Il più recente episodio della saga coreana ha riportato gli Stati Uniti al centro del sistema politico dell’Asia orientale: uno sviluppo che è sembrato inatteso ma di cui c’erano avvisaglie. Era ampiamente prevedibile che Stati Uniti e Corea del Sud trovassero una via d’uscita all’impasse che impediva il raggiungimento di un accordo commerciale, sulla rampa di lancio ormai da anni. Era prevedibile anche che dopo il lungo braccio di ferro tra Cina e Giappone sulle isole Senkaku/Diaoyu, i rapporti tra Tokyo e Washington si stabilizzassero; e che si procedesse verso un coordinamento nel campo della sicurezza tra Giappone, Corea del Sud e USA. Risponde infine a una logica di adattamento strategico la scelta del governo nipponico di puntare su una politica militare più assertiva e decisa, affiancando gli Stati Uniti in un’azione di contenimento rispetto ai fattori di instabilità: è una concezione più dinamica dell’alleanza bilaterale a lungo auspicata da Washington.
Questa evoluzione complessiva era già nella logica delle cose, dunque. È stata comunque favorita e accelerata dalle ultime iniziative nordcoreane che – estemporanee o lungamente meditate che siano – hanno finito col favorire l’amministrazione Obama almeno rispetto a Pechino. Il problema per la Cina è oggi come far sì che l’aumento del proprio peso relativo in Asia orientale non spinga i paesi dell’area a rafforzare i loro legami con gli USA. Ciò infatti avrebbe l’effetto di consentire a Washington di mantenere quel ruolo di garanzia della sicurezza regionale che a Pechino si vorrebbe vedere ridimensionato se non proprio cancellato. Di contro, gli USA hanno il problema di fare in modo che la diminuzione del proprio peso globale non si traduca nello scacchiere asiatico – che all’inizio del suo mandato Obama ha definito prioritario per gli interessi della nazione – in una crescita automatica dell’influenza cinese.
Il gioco di incastri spinge sia Pechino sia Washington a mantenere vivo un dialogo che risulti utile per entrambi. Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi ha ribadito che “le relazioni tra le due grandi potenze devono essere improntate alla collaborazione e soprattutto devono essere win-win, non a somma zero”. Gli Stati Uniti d’altra parte non rinunciano a chiedere alla Cina una partnership per garantire una stabilità che non significhi immobilismo ma reciproca responsabilità.
La gestione della perenne crisi coreana è un banco di prova essenziale per questa forma di cooperazione. Ma se la Corea del Nord, per la crisi economica che l’attanaglia, per i cambiamenti al vertice che si annunciano o per il senso di accerchiamento e isolamento che sembra intensificarsi nella casta politico-militare dirigente, si presenta come una mina vagante, è la Cina – in quanto unico vero protettore del regime – a trovarsi in maggiore difficoltà.
Dopo l’attacco del 23 novembre all’isola di Yeonpyeong, Pechino deve aver preso atto di non avere assi in mano. È stata quasi costretta a fare proprio il punto di vista nordcoreano, consistente nel definire il bombardamento una risposta alle provocazioni del Sud (a seguito delle manovre militari a ridosso della Northern Limit Line), e in termini più generali nel contestare uno status quo del lontano 1953 che è pur sempre quello garantito dalla superpotenza americana. Questa chiave di lettura – una Cina apertamente anti-status quo – diventa ovviamente assai preoccupante se viene estesa, per analogia, anche alle rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese meridionale e nel Mar Cinese orientale. In realtà, nell’ottica di Pechino la querelle intercoreana è un tema tutto sommato marginale che provoca un’inutile tensione regionale. La diplomazia cinese ha potuto soltanto sfoderare l’arma spuntata della ripresa dei negoziati multilaterali a sei, ricevendo da americani, giapponesi e sudcoreani un rifiuto non solo netto, ma anche in perfetta sintonia.
Il messaggio che l’America ha intanto inviato a Pechino è stato dunque semplice e netto: se davvero teme mosse estreme di Pyongyang, compreso lo scenario di una guerra aperta contro il Sud, la Cina non si limiti ad aspettare che siano altri a togliere le castagne dal fuoco.
A fronte di una Cina che è parsa sulla difensiva è emerso infatti un blocco a guida americana insolitamente coeso: la sensazione è che, muovendosi a tutto campo, Obama abbia recuperato il terreno che sembrava avere perso, negli appuntamenti di Seul (G20) e Yokohama (APEC) in novembre. Ha infatti trasformato due alleanze strategiche strettamente bilaterali in uno schieramento coordinato. Nel farlo, ha piegato le ragioni dell’interesse economico-finanziario a quelle della politica, con la sicurezza inevitabilmente al primo posto: un campo in cui gli USA restano un deus ex machina senza rivali, in Asia orientale come altrove. Ciò non significa che prima o poi non si tornerà ai tradizionali i colloqui a sei sulla penisola coreana, né che la politica piuttosto dure del presidente sudcoreano Lee Myung-bak non lasci il posto al morbido pacifismo dei tempi di Kim Dae-jung e Roh Moo-hyun. Ma, per ora, l’impostazione data da Hillary Clinton dopo il vertice a tre tenuto a Washington coi colleghi sudcoreani e nipponici il 6 dicembre, traccia una road map di forte impronta americana: tempi e modi del negoziato verranno definiti da Washington con i suoi alleati.
Obama si è presentato all’appuntamento con il suo tour asiatico di novembre proprio con l’obiettivo di non farsi schiacciare dai dossier economici, puntando invece sulla politica. Non per caso ha visitato i quattro paesi dell’area che risultano più affidabili sul piano delle istituzioni democratiche (oltre a Corea del Sud e Giappone, India e Indonesia). Ha così proposto di dare all’APEC una impostazione più rivolta alle questioni politiche e di sicurezza. In tale contesto possiamo dire che Washington ha ora trovato un ulteriore punto d’appoggio su cui fare leva per esercitare l’influenza americana: il problema della Corea del Nord.
Il 3 dicembre è stata raggiunta un’intesa per l’accordo di libero scambio USA-Corea del Sud che si attendeva da anni (una prima stesura, del 2007, non è mai stata ratificata dai rispettivi parlamenti). Si tratta di una svolta nei rapporti commerciali tra le due rive del Pacifico (malgrado le mille deroghe), che potrebbe regalare agli americani 70mila nuovi posti di lavoro e una migliore bilancia commerciale. L’accordo è stato letto come un cedimento dei coreani in cambio di una rinnovata – e ostentata – copertura politico-militare americana.
Quanto a Tokyo, le linee guida della strategia di difesa giapponese per il prossimo quinquennio erano certo in preparazione da tempo ed era inevitabile che si concentrassero su Nord Corea e Cina. Ma proprio alla possibilità di un escalation nella penisola coreana è stata data negli ultimi giorni massima rilevanza, perfino con l’ipotesi dell’invio di forze di terra (sia pure solo per proteggere la comunità giapponese).
Su tale sfondo, gli Stati Uniti hanno ripreso il centro della scena anche con le manovre militari congiunte delle ultime settimane, a livello bilaterale sia con i giapponesi sia con i sudcoreani. La novità significativa è che “osservatori” dei due paesi hanno partecipato alle operazioni, segnalando uno sforzo per superare la reciproca diffidenza nippo-coreana. Il capo di stato maggiore americano, Ammiraglio Mike Mullen, ha affiancato le manovre militari con le visite (8-9 dicembre) in Corea e Giappone, esprimendo l’auspicio di vedere “più azioni trilaterali in futuro nella regione”. In sintesi, l’America si è ricollocata al centro delle strategie asiatiche.