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La guerra di Petraeus

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Da un mese alla testa delle truppe NATO e americane in Afghanistan, il generale David Petraeus ne ha davanti a sé altri quattro. È il tempo che lo separa dalla conferenza della NATO in Portogallo. Per quella data, l’uomo che ha sostituito Stanley McChrystal sul campo deve dimostrare che la nuova strategia dell’Alleanza in Afghanistan sta ottenendo risultati. Ma qual è la nuova strategia di David Petraeus e, soprattutto, quanto è in linea con ciò che pensano il presidente Obama, l’opinione pubblica americana e il Congresso?

Che il bastone del comando per l’Afghanistan risieda a Washington non è una novità, ma a Washington la situazione è nebulosa, e questo deve preoccupare. Per ora, le idee chiare in Afghanistan sembrano averle soprattutto gli afgani: Karzai e i talebani. Il resto del mondo procede alla spicciolata. Gli europei si limitano a dichiarazioni vaghe e procedono – o meglio, si ritirano – in ordine sparso: i britannici hanno già una data per il ritiro delle loro truppe che, iniziando nel 2011, si dovrebbe concludere nel 2015; e gli olandesi stanno facendo le valige dal fronte. Guardando oltre l’Europa, i giapponesi hanno detto stop alla loro missione militare (ma restano molto attivi sul fronte civile) mentre i canadesi intendono cominciare il ritiro l’anno prossimo. Ma il punto vero è: cosa faranno gli americani? Una domanda che al momento non ha ancora una risposta.

Negli Stati Uniti le polemiche sul futuro attraversano il Partito Democratico e persino quello Repubblicano. Tra i conservatori, le dichiarazioni di Michael Steel, a capo del Republican National Committee che ha definito l’Afghanistan una “guerra decisa da Obama”, hanno scatenato un putiferio. Giugno è stato il mese peggiore per la coalizione, che ha perso in soli  trenta giorni 103 soldati, 60 dei quali statunitensi. Ma è anche stato il mese in cui la guerra afgana è diventata la più lunga della storia americana, sorpassando persino il Vietnam: una soglia psicologica. Infine, un recente sondaggio dice che il 48% degli intervistati ritiene che finire la guerra sia più importante che vincerla, e se 4 su 10 ritengono che il conflitto possa ancora essere vinto, il 59% si divide tra coloro che pensano il contrario e gli indecisi. Anche sul fronte della spesa ci sono difficoltà. Il Senato ha appena approvato per l’Afghanistan 60 miliardi di dollari, ma avrebbero dovuto essere di più.

Anche le notizie dal fronte sono confuse. Il passaggio di mano tra McChrystal e Petraeus non ha chiarito granché. Non va dimenticato che McChrystal era non soltanto un sottoposto di Petraeus, ma anche un suo amico oltre che allievo. La sensazione (come rilevato nell’articolo di Asiaticus qui su Aspenia online) è che McChrystal abbia ritenuto di essere sul punto di restare col cerino in mano di una sconfitta, imputabile a suo avviso – come ha chiaramente spiegato nella famosa intervista – alle lacune della politica più che alle falle dell’operazione militare.

La sua sostituzione con Petraeus racconta due cose: la prima è l’importanza della guerra afgana per l’Amministrazione, che ritiene di poter trovare una via d’uscita “irachena” col militare che in Iraq ha quantomeno invertito la rotta del conflitto. La seconda è che McChrystal non stava per nulla eseguendo le indicazioni del suo capo.  Sebbene avesse seguito la rotta del manuale Petraeus sulla guerra controinsurrezionale, puntando all’arresto o alla eliminazione dei capi talebani (circa 700 durante il suo comando), McChrystal aveva sposato la teoria del  “government-in-a-box”, ossia del trasferimento del potere al governo afgano nelle aree sottratte ai talebani.

