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Lo strano fascino di Mitt Romney

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Una buona vittoria può compensare una sconfitta disastrosa? È con questa domanda che si sono svegliati Barack Obama e i suoi consiglieri la mattina dopo il secondo faccia-a-faccia con Mitt Romney, alla Hofstra University, in cui il presidente è ritornato se stesso dopo essersi perso nella nebbia del primo dibattito televisivo a inizio ottobre.

Secondo gli osservatori democratici è stato un trionfo, una vittoria schiacciante, un game changer che ha deviato in modo decisivo il vento elettorale dopo l’inattesa performance di Mitt Romney a Denver. Anche i conservatori hanno concesso la vittoria al presidente ma si tratta, dicono, di una vittoria ai punti, perché Romney non è rimasto a guardare ma ha menato fendenti: si è difeso sulla politica economica pur afflosciandosi clamorosamente sulla vicenda dell’attacco al consolato di Bengasi, questione decisiva in termini di leadership ma probabilmente non determinante per quella fetta di middle class indipendente che deciderà le elezioni del 6 novembre. Ostentando un’aggressività che non s’accorda con l’immagine presidenziale, Romney è progressivamente scomparso sotto i colpi puntuali e ben assestati di Obama. Una dinamica che rientra nei canoni del dibattito, non uno spettacolo eccezionale come quello visto a Denver.

Già dal primo dibattito televisivo, nel lontano 1960, i sondaggisti dicono che questo genere di confronti in diretta sposta di poco l’opinione pubblica. Si tratta di un momento importante della liturgia elettorale, denso di simboli e indizi stilistici, ma la campagna è una struttura imponente e complessa che si costruisce nel tempo, pezzo dopo pezzo, non un’epifania repentina. Il dibattito può rafforzare o indebolire, ma difficilmente può creare o distruggere una campagna dal nulla. Il problema, dunque, è cosa l’exploit romneyano di Denver ha rivelato della sua big picture elettorale, e se la risposta di Obama a Long Island è stata altrettanto efficace.

Le doti di Romney in termini di personalità, calore umano, carisma, capacità di suscitare entusiasmo, abilità nel coinvolgere il pubblico sono quelle tipiche di un manager del New England che durante la campagna per il governo del Massachusetts accompagnava i comizi con le slide di Power Point. La chiave per Romney non è quella iconica, anche se ha tentato nel tempo – con successi alterni – di smussare quegli angoli che lo rendevano troppo distante dagli elettori americani. È assai curioso che a rilanciarlo nei sondaggi e nella considerazione pubblica sia stato un evento emotivo come un dibattito elettorale, dove i dettagli strettamente politici si perdono e quello che emerge è immagine, ispirazione, linguaggio non verbale e capacità di bucare lo schermo. Il primo dibattito ha piuttosto scoperchiato il senso della campagna di Romney, un senso che per mesi è sfuggito agli elettori ma anche ai tanti conservatori freddi verso il candidato: la sua è una campagna basata su numeri e tabelle, su ricette economiche e promesse non impossibili da mantenere, come quella dei 12 milioni di nuovi posti di lavoro che ha ricevuto critiche capziose: è questa una cifra assai ragionevole, persino prudente, allineata alla stima di Moody’s e di poco inferiore alle previsioni dell’ufficio budget del Congresso.

Non c’è nulla di iperbolico nella narrazione di Romney, è tutto in prosa, e la carica ideologica dell’epoca delle primarie si è persa, com’è normale che accada, all’approssimarsi della campagna generale. Il candidato repubblicano ha quindi avuto il suo momento migliore quando ha preso a ricordare i tempi bipartisan del Massachusetts, quando ha rimodellato il suo messaggio fiscale sulla middle class, quando si è mostrato moderato, quando ha attaccato l’avversario sul “record” degli ultimi quattro anni in termini di disoccupazione e debito pubblico, e, soprattutto, quando si è mostrato promotore di una politica che molto ha a che fare con la risoluzione dei problemi e poco con l’astrazione di idee grandiose e confuse.

Romney è un problem solver, un leader analitico, meccanico nell’incedere e poco duttile in quanto a stile. Per mesi queste sono state le sue debolezze, e la sua campagna ha brancolato nel buio alla ricerca di un messaggio che sembrava introvabile. L’immagine di questa strategia incerta è Stuart Stevens, il consigliere che ha dominato la comunicazione di Romney fino alla convention di Tampa, dove il contendente repubblicano alla Casa Bianca ha fatto un discorso non memorabile, per usare un eufemismo, scritto proprio da Stevens all’ultimo minuto. E mentre Stevens veniva progressivamente isolato nel team dei consiglieri, avanzavano altre figure come il lobbista e stratega di lungo corso Ed Gillespie e il senatore dell’Ohio, Rob Portman. Il loro messaggio per Romney era chiaro: sii te stesso. Manager, uomo del settore privato, ex governatore di uno stato liberal, uomo di accordo e compromesso, capo famiglia, un ricco membro dell’1% che non deve per questo vergognarsi o giustificarsi, perché questa è la “land of the free”: l’identità di Romney, cioè la sua antica debolezza, è diventata la sua forza e il dibattito di Denver è stato l’epifenomeno della rinata immagine romneyana. Ora i sondaggi danno lo sfidante in leggero vantaggio a livello nazionale (la media di RealClearPolitics dà meno di un punto percentuale di scarto) e in ascesa negli swing State, in attesa di vedere se il secondo dibattito produrrà un rimbalzo nei numeri di Obama.

Per contro il presidente ha cercato di rappresentare a lungo l’avversario come un conservatore della specie più estrema, un difensore di Wall Street e di quel sistema di potere che ha portato l’economia al (quasi-)collasso, un avvoltoio capitalista che avrebbe distrutto la rete di protezione sociale per la middle class e le fasce più deboli. Tutti i messaggi, gli spot elettorali, le email, i riferimenti pubblici insistevano su questi punti, tralasciando le contraddizioni di uno sfidante che a piccoli passi si spostava verso il centro. E la pars costruens del messaggio presidenziale si basava, per forza di cose, sulla rappresentazione di un presente oscuro che sarebbe stato superato da un futuro migliore e più fair, equo – l’aggettivo più usato da Obama.

Mentre Romney coniugava il suo messaggio al presente, Obama si spostava sulla dimensione del futuro sintetizzata nello slogan Forward. Il recente surge di Romney nei sondaggi è quindi anche il sintomo di un elettorato attanagliato dalla crisi che chiede soluzioni concrete e immediate; un elettorato al quale non sfugge la natura strutturale della patologia economica e contemporaneamente sa che quattro anni di Obamomics non hanno contenuto il debito pubblico e, soprattutto, non hanno fatto diminuire la disoccupazione. È in questo contesto che un leader avaro d’immaginazione, carisma e progetti per costruire un mondo perfetto ma prodigo di soluzioni fattive può risultare stranamente affascinante per l’elettorato americano.

 

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