2008-2018: il voto di metà mandato e l’eredità di Obama
Il 4 novembre del 2018 ricorrevano i dieci anni della storica elezione di Barack Obama a Presidente degli Stati Uniti. La madre di tutti i midterm ha forse offuscato l’importanza del decennale: la posta in gioco e la figura di Donald Trump hanno consumato l’attenzione disponibile. Ben prima del 4 novembre non sono mancate le riflessioni analitiche, delle quali vogliamo ricordare una italiana e una americana: il volume “Era Obama” di Mario Del Pero (Feltrinelli, 2017) e “The Presidency of Barack Obama” (Princeton University Press, 2018) a cura di Julian Zelizer.
In realtà, al di là della contingenza, gli ex-presidenti sono spesso convitati di pietra della politica americana. Ingombranti ma senza poteri, si impegnano per cause umanitarie (Jimmy Carter); si eclissano a conclusione di mandati impopolari (George W. Bush); oppure vivono in un cono di luce e ombra, a cavallo fra attività di lobbying, politica attiva e partecipazione a conferenze assai ben pagate (Bill Clinton). Tutti costruiscono memoria di sé e della cosa più importante che hanno (già) fatto nella loro vita, attraverso l’istituzione di grandi fondi bibliotecari. “Non c’è nulla di più triste di un ex presidente!”, afferma con sarcasmo un politico della Washington del 1839 nel film “Amistad”, di Steven Spielberg, riferendosi a John Quincy Adams.
Cosa si può dire di Barack Obama? E’ un presidente che ha concluso il suo mandato in giovane età, a 55 anni, dopo aver generato una storica ondata di speranza di cambiamento nella politica del suo Paese e in quella internazionale (ottenendo addirittura un Premio Nobel per la pace di tipo “preventivo” nel 2009, all’inizio del suo primo mandato). Un Presidente entrato in carica con un livello di aspettative gigantesco, a seguito di una doppia crisi epocale del sistema americano: la crisi finanziaria del 2007 e il fallimento di due azioni militari, quella in Iraq e quella in Afghanistan.
Per di più, su di lui sono confluite aspettative anche per il dopo-presidenza, soprattutto a causa del vuoto di leadership lasciato dalla sconfitta di Hillary Clinton. Sebbene nel tempo le critiche e le disillusioni sulla Presidenza Obama siano aumentate – il j’accuse dell’intellettuale afroamericano Cornel West è il tipico esempio di critica “da sinistra” – e la delegittimazione “da destra” si sia fatta sempre più radicale, molti Democratici sperano che Obama possa svolgere una funzione di accompagnamento all’appuntamento del 2020.
A prescindere dalla valutazione sui provvedimenti della Presidenza Obama, è importante valutarne l’impatto nell’attuale fase politica. Possiamo elencare tre piste di ragionamento, anche riviste alla luce dell’esito elettorale delle elezioni di metà mandato:
1) Barack Obama ha anticipato tutti i grandi temi al centro del dibattito politico di oggi;
2) ha reso evidenti le fratture di conflitto della società americana, tenute sotto traccia – a fatica e in modo artificiale – negli anni Novanta e Duemila;
3) ha però mancato l’appuntamento con la riorganizzazione del Partito Democratico, pur avendo contribuito all’innovazione delle pratiche di conduzione della campagne elettorali (“dall’alto” come dal “basso”).
Sul primo punto, il tema della campagna elettorale del 2018 è stato il rafforzamento e il rilancio della riforma sanitaria. Obama aveva perso il midterm del 2010 su questo tema, ha “vinto” quelle del 2018 su questo. Lo stesso vale per il New Green Deal, ora al centro del confronto politico tra i left dem alla Alexandria Ocasio-Cortez e Nancy Pelosi; la questione della parità di genere, sulla quale i movimenti delle donne si confrontano col l’Amministrazione Trump, questa ultima in forte rottura con gli otto anni precedenti (Barack Obama aveva firmato il Lilly Ledbetter Fair Pay Act appena 9 giorni dopo il suo insediamento). I fronti di policy aperti da Barack Obama rimangono al centro del dibattito politico. Non è poco, soprattutto considerando che in un caso (la Riforma sanitaria) Trump non ha avuto la meglio nel tentativo di smantellarne il dispositivo legislativo, finendo per rafforzare chi sostiene una riforma ancora più ampia.
