Il 13 luglio la violenza tra le comunità religiose ha insanguinato ancora l’India: tre ordigni sono esplosi nelle aree commerciali di Mumbai provocando almeno 19 vittime (ma il numero varia nei diversi resoconti) e oltre 100 feriti. Le bombe, apparentemente azionate a distanza o con timer (gli inquirenti escluderebbero l’ipotesi di attentatori suicidi), sono probabilmente opera di un gruppo terroristico indiano di matrice islamica denominato Indian Mujahideen (IM). Tuttavia, il fatto che l’attentato sia avvenuto il 13 luglio, “giorno dei martiri del Kashmir”, non fa escludere l’ipotesi che l’attacco sia da far risalire a gruppi secessionisti o a commandos infiltrati dal Pakistan.
L’incertezza sulle dinamiche e sui responsabili dell’attentato è del resto comune a molti drammatici eventi della storia recente del paese, come l’attacco al parlamento di Nuova Delhi del 13 dicembre 2001, su cui numerosi intellettuali, a partire da Arundhati Roy, hanno gettato pesanti dubbi (sia per la ricostruzione lacunosa dell’accaduto, sia perché alcune dichiarazioni precedenti all’attentato fanno sospettare che il governo fosse a conoscenza dell’attacco imminente). In questa catena di lutti, Mumbai è la città che ha pagato il prezzo più alto, con centinaia di vittime in attacchi terroristici, a partire da quelli del 12 marzo 1993 (dopo i fatti di Ayodhya, di cui parleremo più avanti), ai ripetuti attacchi del 2003, fino agli attentati su treni locali dell’11 luglio 2006 (circa 200 morti) e alla serie coordinata di attacchi del 26-29 novembre 2008 (oltre 150 vittime).
Fra i gruppi responsabili della violenza islamista in India figura innanzitutto Lashkar-e-Taiba, un’organizzazione con base nel Punjab pakistano, dove possiede diversi campi di addestramento (con il sostegno, secondo alcune fonti, dell’ISI, il servizio segreto del Pakistan). L’obiettivo dell’organizzazione è creare uno stato islamico in Asia meridionale. Quindi, le sue operazioni non si limitano alla causa della secessione del Kashmir (che pure è il suo focus principale), ma spaziano dall’India all’Afghanistan. L’influenza del jihadismo globale è mostrata anche dall’ostilità del gruppo verso le comunità ebraiche: uno degli obiettivi degli attacchi del 2008 a Mumbai era una sinagoga.
Indian Mujahideen, che pare essere responsabile degli attacchi dei giorni scorsi, è invece una filiazione del Movimento degli studenti islamici dell’India (SIMI), considerato a sua volta dell’India come un’organizzazione terroristica legata alla Jamaat-e-Islami pakistana. Il gruppo, la cui reale composizione e i cui obiettivi sono ancora in parte oscuri, ha rivendicato tutti i più recenti attacchi terroristici di matrice islamista, compresi quelli del 2010 a Puna e Varanasi.
Il terrorismo di matrice islamista è tuttavia solo una faccia della violenza interreligiosa in India, che si manifesta anche con l’aggressività del nazionalismo religioso indù, cresciuta negli ultimi decenni sia a danno dei musulmani che dei cristiani (buddhisti, sikh e jaina sono invece tollerati in quanto considerati “di ceppo indù”). L’esplosione di questo fenomeno, come ricordato sopra, è avvenuta nel dicembre 1992, quando una folla di centinaia di migliaia di militanti ha distrutto un’antica moschea della città di Ayodhya, la Babri Masjid, con successivi scontri che hanno causato più di mille morti. Un numero ancora maggiore di vittime si è avuto dieci anni dopo in Gujarat (uno degli stati perno dell’estremismo indù), dopo l’incendio ad un treno di pellegrini diretti proprio ad Ayodhya. Oltre alla gravità dei singoli eventi, è degna di nota la quantità di attacchi “minori” contro gli esponenti di comunità religiose non indù e i loro luoghi di culto, che ammontano a decine ogni anno.
Non si tratta di azioni di gruppi clandestini, ma di militanti appartenenti o vicini a organizzazioni legalmente riconosciute in India come il Bajrang Dal, lo Shiv Sena e la Vishva Hindu Parishad. Per lo più, questi gruppi sono filiazioni del Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), la principale organizzazione indù, nata negli anni Venti del Novecento. Da essa dipende anche il Bharatiya Janata Party (BJP), che ha guidato il governo del paese tra il 1998 e il 2004. Non sorprende, quindi, che in eventi come quello di Ayodhya siano stati implicati esponenti politici di primo piano del BJP come Lal Krishna Advani, né che la polizia e le autorità locali del BJP sembrino talvolta tollerare le violenze contro le minoranze.
Nel complesso, la situazione pare di difficile soluzione, anche perché vi si sovrappongono due ordini di problemi: la convivenza all’interno dell’India di diverse comunità religiose, e la contesa tra India e Pakistan per le regioni di confine (che nel 1998, proprio all’indomani dell’ascesa al potere del BJP, ha portato ad un breve conflitto armato tra i due paesi). Il fattore chiave per l’escalation di violenza degli ultimi decenni è tuttavia stato l’ascesa dell’induismo politico (accompagnata dalla crescente influenza degli islamisti sul governo pakistano). Questo fenomeno ha fatto sì che a delle istituzioni laiche e super partes si sostituissero (specie in diversi ambiti locali) delle autorità partigiane, che non soffocano la violenza religiosa in tutti i suoi aspetti, ma tendono invece a schierarsi dalla parte della comunità indù (anche nelle sue manifestazioni deteriori). Nemmeno una più attenta e imparziale gestione dei rapporti intercomunitari potrebbe eliminare del tutto minacce come quella del terrorismo jihadista, ma certo creerebbe un terreno meno fertile per il loro sviluppo.