Quando sono arrivato a Venezia come direttore della Biennale Architettura, l’acqua non era mai lontana dai miei pensieri. Non come sfondo pittoresco ma come forza viva che da sempre modella l’identità di questa città unica al mondo. Potremmo dire che passato, presente e futuro di Venezia sono segnati dal respiro delle maree.
Il mare fu la base dell’hard power della Serenissima: fonte di ricchezza, protezione e influenza globale. Al centro di questo potere c’era l’Arsenale, uno dei più grandi e avanzati cantieri navali preindustriali, da cui una salpavano flotte verso avamposti lontani, da Ragusa a Monemvasia.
Quell’impero è scomparso, ma il legame con l’acqua resta. Oggi, come facciamo vedere alla Biennale Architettura, Venezia ha la possibilità di riposizionarsi non più come capitale di conquista, ma come prototipo di soft power: un luogo in cui si sperimentano soluzioni globali per l’innovazione urbana e l’adattamento ai cambiamenti climatici.
EDIFICATA “CON” LA LAGUNA. Nel suo The Stones of Venice, John Ruskin descrive ripetutamente la città in termini di miracolo e meraviglia. L’immagine che Marcel Proust offre di Venezia (in Alla ricerca del tempo perduto) è onirica: “Quando andai a Venezia scoprii che il mio sogno era diventato – incredibilmente, ma in modo del tutto naturale – il mio indirizzo!” Mentre Henry James, in Italian Hours, del 1909, descrive la bellezza miracolosa di Venezia come “una gemma arancione poggiata su un piatto di vetro blu”.
Eppure, più che di miracolo e di sogno, sarebbe più corretto parlare di un prodigio di architettura e ingegneria. La città fu letteralmente strappata al mare – costruita sopra pali di legno conficcati in profondità nel terreno paludoso. Si potrebbe dire che Venezia non fu semplicemente edificata sull’acqua, ma con l’acqua, con la laguna come collaboratrice attiva. Nei secoli, i veneziani hanno mantenuto un delicato equilibrio tra terra e mare, dragando canali, deviando fiumi e governando i flussi di sedimentazione. Il mare non era un confine, ma un sistema operativo: il Mediterraneo divenne una rete di micro-Venezia, colonie e scali commerciali collegati da una potente marina commerciale e militare.
All’apice del suo splendore, tra XII e XVI secolo, la Repubblica di Venezia controllava gran parte dei traffici tra Oriente e Occidente. L’Arsenale, la più grande concentrazione di lavoratori del Medioevo europeo, era in grado di varare una galera completamente equipaggiata in un solo giorno. Ma era molto più di una fabbrica: un crocevia di idee, materiali e persone provenienti da un vasto impero. E anche un precoce ammonimento relativo al costo ambientale della manifattura: intere isole vennero disboscate per alimentare i cantieri navali, trasformandosi in terre brulle ancora oggi[1].
Ma come per tutti gli imperi, anche per Venezia arrivò il tramonto. Napoleone pose fine alla Serenissima, e la città, un tempo fulcro di potere, entrò in una lunga fase di declino. Nel Novecento lo Stato italiano tentò in vari modi di farla rinascere, per esempio con il porto industriale di Marghera. Ma Venezia rimase una fragile e affascinante periferia, congelata nel tempo, in cui il rapporto con l’acqua non era ormai più nient’altro che un problema da risolvere con la tecnologia.
UN’ARCHITETTURA PER L’ADATTAMENTO. Nel XXI secolo si potrebbe aprire una nuova pagina: una pagina in cui il mare torna a essere l’elemento dominante. Tuttavia, questa volta potrebbe trattarsi non di hard power bensì di soft power. Come facciamo vedere alla Biennale Architettura, Venezia può servire da banco di prova globale: un laboratorio vivente per l’adattamento climatico e la sperimentazione. A differenza dell’hard power, definito dalla forza militare, il soft power opera con modalità diverse: ispira e plasma valori condivisi.
Le dimensioni di Venezia la rendono ideale per un’operazione di questo genere: è abbastanza grande da avere rilievo internazionale, ma sufficientemente piccola da poter funzionare come banco di prova. L’enorme fragilità odierna ne fa un perfetto “canarino nella miniera” del cambiamento climatico; la città può emergere quale prototipo di come le aree urbane possano imparare a coesistere con l’acqua in un’epoca segnata dal cambiamento climatico. Se può sopravvivere Venezia, ce la può fare l’intero pianeta.
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D’altronde, l’architettura è sempre stata una risposta al clima. Dalla capanna primitiva idealizzata nel Settecento da Marc-Antoine Laugier, la progettazione è sempre stata segnata dalla necessità di riparo. L’ambiente costruito ci permette di mediare tra le pressioni ambientali e il comfort richiesto dalle nostre vite.
Oggi, questa dinamica è messa a dura prova. Negli ultimi due anni, il cambiamento climatico ha accelerato in maniera imprevista, superando anche i modelli scientifici più avanzati. Il 2024 ha segnato traguardi inquietanti: la Terra ha toccato le temperature più alte mai registrate, spingendo le medie globali oltre l’obiettivo di 1,5 °C fissato dall’accordo sul clima di Parigi.
