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Un countdown israeliano sull’Iran?

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Se in Israele ci sia davvero un “conto alla rovescia” rispetto al programma nucleare iraniano, nessuno può dirlo. Un’operazione aerea preventiva simile a quella condotta dagli stessi israeliani contro il rettore nucleare iracheno di Osirak nel lontano 1981 è sembrata a tratti quasi imminente; oggi tale opzione non sembra più probabile.

Strano notare come cambino il profilo e il carattere del dibattito a pochi mesi di distanza. I protagonisti sono tutti lì, ma inaspettatamente la trama è un’altra. Dopo il discorso al Cairo e le aperture di Obama al mondo musulmano, si era aperto un breve spiraglio di speranza: forse, un’amministrazione americana promotrice del multilateralismo e di negoziati diretti con l’Iran avrebbe potuto restituire a Tehran quel senso di sicurezza regionale e di orgoglio nazionale che sono una motivazione di fondo del suo programma nucleare. Gli israeliani, da parte loro, sembravano avere interesse a bloccare un eventuale riavvicinamento tra Teheran e Washington, sottolineando sistematicamente l’antisemitismo di Ahmadinejad e il rischio “esistenziale” posto da un Iran con armi nucleari. Ma probabilmente guardavano con reale interesse a una diversa strategia americana per verificare fino in fondo le possibilità, per quanto limitate, di cambiare l’atteggiamento dell’Iran.

In altre parole, questa discussione ha tenuto alta l’attenzione del mondo su un dibattito più apparente che reale, perché il governo Nethanyahu ha probabilmente parlato di un’operazione militare più di quanto non l’abbia preparata sul terreno. E’ stato assai più interessato a un impiego di Tsahal in scenari consueti, come una nuova operazione punitiva nella striscia di Gaza, oppure un tentativo di estirpare gli Sciiti di Hezbollah ai propri confini.

Il problema è che gli Stati Uniti, più che essere pienamente impegnati in una chiara strategia di “double track” (apertura negoziale ma anche pressioni crescenti), si mostrano oggi attendisti e indecisi, e questo non aiuta i paesi della regione a ridurre le tensioni crescenti tra loro. La prudenza di Obama è evidente su molti dossier: se ne è avuta una conferma anche nel modo in cui ha evitato di lanciare una vasta operazione anti-jihadista nello Yemen a seguito del fallito attentato terroristico del giorno di Natale.

Il Presidente è perfettamente cosciente dei pericoli provenienti dall’Iran, ma desidera senza dubbio allontanare l’ipotesi di un attacco preventivo all’Iran, che sarebbe salutato dall’opinione pubblica americana come una sorta di riedizione della “dottrina Bush”, dall’Europa come un’azione “muscolare” assai opinabile, dalla Federazione Russa e dalla Cina come una provocazione, e dagli alleati regionali (Arabia Saudita in testa) come probabilmente sbagliata nel timing. Gli unici a gioire potrebbero essere proprio gli Israeliani, che appaiono quasi più preoccupati dal possibile calo di interesse e sostegno da parte degli Stati Uniti, che non dall’entità reale della minaccia iraniana.

Per tutte queste ragioni, mentre un’operazione militare appare improbabile, la questione di come ottenere con mezzi alternativi la sospensione del riarmo nucleare iraniano è invece cruciale e urgente. Il primo elemento che dovrebbe far riflettere sulla nuova piega presa dal problema è appunto il dibattito pendente sulle sanzioni ONU. Annunciate, poi posticipate in attesa di un accordo che avrebbe potuto emergere tra Teheran e i “5+1” (i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e la Germana), esse sono state differite ulteriormente da una serie di eventi, a cominciare dalle contestazioni di piazza in Iran dopo le elezioni del giugno scorso. E’ chiaro qui che il dilemma è se l’imposizione di nuove sanzioni all’Iran aiuti i manifestanti/oppositori, radicalizzando ulteriormente le tensioni interne, o piuttosto non abbia l’effetto deleterio di ricompattare gli iraniani.

