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Da Londra parte la via della riconciliazione afgana

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La Conferenza di Londra del 28 gennaio, che doveva ufficialmente concentrarsi sulla “sicurezza” e la “transizione”, si è in realtà trasformata nell’occasione per affrontare il lato più spinoso, ma anche non più rinviabile, del conflitto: la trattativa con i talebani e il piano di riconciliazione nazionale. Si tratta peraltro di una vecchia idea di Karzai, per reintegrare nella vita civile i “fratelli” delusi dalla lotta armata e più desiderosi di imbracciare una zappa che un Ak47.

La Conferenza ha messo a calendario anche alcune date e qualche numero: il primo ministro britannico Gordon Brown ha indicato la metà del 2011 quale deadline per “invertire la rotta” nella lotta contro la guerriglia. Questo il tempo per modificare il corso della guerra e, dunque, per avviare trattative e riportare a casa il maggior numero di manodopera talebana.

Ma, ha puntualizzato Brown, sarà solo “l’inizio del processo di transizione” che dovrà dare agli afgani il controllo del loro stesso paese: almeno cinque anni per raggiungere un altro obiettivo ritenuto ineludibile, cioè il rafforzamento dell’esercito nazionale (Ana). Esso dovrà contare su  134.000 uomini entro l’ottobre 2010 e su 170.000 dodici mesi dopo. Aggiungendo le cifre delle forze di polizia, si punta a un totale di 300.000 uomini entro ventun mesi da oggi. Dunque una cifra non lontana dai 400.000 richiesti dalla cosiddetta “opzione McChrystal”, presentata a Obama dal generale che comanda Isaf/Nato e le truppe americane in territorio afgano. E che ha già ottenuto dal presidente 30.000 nuovi marines e altri 7.000 soldati (di cui mille italiani) dagli alleati Nato.

Ma il punto qualificante di Londra è proprio la strategia di riconciliazione  nazionale di Karzai, per far sedere allo stesso tavolo governo e guerriglia –  anche se resta da vedere quale delle tante anime della guerriglia.

Il Trust fund per il reintegro dei combattenti non ha ancora un plafond definito, ma Germania e  Giappone hanno già annunciato un assegno da 50 milioni di dollari e, secondo alcune fonti, Washington sarebbe disposta a sborsare oltre un miliardo. Ammesso che riesca a risolvere, col Congresso, la contraddizione di canalizzare fondi sui talebani, cioè un gruppo sulla lista nera americana dei gruppi terroristici.

Quel che non è chiaro è come avverrà la gestione di queste risorse. Passeranno per gli uffici della Commissione nazionale di riconciliazione presieduta dall’ex presidente afgano  Sibghatullah Mojadeddi? Ci sarà una forma di controllo esterno? Karzai consentirà che mentor e monitor internazionali mettano becco? Ma soprattutto, che effetti sortirà questo nuovo sforzo finanziario?

Karzai sostiene di  non aver avuto finora  le risorse per poter offrire ai contadini-combattenti denaro e zappe sufficienti a convincerli. Ma sa bene che la riuscita del piano dipende dalla possibilità che, parallelamente, si avvii anche un processo di pacificazione e che questo, a sua volta, richiede anche una pressione sui paesi che hanno influenza sul conflitto e i suoi attori, primo fra tutti il Pakistan.

“Sarebbe  ingenuo pensare che i talebani possano cedere alle pressioni pachistane su posizioni più favorevoli a Islamabad che non al loro leader, mullah Omar”, scrive Rahimullah Yusufzai, autorevole analista del pachistano “The News”. Che aggiunge come  in passato (la trattativa su bin Laden o i Budda di Bamyan) i talebani abbiano dimostrato di tenere in considerazione solo in parte i consigli di Islamabad. Conclude Yusufzai che “…benché alcuni combattenti possano decidere di lasciare la lotta armata in cambio di favori, la maggioranza rimarrebbe fedele a Omar e continuerebbe a combattere”.

