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La UE alla prova di Haiti

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Consideriamo questo paradosso. Di fronte a una delle crisi umanitarie più gravi della storia recente, l’Unione europea, che si considera una “potenza umanitaria” per eccellenza, è sembrata esitare. La riunione straordinaria dei ministri degli esteri su Haiti si è svolta a Bruxelles solo lunedì scorso, a quasi una settimana di distanza dal terremoto che ha distrutto l’isola.  Come reazione rapida, frase gergale del lessico europeo, è apparsa abbastanza tardiva. Nell’insieme, la Commissione europea e gli Stati membri hanno deciso di erogare più di 200 milioni di euro, come aiuti di emergenza; e hanno promesso altrettanto per la futura ricostruzione. L’intenzione è di verificare gli impegni a un prossimo meeting, il 25 gennaio. Si vedrà a fine mese.

Nel frattempo, Obama continua a mandare nell’isola i suoi marines. Mentre il team di esperti europei deve ancora partire per Haiti, il controllo immediato americano ha scatenato una mini battaglia diplomatica fra Parigi, potenza coloniale dei tempi che furono, e Washington, che ha ritrovato una specie di orgoglio imperiale in un lembo del cortile di casa.

E’ ovvio che il fattore geografico conta: Haiti fa parte dei “Balcani americani”, non europei. Ed è vero che l’America, oscillando come ha fatto negli ultimi decenni fra interferenza (Bill Clinton) e indifferenza (George W.Bush), ha responsabilità anche recenti da cancellare nell’isola.
Ma i paesi europei sembrano più inclini a protestare con Washington che a coordinarsi meglio fra loro. Francia e Spagna, in particolare, con le obiezioni per una gestione troppo americana dell’emergenza. Mentre Bruxelles chiede, come quasi sempre di fronte a una crisi, di convocare una Conferenza internazionale.

Tutto come al solito, si dirà. Gli Stati Uniti decisi a esercitare una leadership, ma con dubbi già espliciti – esterni e interni (New York Times) – sulla sostenibilità e i risultati di questo genere di impegno, affidato in prima battuta ai militari. L’Europa lenta e meno visibile degli Stati nazionali che la compongono, ma intenzionata a giocare sui tempi lunghi della ricostruzione civile. In teoria, questa potrebbe anche essere una divisione del lavoro virtuosa, di fronte alle crisi umanitarie; nei fatti,  è invece competizione sterile fra i principali donatori occidentali. Una competizione che la tragedia di Haiti rende assurda e dannosa. 

Invece di misurare sulle macerie dell’isola gli orgogli nazionali, Stati Uniti ed Europa dovrebbero riflettere insieme – e insieme al principale attore regionale, il Brasile, – su un punto decisivo: come concepire il futuro della presenza internazionale ad Haiti? Gli insuccessi dei tentativi di ricostruzione degli Stati, negli ultimi decenni, hanno per molti versi screditato il “nation building” in quanto tale, come obiettivo credibile di politica estera. Le condizioni di Haiti, tuttavia, ripropongono esattamente questo dilemma. Per affrontarlo con qualche possibilità di successo vanno tenute presenti le lezioni negative del passato ma anche alcune lezioni positive. Per esempio – pur tenendo conto di tutte le differenze fra i singoli casi – i risultati della missione ad Aceh, la provincia indonesiana investita dallo Tsunami del 2004. Si tratta, come evidente, di un’operazione su scala minore, ma per ora riuscita: lo sforzo congiunto dei donatori internazionali, la mediazione europea e la successiva missione di monitoraggio elettorale, hanno in effetti permesso una qualche riabilitazione economica e un primo accordo di pace fra le forze indipendentiste e il governo indonesiano. Si è d’altra parte evitata la costruzione di un protettorato di fatto: soluzione che, come dimostrano i casi di Kosovo e Bosnia nei Balcani, finisce per diventare quasi permanente (diventando una non soluzione, quindi).

Se la sfida che porrà nel tempo la tragedia di Haiti è questa – come non fallire una ennesima volta nella ricostruzione di uno “Stato fallito” – l’Europa ha gli strumenti più adatti per affrontarla? La risposta standard europea è positiva, anche perché l’UE ha perseguito espressamente un suo ruolo da potenza civile, con una marcata vocazione umanitaria. Sul piano pratico, tuttavia, non ne sono derivate  (ancora) scelte conseguenti.

E’ discutibile, per esempio, che la nuova figura di Alto Rappresentante e vice-presidente della Commissione, insomma il quasi ministro degli esteri europeo, non abbia assorbito il portafoglio degli aiuti allo sviluppo, che sono in effetti una risorsa essenziale per l’esercizio del “soft power” europeo. Nella squadra assemblata da José Manuel Barroso, il portafoglio degli aiuti è stato anzi ripartito fra due altri Commissari: gli aiuti allo sviluppo da una parte (Andris Piebalgs) e gli aiuti umanitari e la gestione delle crisi da un’altra (la bulgara Rumiana Jeleva, che ha dovuto peraltro ritirare la sua candidatura dopo una disastrosa audizione al Parlamento europeo).

In un’Unione che rivendica il ruolo di principale donatore globale, questa frammentazione delle risorse non favorirà la coerenza delle politiche. E’ vero che esiste l’impegno al coordinamento interno, cosa che ha permesso a Catherine Ashton di guidare la riunione straordinaria su Haiti. Ma se il nuovo Ministro degli esteri dovrà coordinarsi soprattutto a Bruxelles, prima che sui terreni di intervento, la gestione europea delle crisi sarà più lenta e meno efficace di quanto potrebbe essere.