti nel 1989. Nonostante ciò, il radicamento sociale di questi movimenti si rivelò limitatissimo, e i leader finirono per confluire in altre forze politiche.

I partiti Verdi, in compenso, hanno avuto ottimi riscontri alle elezioni per il Parlamento europeo, anche dove più debole era la loro forza politica. L’exploit del 1989 (anno in cui il gruppo verde passò da zero a trenta eurodeputati) vide il contributo di due milioni e mezzo di voti inglesi, ridotti a meno di un decimo alle legislative di tre anni dopo; ma lo stesso accadde per altri paesi, come la Francia o l’Italia. Gli elettori dell’UE hanno considerato l’ambientalismo come uno dei temi ideali da discutere in sede continentale; dal canto loro, i Verdi sono riusciti in quei casi a catturare lo scontento o la stanchezza verso i partiti più tradizionali, sia approfittando di elezioni meno polarizzate, sia facendosi portatori di un europeismo convinto ma critico, “giovane” e impegnato, consonante all’atteggiamento dell’opinione pubblica dell’epoca.

È lecito però dubitare che gli ambientalisti possano ancora contare sulle riserve di voti degli anni recenti. Gli ultimi responsi favorevoli delle urne risalgono al 2009 (elezioni europee appunto, ed elezioni tedesche). La crisi economica, che è stata capace di sconvolgere la scena politica di alcuni paesi e di modificare poi la percezione comune delle istituzioni comunitarie, influirà sui risultati futuri dei Verdi – già ridotti a ben poca cosa dopo le elezioni tenutesi nei paesi mediterranei e in Francia.

L’alternativa di apertura (parzialmente critica) europeista proposta dai Verdi non quadra più con le tendenze di fondo dell’elettorato. Questo preferisce oggi punire i partiti tradizionali premiando però altri tipi di proposte: quelle populiste, quelle nazionaliste o quelle in generale severamente critiche con la tecnocrazia di Bruxelles. È un comportamento sempre più diffuso nell’Europa mediterranea, in quella centro-orientale, in Francia e in Inghilterra – dove alle ultime elezioni amministrative l’isolazionista UKIP di Nigel Farage ha annichilito le speranze di crescita dei Verdi fagocitando tutto il malcontento. Se dovesse dilagare anche nel cuore tedesco del continente e nelle regioni scandinave (le elezioni di settembre in Germania saranno un banco di prova decisivo, insieme alle europee del 2014) il peso continentale degli ambientalisti sarebbe gravemente compromesso. Forze di matrice e natura completamente diversa ne raccoglierebbero allora l’eredità.