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L’Asia orientale aspetta Kerry

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Per la sua prima missione all’estero nelle vesti di segretario di Stato, John Kerry ha scelto l’Europa e il Medio Oriente. Hillary Clinton, quattro anni fa, aveva puntato sull’Estremo Oriente. È un cambiamento suggerito dalle urgenze del momento, prima tra tutte la crisi siriana, ma che nel contempo si innesta nella strategia di fondo degli Stati Uniti. Anche perché le urgenze non mancano certo nello scacchiere asiatico: a dare un benvenuto non desiderato a Kerry nel suo nuovo ruolo è stato il test atomico sotterraneo nordcoreano del 12 febbraio.

Hillary Clinton doveva mostrare agli interlocutori dell’Asia orientale che la politica estera di Washington sapeva guardare anche al di là dell’Afghanistan. Si voltava pagina dopo gli anni della guerra al terrorismo che aveva caratterizzato la presidenza Bush. Data per compiuta l’impostazione della politica detta del Pivot to Asia, Kerry sembra volersi proporre di rimettere mano alle priorità, non per sconvolgerle, ma per abbozzare un riequilibrio. Con o senza il Pivot to Asia, d’altra parte, l’Asia orientale fa avvertire con sempre maggiore vigore la sua influenza a livello globale parallelamente alla crescita del suo peso specifico in campo economico. Dopo l’India, anche la Cina si appresta a divenire un attore di primo piano nella crisi afghana. La questione nucleare iraniana intanto si connette con quella nordcoreana (Kerry lo ha dichiarato a chiare lettere) nel contesto della proliferazione come fenomeno globale. All’Europa “rivalutata” dal neosegretario di Stato americano si propone una “Trans Atlantic Partnership” riconducibile al modello che già è in fase di attuazione tra le due sponde del Pacifico e che costituisce il corollario economico-commerciale del Pivot to Asia. La stessa Africa, su cui si concentrano le preoccupazioni americane per la nuova fiammata di terrorismo islamico, è ormai l’epicentro di interessi che provengono da Cina, Giappone, Corea del Sud e BRIC vari, più che dalle antiche potenze coloniali e postcoloniali.

Nel suo impegno in direzione del riequilibrio Kerry potrebbe giovarsi della sua fama di liberal, aperto al dialogo e fautore di un approccio (almeno nella forma) meno tranciante di quello adottato spesso da Hillary Clinton: si pensi alla spinosa questione dei contenziosi tra la Cina e numerosi alleati degli Stati Uniti, specialmente nel Mar Cinese meridionale, o sul ricorso ai droni che avvelena e contorce i rapporti col Pakistan.

Quanto ai timori connessi con la necessità di un rodaggio istituzionale, il caso ha voluto che la relativa inesperienza di Kerry si accompagni a quella di molti suoi interlocutori asiatici: nuovi sono il ministro degli Esteri giapponese e il suo collega sudcoreano, mentre in Cina a Yang Jiechi dovrebbe succedere entro pochi giorni Wang Yi (che è stato ambasciatore a Tokyo): in tutti questi casi, si tratta di governi da poco insediati o, per la Cina, ancora da insediare. Il risultato è che Kerry può giovarsi della sostanziale continuità garantita dalla riconferma di Barack Obama, mentre sulla sponda asiatica è la discontinuità a rappresentare l’elemento dominante.

Fa eccezione, ad onta delle voci sulla “transizione” in corso, la Corea del Nord, che ha messo le carte in tavola per prima e ha proclamato che non rinuncia al nucleare, costi quel che costi. Il messaggio sembra chiaro: non ci si illuda che le sanzioni internazionali o le pressioni cinesi possano sortire qualche effetto; Washington piuttosto deve capire che il passaggio della Corea del Nord al rango di “contender” nucleare è ormai solo questione di tempo. Meglio che si rassegni – così dicono i nordcoreani – e accetti il fatto compiuto come fece in passato col Pakistan.

Kerry, battendosi per l’inasprimento delle sanzioni e ribadendo che ogni cedimento con Pyongyang costituisce un incoraggiamento per Teheran, non sembra invece intenzionato a rassegnarsi. Ma intanto a Pechino ci si aspetta che egli mostri maggiore disponibilità a comprendere quanto la Cina abbia paura di una destabilizzazione della Corea del Nord che produca sommovimenti sociali e politici a ridosso dei suoi confini. Né Pechino può rinunciare a cuor leggero a uno “Stato cuscinetto” come la Corea del Nord, a meno che il quadro regionale non cambi profondamente a suo vantaggio, con  una crescita di influenza sia nella penisola coreana, grazie alla collaborazione con Seul che controbilanci gli attriti con Pyongyang, sia nell’area ASEAN. Si tratta tuttavia di prospettive poco compatibili col Pivot to Asia, almeno nel modo in cui è andato prendendo forma nel quadriennio di Hillary Clinton. Rimane allora la contraddizione tra chiedere l’indispensabile sostegno della Cina per intervenire sul dossier nordcoreano (e magari anche in scacchieri più lontani come la Siria e l’Iran) e nel contempo l’ambizione di “contenere” l’espansione della influenza cinese in Asia.

