L’omicidio da parte israeliana di Ahmed al-Jabari, capo dell’ala militare di Hamas e responsabile delle relazioni con Iran ed Egitto, è apparso a molti un atto inaspettato. In realtà, gli omicidi mirati fanno parte della strategia israeliana di indebolimento di gruppi o governi ostili attraverso interventi selettivi: l’eliminazione di gangli vitali di organizzazioni nemiche (come dimostrano gli omicidi mirati di scienziati iraniani tra il 2010 e il 2012) ha lo scopo di evitare o posticipare interventi militari aperti e azioni di terra.
Una cosa è certa: l’assassinio di al-Jabari il 14 novembre non ha nulla a che vedere con il lancio di razzi di media e lunga gittata su Israele da Gaza, così come invece il governo Netanyahu vuol far credere alla propria opinione pubblica. Si tratta, infatti, di due azioni indipendenti nelle motivazioni. Israele meditava da tempo l’eliminazione di al-Jabari, ritenendolo uno dei potenziali candidati alla guida del politburo di Hamas – in sostituzione di Meshal, tuttora in esilio. L’operazione, dunque, rientrava perfettamente nella strategia mirata a indebolire il governo di Gaza, attraverso l’uccisione di un uomo che aveva acquistato una certa visibilità personale nel rapimento e nelle trattative per la liberazione di Gilad Shalit (il militare israeliano) in cambio di un migliaio di prigionieri palestinesi. Un’azione che gli aveva procurato un successo politico e mediatico in tutto il mondo arabo. Proprio per questa ragione al-Jabari si riteneva al sicuro e non aveva assunto cautele particolari, quasi che l’accordo raggiunto nel caso Shalit lo avesse reso una figura pubblica di primo piano contro cui Israele avrebbe esitato ad agire.
Il lancio dell’Operazione Pilastro di Difesa è legato alla vicenda di al-Jabari solo nel senso che Israele si aspettava un’escalation nel lancio di razzi all’indomani dell’omicidio, con il riaccendersi di tensioni al confine di Gaza e nuovi attacchi contro gli abitanti della linea Ashkelon-Sderot. La possibilità da parte di Hamas di condurre un´operazione più a largo raggio deriva dalla maggiore precisione e gittata dei razzi di nuova generazione, piuttosto che al loro numero o frequenza. Dal 2008, Hamas non solo ha ricostruito ma ha incrementato il suo arsenale missilistico grazie all’Iran, e ai finanziamenti qatarini (di cui solo una parte è stata versata per la ricostruzione di scuole e infrastrutture nella Striscia).
Le forniture sono probabilmente transitate attraverso i 1.400 tunnel che ancora si troverebbero tra la Striscia e il Sinai. Questi missili hanno la capacità, a lungo temuta da Israele, di tenere potenzialmente sotto scacco l’intero paese, e di raggiungere per la prima volta le due città principali di Tel Aviv e Gerusalemme. È chiaro come ciò crei una rinnovata percezione di vulnerabilità, soprattutto visto che Tel Aviv è il motore economico, politico e culturale del paese.
L’obiettivo di ripristinare un netto vantaggio militare israeliano nei confronti di Hamas comporta, dunque, una nuova offensiva militare di più ampio raggio, nel tentativo di distruggere tutti i depositi nascosti e le rampe di lancio dei missili a lunga gittata situati nella Striscia, riportando così la guerra sui confini. Tale obiettivo è condiviso da tutto lo spettro politico israeliano, indipendentemente dalla collocazione ideologica, poiché è indubbio che limitare il potenziale bellico dell’organizzazione islamica e riportare la tranquillità a Tel Aviv sia una priorità assoluta. Non a caso i leader dei maggiori partiti hanno immediatamente rilasciato dichiarazioni favorevoli all’operazione, palesando un acritico consenso bipartisan sulle questioni di difesa. A cominciare da Shelly Yachimovich, leader del Labour, che ha sostenuto apertamente l’operazione pur sottolineando che le responsabilità del governo Netanyahu riguarderanno anche il “dopo”, e incoraggiando il governo a individuare subito una strategia di uscita dal conflitto (evitando dunque che l’azione militare si protragga e si estenda a nuovi obiettivi). Della stessa opinione Noam Shalit – padre di Gilad, testimonial e candidato del Labour alle prossime elezioni 2013 – che ha definito l’omicidio mirato di Jabari “un passo necessario” per riportare la quiete sul confine per molti anni a venire. A sua volta Yair Lapid, capo e iniziatore del Partito Yesh ‘Atid (C’è un futuro), ha salutato con favore l’azione militare, sostenendo che Israele non poteva più continuare a lasciare ad Hamas l’iniziativa e il “controllo del livello di fuoco”. Posizioni simili sono state sposate da Livni e Olmert a nome di Kadima. Perfino Bar On – leader del Meretz, il partito più a sinistra – ha approvato l’operazione, nonostante i richiami al governo di mantenere l’offensiva entro limiti ragionevoli e di affiancarla con negoziati indiretti con Hamas mediati dall’Egitto.
