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La legittimità politica dell’euro e le speciali responsabilità tedesche

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La crisi finanziaria scoppiata a Cipro ha originato il quarto intervento di emergenza in soli tre anni da parte del Fondo monetario internazionale, in soccorso di un paese appartenente all’eurozona. La regia politica è stata di Berlino e quella tecnica di Francoforte: il carattere tedesco dell’approccio adottato è un dato difficilmente contestabile.

La moneta unica, contrariamente alle previsioni di molti e agli auspici di alcuni, continua a esistere e a rappresentare uno dei risultati più concreti dell’integrazione continentale. Tuttavia, una carenza di legittimità l’accompagna fin dalla nascita, ed è ora emersa portando alla luce tutte le contraddizioni irrisolte di una governance incompiuta.

Se lo scopo primario dell’unione monetaria era di rafforzare la solidità finanziaria dell’Europa e armonizzare le tendenze economiche intraeuropee, l’ultimo decennio è stato fallimentare. L’eurozona è di fatto spaccata in due parti: una specializzata soprattutto nella produzione di merci e capitali, l’altra nel consumo basato sull’indebitamento privato o pubblico. Il bilanciamento tra le due componenti (non sempre coincidenti con i confini nazionali) doveva essere regolato spontaneamente dall’interesse reciproco – allargamento dei mercati, crescita del PIL – ma questo schema è saltato con lo scoppio della crisi finanziaria internazionale.

L’unione monetaria ha comunque mostrato la sua utilità più evidente: quella di ombrello, di unico strumento sufficiente ad evitare il rischio definitivo di collasso economico. Dopo lunghi dubbi ed esitazioni, anche i governi dei paesi finanziariamente “solidi” se ne sono convinti; l’eurozona ha dunque retto ai progetti di ridimensionamento, agli attacchi speculativi e alle crisi di sfiducia che l’hanno colpita. Si è poi diffusa la consapevolezza della necessità di un’unione politica, adatta a proteggere stabilmente questa fragile conquista.

Il dominio economico tedesco rafforzato da questi anni di crisi non si è ancora però tradotto in una leadership politica capace di creare consenso intorno alle regole stabilite. Berlino non ha saputo insomma gestire il suo nuovo status – agevolato dal declino francese, dal disinteresse britannico, dall’emarginazione della Commissione europea. La Germania ha infine deciso di salvare l’euro, e di farlo senza l’esclusione di nessuno dei paesi che adotta la moneta unica; ma la maniera univoca in cui ha preteso la piena applicazione delle sue ricette – peraltro tuttora da valutare negli esiti finali – hanno finito per isolarla politicamente. E questo è decisamente un pericolo per tutti gli assetti europei.

La leadership tedesca non sembra avere colto l’importanza delle nuove fratture che dividono i sistemi politici dei membri dell’UE: soprattutto la frattura tra filo-europei e anti-europei, che tende a sovrapporsi a quella tra tecnocrazia e populismo. I successi dei partiti apertamente critici con Bruxelles e Berlino hanno così condizionato anche l’atteggiamento di quelli teoricamente favorevoli, diffuso un clima negativo e prevenuto nei confronti delle scelte comunitarie, fatto dilagare i sentimenti anti-tedeschi.

La Germania non è stata in grado di modulare la propria offerta di aiuto e soprattutto di assecondare concretamente quei governi che mostravano buon viso, sfidando la rabbia dell’opinione pubblica, alle politiche economiche ispirate da Berlino. Lo stesso esecutivo di Samaras in Grecia, eletto dopo due drammatiche tornate elettorali che avevano fatto temere l’affermazione definitiva delle forze anti-europee, ha dovuto penare non poco per ottenere la fiducia di Angela Merkel. La Cancelliera ha concesso il proprio sostegno (in termini di maggiori crediti e ammorbidimento delle condizioni) solo dopo un’estenuante pressione da parte degli altri partner.

Un tale comportamento, esibito anche nei confronti di altri governi europei, ha nuociuto ulteriormente alla credibilità della Germania come leader lungimirante proprio quando vi era più bisogno di qualcuno che svolgesse questo ruolo. Di riflesso, ciò ha eroso la fiducia nell’integrazione europea, e nelle classi dirigenti nazionali che la sostengono, presso le opinioni pubbliche continentali. Soprattutto, è inevitabile che in condizioni di crisi acuta si ricordi a Berlino e Francoforte come gli “errori” finanziari che oggi si vogliono correggere con durezza siano stati, fino a ieri, benevolmente tollerati – lasciando deteriorare le situazioni di squilibrio.

Certamente, la mancanza di successi tangibili è grave almeno quanto l’opacità del processo decisionale (parlamento europeo e parlamenti nazionali non hanno praticamente voce in capitolo): in altre parole, i cittadini sarebbero meglio disposti anche verso politiche rigorose e “tecnocratiche” se almeno queste intaccassero davvero i problemi più urgenti, a cominciare dalla disoccupazione. Invece, dopo tre anni di “cure”, la maggior parte dell’eurozona continua a trovarsi in stagnazione o in recessione.

L’unione monetaria va certamente salvaguardata, ma cambiare parte delle sue regole di funzionamento non è più soltanto un’esigenza tecnica dovuta ai debiti sovrani e agli squilibri intraeuropei: è ormai un imperativo politico urgente. Senza una rapida inversione delle dinamiche politiche ed economiche che oggi attraversano l’Europa, si aggraverà la disgregazione generale del consenso alla base dell’Unione. Non va dimenticato che una delle funzioni dell’euro è quella di agevolare la costruzione di un’unione politica più forte ed efficiente; se le autorità di Bruxelles e perfino molti governi nazionali perderanno ulteriori porzioni di legittimità popolare, quella funzione potrebbe non essere esercitata mai.