È una contraddizione che va in qualche modo sciolta, anche perché le circostanze schiudono nuovi scenari regionali. Il primo riguarda la Corea del Sud, dove si è appena insediata alla presidenza Park Geun-hye. Ad essa Pechino chiede di stabilire rapporti con la Cina che non siano subordinati all’alleanza con gli Stati Uniti come è avvenuto negli ultimi 60 anni. L’obiettivo è chiudere la pagina dei contenziosi territoriali e sulla pesca, e soprattutto realizzare un’area di libero scambio dalle enormi potenzialità. Park non vuole rinunciare all’ombrello militare americano, ma non sembra insensibile alle profferte cinesi; la Cina è fin d’ora il principale partner commerciale della Corea del Sud e verso di essa spinge il comune sentire antigiapponese, già tornato alla luce con le parallele crisi delle Senkaku/Diaoyu e delle Dokdo/Takeshima ed ora acuito dalla decisa svolta a destra con cadute negazioniste del governo Abe.

Un altro scenario è costituito dall’Afghanistan che si prepara, tra un anno, al ritiro delle truppe americane. Pechino ha preferito, durante la guerra, non rispondere alle richieste di collaborazione provenienti da Washington, ma ora la stabilizzazione del paese centroasiatico diventa essenziale anche per la Cina, se non altro per impedire che esso torni ad essere un santuario per quel terrorismo internazionale che si insinua fin nel Xinjiang. Dal punto di vista geopolitico, d’altra parte, la Cina dispone di carte migliori di quelle degli Stati Uniti: non solo i buoni rapporti col Pakistan, ma anche una interdipendenza economica che passa in primo luogo attraverso i gasdotti (esistenti e ancora da costruire) e poi attraverso l’Organizzazione di cooperazione di Shanghai (SCO), l’unica di questo tipo esistente nell’Asia centrale. Sta a Kerry, se lo riterrà opportuno, fare prevalere le convergenze piuttosto che i punti di contrasto, magari considerando che l’influenza cinese nell’Asia centrale possa servire a controbilanciare l’attuale predominanza russa.

Anche la sempiterna crisi centrata su Taiwan sta cambiando, in ragione della crescente e irreversibile interdipendenza tra l‘isola e la madrepatria. A questo trend di fondo si aggiunge, nel crescere della tensione provocata dai contenziosi territoriali su isole e scogli tra la Cina da un lato, Giappone, Filippine e Vietnam dall’altro, la particolare collocazione di Taipei che, in difesa della sovranità cinese, si trova in oggettiva rotta di collisione con gli Stati Uniti e in sintonia con Pechino.

Intanto, l’amico più fidato, il Giappone, rischia di trasformarsi in una specie di mina vagante per Kerry. Nei giorni scorsi il nuovo primo ministro Abe Shinto è andato a Washington e ha portato in dono a Obama smaglianti dichiarazioni sulla centralità dell’alleanza con gli Stati Uniti e l’impegno a prendere parte al negoziato sulla Trans Pacific Partnership (oltre all’adesione nipponica alla Convenzione dell’Aja sui figli di genitori di diverse nazionalità, questione irrilevante in chiave strategica ma molto sentita sul piano psicologico). Abe ha anche detto che, secondo gli auspici di Obama, intende fare proprio il principio dell’autodifesa collettiva, ovvero chiuderà l’era del Giappone impossibilitato per legge a contribuire a garantire la stabilità della regione. Peccato che la cornice in cui Abe si muove vada oltre quella di un Giappone capace di sopperire grazie al suo poderoso apparato militare ai tagli che si stanno abbattendo sul bilancio del Pentagono: la svolta a destra del Giappone, sancita dalle ultime elezioni, ha infatti un substrato ideologico che conduce alla revisione della Costituzione imposta a suo tempo da MacArthur e rischia di diventare la migliore arma di propaganda della Cina. A conti fatti, è un problema in più per gli Stati Uniti e in particolare per il nuovo segretario di Stato, che infatti viene descritto come ostile alla revisione della Costituzione “pacifista” nipponica.