international analysis and commentary

La guerra dell’euro

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La crisi dell’euro-zona assomiglia a una guerra moderna, combattuta non con le armi convenzionali ma con i fucili dei mercati finanziari. La posta in gioco non è più soltanto economica, per i paesi sotto attacco; è diventata direttamente politica, disfando e facendo i destini dei governi di una manciata di paesi, dall’Irlanda, al Portogallo, alla Grecia.

In questa guerra moderna fra Stati e mercati, l’Italia è il caso che farà la differenza. Dipende dalla tenuta dell’Italia se il contagio si fermerà o investirà anche la Francia: con banche vulnerabili ed elezioni alle porte, il governo francese è “next on line”, il prossimo in fila. E quindi: dipende dalla tenuta dell’Italia, grande economia al centro e non certo alla periferia dell’Ue, se l’euro sopravviverà o si spezzerà. E ormai lo sanno anche i sassi: l’ Italia è troppo grande per potere fallire senza guasti per l’insieme dell’economia occidentale; ma è anche troppo grande per un salvataggio solo esterno.

Per questi motivi – perché siamo appunto in una specie di guerra, perché il fronte italiano è decisivo e perché dobbiamo salvare noi stessi per salvarci con gli altri – una soluzione di emergenza è indispensabile. Per l’Italia e non solo.

Prima riflessione, allora: per i grandi debitori dell’area euro, l’Unione monetaria non ha più i caratteri di un puro “vincolo esterno”, come si usava dire in passato. E’ diventata un vincolo esistenziale, cosa che impone maggiori responsabilità. Perché? Perché quanto  più un paese ha problemi di debito e di competitività, tanto più perde sovranità. E’ l’ammonimento di questi ultimi mesi. Sia i mercati finanziari che i governi creditori puniscono ormai senza tanti complimenti i comportamenti “devianti” rispetto alla regola scritta e non scritta dell’Europa tedesca: la stabilità finanziaria e il rigore di bilancio.

Qui si innesta, però, la seconda riflessione. I problemi dell’area dell’euro non dipendono certo soltanto dal maggiore debitore, l’Italia. Nascono anche dalla risposta della Germania alla crisi dell’euro-zona. Angela Merkel ha dovuto smentire, ancora una volta, che Berlino sia interessata a costruire un’euro più piccolo o un’Unione monetaria a due velocità. E’ probabile che sia così; che cioè, al di là delle propensioni della Bundesbank per un euro forte del Nord, non esista un piano tedesco coerente per liberarsi dei debitori mediterranei. Anche perché una serie di studi ha dimostrato che la Germania, in uno scenario del genere, avrebbe più costi che vantaggi. Resta il problema di fondo: la gestione tedesca della crisi del debito sovrano impone ai paesi in deficit maggiori vincoli (che Angela Merkel vorrebbe sanzionare nei Trattati, con sanzioni automatiche e forse criteri di espulsione dall’Unione) senza offrire abbastanza quanto a solidarietà fiscale. La conseguenza è che la “dittatura del creditore”, nell’area euro, finisce per essere una ricetta recessiva. Cosa che non permetterà di ridurre il debito neanche con una overdose rigorista. Secondo le tesi ottimistiche, una volta rassicurata sulla credibilità di Grecia, Spagna e Italia, la Germania sarà più disponibile a fare dei passi verso un’Unione fiscale: quella di cui avremmo bisogno. Secondo voci che circolano sia a Berlino che a Bruxelles, il governo tedesco potrà anche contemplare una politica di prestito più espansiva della Banca centrale europea, che dovrà prima o poi diventare, perché l’euro funzioni, il “prestatore di ultima istanza”. La Germania chiede però una modifica dei diritti di voto nel Board della BCE: di fatto, rivendica una sorta di potere di veto.  

Vedremo nei prossimi mesi quanto spazio ci sarà per uno scambio vero fra responsabilità di bilancio e solidarietà fiscale. Se vogliamo che l’Europa non sia basata solo sul “Berliner consensus” e se vogliamo spezzare una lancia a favore di un’Unione fiscale, è indispensabile che l’Italia sia in grado di esercitare un suo peso; la Francia, lasciata sola, non ne ha abbastanza. Per sopravvivere come grande economia dell’euro, l’Italia deve fare comunque riforme troppo a lungo rimandate; e deve tornare a crescere. Il tempo dei rinvii è scaduto: non perché lo dicono Parigi, Francoforte, Berlino o Bruxelles ma perché lo dimostra la curva degli spread. Curando se stessa, l’Italia ritroverebbe una voce in Europa. E sarebbe importante, per noi e per l’Europa, che la voce italiana pesasse. Un’Italia capace di riforme essenziali in casa, potrà influenzare il governo economico della zona euro e potrà porre sul tavolo di Bruxelles un punto dirimente. I paesi europei hanno messo in comune quote della propria sovranità nazionale non per creare dei “direttori” informali ma perché credono in istituzioni comuni rispettate e in regole che valgano per tutti (è sempre utile non dimenticare che Francia e Germania hanno violato a loro tempo il Patto di Stabilità).

Che la guerra che stiamo combattendo, insomma, insegni qualcosa. Da quando facciamo parte dell’euro, la sovranità dell’Italia è per definizione limitata: si è trattato, per noi e per gli altri paesi europei, di una cessione volontaria di sovranità, a favore di una sovranità condivisa (shared sovereignty). E’ questa caratteristica, ha scritto la Corte di giustizia europea in una famosa sentenza, a differenziare l’Unione europea da un normale Trattato internazionale. La crisi finanziaria sta erodendo ulteriormente la sovranità degli Stati europei, anzitutto per ciò che riguarda la politica di bilancio. Il volto dell’UE si sta modificando, sotto lo shock della crisi: la sfida, per l’Italia, è di non restarne ai margini. Passa di qui la differenza fra la cessione/condivisione e la perdita pura e semplice di sovranità nazionale.