Teoria rivelatasi fallace dopo lo smacco di Marjah, area liberata con estrema difficoltà ma rapidamente perduta una volta terminata l’Operazione Moshtarak. Era, inoltre, costantemente in contatto con Karzai e, di conseguenza, spesso in rotta di collisione con i falchi del Pentagono, irritati da una conduzione troppo “morbida” della guerra. Per evitare vittime civili, infatti (uno dei punti fermi per McChrystal), il generale aveva modificato le regole di ingaggio, finendo, almeno secondo i detrattori, rendere più difficile il lavoro dei marines.

A questo punto, appare quantomeno plausibile il sospetto che il rinvio dell’Operazione Kandahar, ossia la “fase due” dell’originario piano di McChrystal, non sia dovuta a motivi tattico stagionali, ma a una diverso modo di intendere il conflitto.

Le prime mosse di Petraeus vanno, infatti, in senso quasi opposto a quelle del suo predecessore. Il generale vuole ora difendere i suoi uomini e rendere più invasive ed efficaci – dunque potenzialmente sanguinose – le operazioni speciali per la caccia ai talebani. I suoi rapporti con Karzai sono tutt’altro che idilliaci: Petraeus ha fatto digerire al presidente afgano il famoso piano di costituzione di una milizia civile armata, che McChrystal aveva di fatto ignorato e a cui gli afgani sono generalmente contrari (pur avendolo formalmente approvato con mille distinguo). Ne consegue, tra l’altro, che l’operazione Kandahar dovrebbe essere una violenta spallata ai talebani.

C’è anche uno stile Petraeus: l’esatto opposto dello stile McChrystal. Petraeus esige che tutti schizzino in piedi quando entra in sala riunioni, è un uomo poco incline al cameratismo, si muove solo in elicottero ed evita di andare in tv a scusarsi con gli afgani ogni volta che la NATO commette un errore. È più distante, più deciso, più assertivo. Funzionerà?

La sua squadra di analisti di riferimento include gente altrettanto assertiva: Stephen Biddle, del Council on Foreign Relations, Frederick Kagan dell’American Enterprise Institute e Kimberly Kagan, dell’ Institute for the Study of War. Il loro compito è quello di fornire gli strumenti dialettici per convincere Obama che, se è proprio necessario cominciare a ritirarsi nel 2011, lo si può fare però con molta calma. Una tesi che si fa strada e che ha recentemente ricevuto un sostanziale appoggio dal Capo di Stato Maggiore della Difesa, Ammiraglio McMullen.

Naturalmente Petraeus deve fare i conti con la politica. Innanzi tutto con la Conferenza di Kabul, conclusasi il 20 luglio nella capitale afgana. La Conferenza ha avallato la strategia di Karzai per il reintegro dei talebani, ma è ancora evidente la frattura tra quanto Karzai pensa di fare (trattare con la cupola) e quanto Washington e Petraeus intendano lasciargli fare. Gli Stati Uniti non appoggiano le trattative che Karzai ha iniziato con Hekmatyar e la rete Haqqani. Petraeus è schierato con chi ritiene che simili personaggi debbano essere dei bersagli, non degli interlocutori. La pressione dei fautori della linea dura ha già ottenuto due risultati. Il primo: evitare che la cancellazione dalla lista nera dell’Onu dei capi talebani (decisione presa alla Conferenza di Kabul) diventi un processo troppo rapido, troppo afgano e gestito quasi interamente da Karzai. Il secondo: imporre nuove sanzioni finanziarie ai capi talebani.

Intanto, Karzai ha fissato il 2014 come l’anno di passaggio delle consegne dalla NATO all’esercito nazionale per le operazioni militari in tutte le province; e qualcuno osserva che quella data servirà in effetti a spostare più in là proprio il “ritiro” fissato in teoria per il 2011. In ogni caso, per il 2014 Petraeus vorrebbe che le attuali forze di sicurezza nazionali (che a settembre dovrebbero arrivare a 134mila soldati e 109mila poliziotti) fossero effettivamente formate (il loro addestramento è già costato 27 miliardi di dollari). In tale scenario, gli americani potrebbero davvero cominciare ad andare a casa; ma, nell’ipotesi di Petraeus, dovrebbero comunque restare in Afghanistan ben più che i soli consiglieri militari.