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Un background sul G20 di Washington

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Durante l’ultimo G20 finanziario di Parigi, in febbraio, i ministri dell’Economia e i banchieri centrali hanno individuato due obiettivi fondamentali per la riforma della governance economica e finanziaria globale: in primo luogo, stabilire degli indicatori per monitorare i cosiddetti global imbalances, ovvero gli squilibri di flussi di capitali tra diverse aree dell’economia mondiale; in secondo luogo, porre le fondamenta di un sistema di regole per limitarne le conseguenze negative.

In vista del prossimo vertice, previsto il 14 aprile a Washington, il raggiungimento di un accordo sul primo punto è stato identificato come la priorità più urgente. Non esiste, tuttavia, consenso sull’origine degli squilibri né sulla strada da intraprendere per correggerli. Gli Stati Uniti, sostenuti dai paesi europei, tendono ad identificare il problema soprattutto con il mantenimento di un tasso di cambio artificialmente basso da parte delle economie emergenti. Queste ultime, al contrario, ritengono che alla base degli squilibri vi siano le politiche fiscali e monetarie adottate dai paesi sviluppati prima della crisi esplosa nel 2008.

Queste divergenze sono comprensibili solo facendo un passo indietro. I global imbalances hanno due cause strutturali diverse: la prima di carattere fiscale e commerciale, la seconda di carattere monetario.

Il primo fattore di squilibrio strutturale è il debito americano. Come ha sostenuto lo storico Charles Mayer, gli Stati Uniti dagli anni Settanta si sono trasformati nell’“impero dei consumi”. Da paese esportatore e creditore, gli Stati Uniti sono diventati paese debitore e importatore. Grazie alla centralità nel sistema economico internazionale e al ruolo del dollaro, il paese ha potuto (finora) consumare più di quello che produce, generando un twin deficit (commerciale e pubblico) senza che questo minacciasse il ruolo preminente dell’America nel mondo.

Il deficit commerciale americano è assorbito in gran parte dagli stati emergenti dell’Asia e, in minor misura dagli stati esportatori di petrolio, generando un imponente flusso di dollari dagli Stati Uniti verso i paesi esportatori.

In un sistema a tassi di cambio flessibili questo squilibrio sarebbe bilanciato naturalmente da un deprezzamento del dollaro e un apprezzamento del renminbi e delle altre monete. Tuttavia, in realtà questo non accade e lo squilibrio globale continua a crescere.

Il perpetuarsi dei global imbalance è una conseguenza della struttura del presente sistema monetario internazionale, definito dagli economisti sistema “Bretton Woods 2”.

Quest’ultimo è caratterizzato da una dinamica del tutto simile a quella che ha contraddistinto il periodo compreso tra il 1945 e il 1971, quando il dollaro era la valuta di riferimento per le transazioni internazionali e le altre valute erano agganciate ad esso con un sistema di cambi fissi. Allora, il sistema si basava sull’interazione tra un centro (gli Stati Uniti) e una periferia (Europa occidentale e Giappone) che accumulavano riserve di dollari e adottavano una strategia di crescita economica guidata dalle esportazioni, sostenuta a sua volta da una moneta debole.  

Secondo i sostenitori di questa interpretazione (proposta inizialmente da Dooley, Folkerts-Landau, e Garber)[1], la Cina e gli altri paesi emergenti dell’Asia orientale costituirebbero la nuova periferia. Come la “vecchia periferia”, adottano un modello di sviluppo export led sostenuto da un tasso di cambio artificialmente basso. Di conseguenza accumulano ingenti quantità di dollari sotto forma di riserve monetarie.

La combinazione di squilibrio commerciale e squilibrio monetario ha dato luogo ad una serie di conseguenze. L’accumulo di capitali nelle economie della “periferia”, unita alla forte propensione al risparmio delle economie emergenti (causata dall’assenza di protezioni sociali e dalla presenza di sistemi finanziari scarsamente sviluppati) genera una imponente domanda di asset sicuri, generalmente titoli del debito pubblico americano o altri investimenti denominati in dollari.  

Prima della crisi, questo squilibrio era considerato un fattore di stabilità e crescita. Aveva contribuito a creare le condizioni per quella che analisti e policy makers americani definivano The Great Moderation, un periodo caratterizzato da bassi tassi di interesse e scarsa inflazione. Il continuo flusso di capitali verso gli Stati Uniti ha garantito una crescita costante dei mercati finanziari e del mercato immobiliare con ricadute positive sui consumi. E in quel contesto la corsa della “locomotiva americana” ha favorito la crescita anche in Europa.

Dal 2007 in poi, tuttavia, si sono manifestati gli effetti perversi di questo squilibrio finanziario. I flussi di capitale dalla periferia verso il centro hanno prodotto quella che Ben Bernanke ha definito global saving glut, ovvero un afflusso eccessivo di risparmio rispetto alla opportunità di investimento esistenti.[2] Questo flusso eccessivo di capitali ha spinto il sistema finanziario americano a creare strumenti di allocazione del rischio sempre più sofisticati, per tentare di diminuire e controllare il rischio mantenendo comunque profitti elevati. Ciò ha però creato i presupposti per la crisi finanziaria globale.

Su questo sfondo, il primo punto in agenda per il G20 è quello di impedire un nuovo saving glut. Di conseguenza, la priorità americana è quella di un apprezzamento della valuta cinese rispetto al dollaro; una scelta che però viene contestata da Pechino.

Le proposte per affrontare queste tensioni strutturali sono essenzialmente di due tipi: un primo tipo è la riforma radicale del sistema monetario internazionale, con più di una valuta di riferimento. Il secondo tipo di proposte prevede una serie di aggiustamenti incrementali, con l’approvazione di indicatori di riferimento per la creazione successiva di meccanismi di correzione. Questi indicatori dovrebbero riguardare limiti al debito pubblico e privato, limiti ai deficit commerciali, bande di oscillazione prestabilite per il tasso di cambio reale, e standard fissi di riserve monetarie.

Gli attori più rilevanti del G20 si trovano coinvolti in un difficile gioco di coordinamento in cui la collaborazione per raggiungere un bene collettivo, la stabilità finanziaria di lungo periodo, è in contrasto con altri interessi individuali dei vari paesi. È per questo che un nuovo assetto appare improbabile, almeno nel breve periodo.


[1] Michael P. Dooley, David Folkerts-Landau, Peter Garber (September 2003). “An Essay on the Revived Bretton Woods System”. National Bureau of Economic Research.

[2] Ben Bernanke, “International capital flows and the returns to safe assets in the United States  2003-2007” Global imbalances and financial stability Banque de France • Financial Stability Review • No. 15 • February 2011.