Nel frattempo, Cina a Russia hanno dimostrato di avere un’agenda ben diversa da quella americana e di non avere nessuna intenzione di collaborare con Washington senza ottenere molto in cambio. Se infatti la Russia è interessata a giocare un ruolo di mediatore, anche attraverso la proposta di portare l’uranio impoverito iraniano sul suo territorio, non vuole assolutamente giocarsi i suoi nuovi partner in vista di una special relationship con gli USA che forse non è più così attraente per Mosca. A sua volta, la Cina ha interesse a farsi una reputazione nell’area il più possibile dissociata dagli interessi americani, e probabilmente della stesse Nazioni Unite. All’ultimo vertice tra Cina e Lega Araba dello scorso marzo, Wen Jiabao ha cercato di promuovere l’immagine del suo Paese come partner tecnologico ed economico di primo livello per i Paesi arabi senza contropartite politiche, cioè – a differenza di UE e Stati Uniti – senza riferimento alcuno ai diritti umani e naturalmente alle caratteristiche dei regimi al potere.

In questo quadro, Obama si ritrova schiacciato tra un forte desiderio di cambiamento, indicato come  obiettivo principale nel patto elettorale con gli americani, e le responsabilità ereditate in tutti gli scenari già aperti, che predispongono invece a una sostanziale continuità.

Quale dunque la reazione di Israele in un contesto così incerto? Sul Jerusalem Post, quotidiano nazionale israeliano, la rubrica specificatamente dedicata all’Iran e intitolata “Iranian threat” rimane una colonna portante. Eppure anche i suoi toni appaiono sensibilmente cambiati: può ad esempio trovare una discreta accoglienza un articolo come quello di Larry Defner dello scorso 14 gennaio, che riporta come gli ebrei iraniani ancora presenti nel paese non si sentano eccessivamente minacciati dal governo e non condividano le paure israeliane rispetto al nucleare iraniano.

D’altro canto, non si può certo pensare che Israele rinunci a una grande libertà d’azione: il recente “omicidio mirato” dello scienziato nucleare iraniano Masoud Alimohammadi di fronte alla propria casa è con buona probabilità opera del Mossad, con o senza sostegno dell’intelligence americana. D’altronde gli omicidi mirati – Palestinesi docent – sono una prassi molto praticata.

C’è poi una considerazione più generale: se Israele avesse davvero voluto intervenire in Iran, l’avrebbe fatto senza attendere il corso di negoziati che Gerusalemme prevedeva fallimentari fin dall’inizio. Per un’opzione militare, il tempo gioca infatti a sfavore dell’effetto-sorpresa.

In Israele si attende perciò ansiosamente la pubblicazione del nuovo rapporto dell’intelligence americana (la National Intelligence Estimate, NIE) sull’Iran, nelle prossime settimane: la speranza è che  presenti dati più negativi di quelli contenuti nell’ultima edizione del 2007, certificando questa volta la ripresa del processo di arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran. E che confermi magari la proliferazione di siti nascosti, come  quello recentemente fotografato nei dintorni di Qom. Valutazioni del genere potrebbero costituire la base necessaria per nuove sanzioni, favorendo un più largo consenso in sede di Consiglio di Sicurezza ONU. Israele potrebbe così ottenere quello che ha sempre auspicato: la condanna internazionale più forte possibile del programma nucleare iraniano, che non lo esponga da solo in prima linea.

Resta il fatto che, ad oggi, la situazione complessiva appare più sfavorevole a un eventuale raid militare e più confusa di quanto non lo fosse appena pochi mesi fa. Oggi il governo Nethanyau, che non è ancora riuscito a riportare a casa il Caporale Shalit (prigioniero di Hamas), si ritrova con un partner palestinese come l’ANP che non punta più esclusivamente sulla ripresa di negoziati, mentre l’Unione Europea è così critica da essere pronta quasi  ad appoggiare una risoluzione unilaterale palestinese. Intanto, gli Stati Uniti – distratti dalla tragedia di Haiti – devono confrontarsi con il potere di veto esercitato in sede ONU da Russia e Cina, che vanno convinte e allettate da una ragionevole contropartita prima che si possa tornare a parlare di nuove sanzioni.

In ultima analisi, sta diventando sempre più chiaro che la minaccia iraniana, per quanto in un certo senso globale, è avvertita con gradi diversi da Gerusalemme e Washington, e il complesso di accerchiamento di cui soffre Israele è solo in parte condiviso dagli Stati Uniti. Questa è la realtà con cui fare i conti.