Sulla seconda pista di ragionamento: con l’elezione di Barack Obama si è aperto il vaso di Pandora di cosa sia la società americana e dove essa stia andando; si sono acuiti conflitti, si sono rinnovate richieste di rappresentanza, si sono alzati muri in difesa di rendite di posizione… Volente o nolente, l’ex-Presidente ha reso palese il futuro dell’America: più urbano, legato a nuove linee di sviluppo economico e industriale, assai meno bianco e maschile. Nonostante diversi tentativi da parte sua di disinnescare lo scontro – soprattutto nel primo mandato – il backlash à la Trump era inevitabile. L’eredità di Obama (che gli piaccia o meno) è l’innesco di un conflitto che sarebbe potuto giungere un decennio più tardi: la crisi del 2007 ha reso possibile precorrere i tempi.
Ben Rhodes, stretto collaboratore di Obama, nel volume di memorie “The World As It Is” ha ricordato quando lo stesso Obama si interrogò sulla capacità del Paese di elaborare la portata simbolica della sua elezione, chiedendosi se “non fossi arrivato con 10 o 20 anni di anticipo”. L’elezione di un afroamericano è risultata intollerabile per una parte consistente del Paese, e ha fatto riaffiorare uno specifico – rimosso e mal occultato – della storia americana. La controreazione bianca ha generato un ulteriore movimento di segno opposto, che abbiamo visto manifestarsi nelle urne del 2018 e nelle strade del Paese. Non era l’intenzione di Obama, portatore di una proposta dialogante e includente, ma senza la sua vittoria del 2008 oggi racconteremmo un’altra storia. Il significato della sua elezione travalica la sua volontà e attitudine politica.
Terzo punto, il Partito Democratico. I partiti americani, in assenza della leadership politica di un Presidente in carica, si affidano a un gruppo di maggiorenti (per lo più con incarichi parlamentari, oltre al manager/fund raiser che gestisce il Democratic National Committee) e lasciano che la dinamica delle primarie faccia il suo corso nei collegi elettorali. In molti si aspettavano che Obama, una volta salito alla Casa Bianca, divenisse un nuovo collante interno, un ispiratore di nuove leadership, un inventore di nuove metodologie di organizzazione dal basso. Questo era l’obiettivo di Organizing for America, la struttura che doveva farsi carico di trasformare la macchina elettorale del 2008 in un movimento a sostegno delle riforme presidenziali. Si è trattato di un mezzo naufragio, una gara vinta con distacco dal Tea Party quando si è trattato di mobilitare la società sulla Riforma sanitaria. Le speranze di avere un “Organizer-in-Chief” sono svanite provocando ulteriori critiche, che sembrano però dimenticare il peso della Realpolitik: la “macchina Obama”, partita già un po’ ingolfata, era pronta a cedere il testimone alla “macchina Clinton” fin da subito, dalla Convention democratica di Denver del 2008. Oggi, invece, la partita è in mano a nuove e vecchie leve del Partito Democratico che non faranno perno su nessuna di queste due macchine.
Un ultimo appunto sull’eredità obamiana. Se è vero che tutto si è fatto più radicale di quanto Obama auspicasse – il conflitto sui temi, lo scontro fra elettorati, la retorica pubblica – è altrettanto vero che il futuro del Partito Democratico passa dalla pratica obamiana della ricerca di un punto di incontro, di un interesse collettivo fra le diverse identità che animano quel partito.
In un recente convegno romano sulle elezioni di midterm, Ida Dominijanni ha ricordato il concetto di “intersezionalità”, divenuto popolare alla fine degli anni ’80 nel dibattito femminista americano grazie a Kimberlé Williams Crenshaw. In rozza sintesi, si tratta della capacità di connettere identità diverse, trovando punti di interconnessione biografica, di vita, di condizione sociale, fino a giungere a una sintesi (un interesse comune che giustifichi l’adesione a una comune visione politica) che lasci alle spalle le diversità di partenza. La scommessa per la crescita e la sopravvivenza del Partito Democratico è tutta qui: una scommessa che Obama aveva lanciato già nel 2008, a partire dalla sua stessa biografia.