È abbastanza strano rendersi conto che il luogo in cui è stato appena tenuto il G20, la penisola coreana, è assai pericoloso: negli scenari su eventuali conflitti, la Corea è (assieme al Pakistan) ai primi posti fra i flashpoints.
Da vari mesi a questa parte, la situazione va peggiorando. Il regime nord-coreano, uno dei più opachi al mondo, ha compiuto una serie di atti provocatori, fra cui l’affondamento di una corvetta sud-coreana nel marzo scorso. Con gli attacchi di artiglieria di ieri contro un’isola sud-coreana, l’escalation ha raggiunto un livello senza precedenti dall’armistizio del 1953 (un trattato di pace non è mai stato firmato). Alle prese con la successione interna, e intenta a sviluppare il proprio programma nucleare (la settimana scorsa, scienziati americani hanno certificato progressi nell’arricchimento dell’uranio), la Corea del Nord sembra volere a tutti i costi una confrontation esterna. Perché?
Gran parte degli esperti risponde nel modo più classico: è una questione di successione. Kim Jong-un, il figlio ormai designato di un dittatore vecchio e malato (Kim Jong-il), ha bisogno di mostrarsi “duro” per consolidare il suo rapporto con l’esercito. Ma esiste anche il contesto esterno: il regime di Pyongyang, indebolito dalle sanzioni, compie questa mossa dopo il rafforzamento dei legami militari fra un governo sud-coreano che ha da tempo rinunciato alla “diplomazia del sorriso” (il presidente Lee Myung-Bak è a sua volta più duro del predecessore, anche sull’erogazione degli aiuti al Nord) e un’amministrazione americana interessata – come ha dimostrato il viaggio asiatico di Obama – a costruire un rete di contenimento nei confronti della Cina.
La Cina è in effetti l’attore chiave, quale unico e potente alleato regionale di Pyongyang. Fino ad oggi, Pechino è apparsa alquanto riluttante ad utilizzare le sue leve di influenza; sia nell’ambito dei six-party talks sulla questione nucleare, sia di fronte alla crisi del marzo scorso, quando la Cina ha sostenuto la tesi della mancanza di prove sulla responsabilità nord-coreana per l’affondamento della nave militare di Seul. Pechino ha condannato in modo esplicito Pyongyang solo nel 2006, quando la Corea del Nord ha compiuto un nuovo test nucleare dopo aver denunciato nel 2003 il Trattato di non proliferazione. Da allora in poi, la relazione è tornata al bello.
La preoccupazione principale di Pechino è la stessa da anni: preservare lo status quo, evitando così i costi diretti di un eventuale crollo del regime nord-coreano (a cominciare da un’ondata migratoria verso la Cina stessa), e prevenendo la nascita di una Corea unita e alleata degli Stati Uniti. La percezione cinese, in altri termini, è che una riunificazione alla tedesca della penisola coreana modificherebbe a proprio svantaggio gli equilibri regionali.
La domanda decisiva è se l’escalation di ieri – con responsabilità innegabili di Pyongyang – obbligherà la Cina a uscire da questa posizione attendista; e per molti versi imbarazzante, secondo una parte del dibattito interno alla Repubblica Popolare.
Non è chiaro, in effetti, quanto Pechino voglia o sia in grado di controllare il regime nord-coreano; ma è abbastanza chiaro che le mosse provocatorie del Nord cominciano a diventare eccessive anche per la Cina.
L’inviato speciale americano sulla Corea del Nord, Stephen Boswort, ha sostenuto ieri, dopo una serie di incontri a Pechino, che Stati Uniti e Cina concordano sulla necessità di tenere sotto controllo la situazione. Nel frattempo, Usa e Corea del Sud hanno annunciato manovre militari congiunte per domenica prossima.
Resta difficile pensare che la leadership cinese modifichi radicalmente il suo atteggiamento sulla questione coreana. Ma può darsi che Pechino sia ora pronta a forzare la mano a Pyongyang, per rendere meno imprevedibili gli effetti della successione. E per contenere i rischi di conflitto.
Due realtà sottostanti sembrano andare in questa stessa direzione: primo, una vera e propria guerra sulla penisola coreana sarebbe distruttiva per entrambe le parti. Entrambe lo sanno. Secondo, la Corea del Nord ha molte volte dimostrato in passato di usare le provocazioni militari per ottenere qualcosa d’altro: una trattativa. Ma è un gioco che può sfuggire di mano. Ragione di più perché la Cina eserciti finalmente la sua influenza in modo diretto e responsabile.