L’unica voce di dissenso è stata quella dei partiti arabi, con Hadash in prima fila, con alcuni deputati che hanno espresso esplicitamente il loro cordoglio per i martiri palestinesi. Studenti arabo-israeliani dell’Università di Haifa hanno tenuto una veglia funebre in memoria di al-Jabari: ciò evidenzia la progressiva e inesorabile alienazione del 20% di arabo-israeliani – che a maggioranza hanno già dichiarato che non voteranno alle prossime elezioni nazionali – dalla maggioranza ebraica. Il dissenso ebraico, infatti, è consistito soltanto in un sit-in di circa 200 persone riunitesi sotto la casa di Ehud Barak a Tel Aviv, che non ha ottenuto alcuna risonanza nei media, né tanto meno un incontro con il ministro della Difesa.
Le posizioni assunte dai partiti israeliani ricalcano il sentire dell’opinione pubblica ed in particolare quello degli abitanti delle zone nel raggio di 50 chilometri dalla Striscia. È innegabile, infatti, che in Israele vi sia un larghissimo consenso per un’operazione militare (i sondaggi di Haaretz pubblicati il 18 novembre parlano di un 83% degli israeliani favorevole): un consenso che include le autorità locali e gli abitanti di Sderot, Ashkelon, Ashdod e Beersheva, come anche le alte gerarchie militari. È probabile che proprio la popolarità di un’azione di questo tipo abbia spinto Netanyahu e Barak ad approvare un’ampia mobilitazione di riservisti, che supera quella del 2008 in vista dell’Operazione Piombo Fuso (10.000 nel 2008 contro i 75.000 del 2012). Il Likud pensa di capitalizzare così il proprio consenso di massa per le prossime elezioni: un consenso più facile da sollecitare nel caso di Gaza che, ad esempio, di un attacco preventivo alle centrali nucleari iraniane. Inoltre, mentre sul secondo dossier l’accordo governo-Mossad-IDF non è stato ancora trovato, per un’azione su Gaza l’esercito si è mostrato favorevole come in passato.
Se è chiaro dunque quali sono gli obiettivi e le forze schierate per una nuova possibile operazione, non è altrettanto evidente quale sarebbe la strategia militare e diplomatica nel caso di una ripetizione dell’Operazione Cast Lead del 2008. In particolare, non si capisce fino a quanto l’attuale governo abbia fatto tesoro degli errori allora compiuti dal gabinetto Olmert. In caso di un’offensiva di terra, i rischi di vittime israeliane saranno alti e i costi, anche economici, si faranno sentire in un clima di campagna elettorale.
Se la tregua negoziata dal premier egiziano Qandil non reggesse, e Netanyahu desse il via a un’operazione via terra, i morti palestinesi sarebbero migliaia e si avrebbe (oltre probabilmente a nuovi lanci di razzi da Gaza) una ripresa degli attentati suicidi. Tuttavia, il vero perdente di un’ulteriore escalation non sarebbe Hamas (che ha già dimostrato di poter tollerare un alto numero di vittime senza pregiudizio alla sua sopravvivenza politica), né Israele (che a sua volta ha già ampiamente provato di poter convivere con il biasimo dell’intera comunità internazionale): sarebbe invece l’ANP, che verrebbe definitivamente liquidata dalla storia dopo una stagione (quella degli accordi di Oslo del 1993) ormai già definitivamente tramontata.