Nelle alluvioni di Valencia e Sherpur, nelle siccità in Sicilia, e nell’innalzamento del livello delle acque che ha colpito molte isole abitate, abbiamo visto gli elementi, e in particolare l’acqua, comportarsi in maniera inedita. Quando i sistemi di conoscenza che ci hanno guidato per lungo tempo iniziano a vacillare, servono nuove forme di pensiero.
Per decenni, la risposta dell’architettura alla crisi climatica si è concentrata sulla mitigazione: ridurre le emissioni e l’impatto sul pianeta. Ma questo non basta più. L’architettura deve ora focalizzarsi anche sull’adattamento: ripensare il ruolo del progetto in un mondo mutato e in trasformazione.
La Biennale Architettura di quest’anno – intitolata Intelligens. Natural. Artificial. Collective. – invita diverse forme di intelligenza a unirsi per ripensare l’ambiente costruito. La parte finale della prima parola del titolo, gens – in latino “popolo” – vuole indicare la collettività dell’impegno. Ci sfida a muoverci verso un panorama ricco di molteplici intelligenze, umane e non umane, capaci di lavorare all’unisono.
Ma Intelligens non è solo un tema per la Biennale Architettura, è l’idea di un laboratorio. Per la prima volta, la mostra riunisce oltre 300 contributi provenienti da più di 750 partecipanti: architetti e ingegneri, matematici e climatologi, filosofi e artisti, cuochi e programmatori, scrittori e intagliatori, agricoltori e stilisti. L’idea è che Venezia, uno degli ecosistemi urbani più minacciati al mondo, possa fungere da laboratorio per esperimenti, con installazioni e prototipi disseminati tra Giardini, Arsenale e vari quartieri.
Molti dei progetti di quest’anno interagiscono direttamente con l’acqua, offrendo nuovi modi per viverla e imparare da essa. “Gateways to Venice’s Waterways”, sviluppato dalla Norman Foster Foundation in collaborazione con Michael Mauer (chief designer Porsche) e un ampio team di ingegneri, reimmagina l’accesso alla mobilità acquatica in laguna. Si tratta di una struttura biomorfica ispirata all’adattabilità delle forme naturali. “Canal Café”, di DS+R in collaborazione con ingegneri, cuochi e scienziati, purifica l’acqua della laguna in modo sostenibile: il risultato viene utilizzato per preparare il caffè – trasformando un rituale quotidiano in un momento di consapevolezza ambientale. “AquaPraça”, del nostro studio CRA e di Höweler+Yoon, in collaborazione con il ministero degli Affari esteri e il ministero dell’Ambiente, trae ispirazione da un progetto della Biennale del 1979: il “Teatro del Mondo” di Aldo Rossi[2]. Ma invece di riflettere sulla memoria, come fece a suo tempo Rossi, si proietta in avanti: una piazza galleggiante che fa del mare un’arena civica. Dopo Venezia, AquaPraça viaggerà in Brasile, dove diventerà uno dei principali forum della conferenza delle Nazioni Unite sul clima COP30 a Belém.
Perfino il MOSE, il sistema di barriere mobili che si sollevano dal fondale per proteggere Venezia durante le alte maree, è presente in molti progetti della Biennale. Un tempo oggetto di controversie, oggi quest’opera di alta ingegneria, inizialmente immaginata nei corridoi del MIT di Boston nella seconda metà del Novecento, è largamente accettata ed è persino considerata un modello di adattamento climatico nel mondo.
UN LABORATORIO PER IL FUTURO. Eppure, il MOSE non è una soluzione permanente. Con l’innalzamento del livello dei mari, le sue barriere dovranno essere attivate sempre più spesso, potenzialmente isolando la laguna dal mare aperto per periodi prolungati[3]. Se ciò può ridurre l’acqua alta e le inondazioni, al tempo stesso rischia di causare una stagnazione della laguna e un disastro ecologico.
Ciò che fu costruito come scudo potrebbe, nel tempo, diventare una barriera asfissiante. Per questo motivo, il celebre idrologo veneziano Andrea Rinaldo sta lanciando un ambizioso concorso di progettazione internazionale – su scala simile a quella dell’iniziativa francese del Grand Paris – per ripensare il futuro di Venezia e della sua regione.
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Infatti, nonostante la sua fragilità, Venezia può continuare a essere una ricca fonte di idee, con il suo antico hard power trasformato in una duratura fonte di soft power. La laguna può diventare uno dei principali laboratori di adattamento al clima – salvando sé stessa e ispirando altre aree urbane del pianeta che affrontano sfide simili.
In questa prospettiva, alcune variabili cambiano, ma rimangono molte costanti. Innanzitutto, il mare: un tempo crocevia dell’impero e dei suoi scambi commerciali, oggi piattaforma di innovazione e adattamento al clima. E poi l’Arsenale: un tempo potente complesso industriale-militare, oggi cuore pulsante della Biennale.
Gli ingredienti di base, quindi, sono gli stessi, ma usati in modo nuovo: dal dominio all’immaginazione, dall’hard power al soft power.
Note:
[1] Frederic C. Lane, Venice: a maritime republic, Johns Hopkins University Press, 1973.
[2] Camilla Ghisleni, “Between fantasy and reality: Aldo Rossi’s floating Teatro del Mondo for the first Venice Architecture Biennale,” ArchDaily, 3 luglio 2025.
[3] World meteorological organization, Balancing Act: Assessing Venice’s Flood Defence, 12 aprile 2024.
Questo articolo è pubblicato sul numero 3-2025 di Aspenia.