Per completare un quadro complicato, si deve aggiungere che il piano di reintegrazione poggia su un presidente molto debole, con una esecutivo di 41 ministri di cui solo 27 sono stati promossi dal parlamento: un presidente, dunque che sarà impegnato nei prossimi mesi a trattare con i suoi, prima ancora che con i talebani.

Benché programmi simili siano stati avviati in molti paesi, dallo Yemen all’Indonesia, molto spesso il processo si riduce a un fallimento o comunque a una strada tortuosissima. In teoria non mancano comunque i successi: sembra che il programma saudita, ad esempio, abbia “reintegrato” 4.000 terroristi.

Ma il piano servirà a poco se non ci si avvierà contestualmente  sulla strada del negoziato. Come, e con chi? Attualmente sono in piedi diversi tipi di mediazioni più o meno sotto traccia. E se è stata una sorpresa la notizia che Kai Eide si era incontrato a Dubai con i talebani (che hanno smentito), è ormai noto che una serie di programmi sanitari nel Sud, come la campagna di vaccinazioni anti-polio, sono stati condotti attraverso un accordo Onu con i talebani. Piccoli passi. A Kabul lavorano al negoziato da tempo alcuni ex combattenti, come l’ex ambasciatore talebano Abdul Salam Zaeef  o l’ex ministro Abdul Wakil Mutawakil, quest’ultimo rimosso qualche giorno fa dalla lista nera dell’Onu che gli vietava di viaggiare e gli aveva congelato i beni. Poi ci sono i colloqui “ufficiali”, come quelli avviati già dal 2008 dai  sauditi ma che non sembrano aver fatto passi avanti. O la mediazione dei turchi, uscita allo scoperto all’ultima Conferenza sulla sicurezza regionale tenutasi a Istanbul alla vigilia di Londra. O ancora quella pachistana, con tutti i distinguo del caso.

Una delle precondizioni potrebbe proprio essere la rimozione dei capi talebani dalle liste nere. Aver fatto questa operazione per Abdul Wakil Mutawakil, che vive a Kabul ormai da anni, non è ovviamente come farlo per il mullah Omar, una richiesta che Karzai avrebbe in animo di fare e che Hillary Clinton ha già respinto. Anche se il segretario alla Difesa Robert Gates ha sostenuto recentemente che i talebani sono parte del panorama politico (“political fabric”) afgano.

La scommessa sta dunque nella “Loya Jirga” (l’assemblea tribale tradizionale) che Karzai vorrebbe organizzare in primavera e a cui ha invitato come presidente il re saudita Abdullah. Se il mullah Omar non accettasse l’invito, potrebbe mandare un emissario. Oltre a lui ci sono personaggi come Gulbuddin Hekmatyar, alleato tattico dei talebani, e molto influente nell’Est e  nel Nord del paese. O la cosiddetta filiera Haqqani, la famiglia pashtun che dirige dal Pakistan le azioni suicide più stragiste e ha da sempre buoni rapporti con i qaedisti – e che per questo sembra francamente impresentabile.

Come se non bastasse, c’è anche un problema che va oltre i talebani. Uno dei tanti sotto traccia è infatti la presenza  dei beluci pachistani (la comunità originaria della provincia del Belucistan che conterebbe in Afghanistan circa 400.000 persone ormai integratesi nel tessuto locale). Secondo alcune fonti,  la filiera filotalebana attiva nel Belucistan pachistano sarebbe  responsabile del sequestro, poi risoltosi, di un funzionario dell’Unhcr un anno fa e rivendicato dalla nuova sigla “Bluf” (Fronte unito di liberazione del Belucistan).  Islamabad sostiene che ci sarebbe lo zampino dei servizi segreti indiani, nella propria partita in Afghanistan in chiave anti-pachistana. Come si vede, non basterà il Trust-Fund, né la Jirga di pace, se non si mette mano in chiave regionale anche a questa riedizione moderna del “Grande gioco” centro-asiatico.