Un messaggio da Samarcanda – per le autocrazie e le democrazie

 Il vertice di Samarcanda (la storica città che oggi si trova in Uzbekistan), che ha riunito la Shanghai Cooperation Organisation (SCO) il 15-16 settembre, si può definire come l’ennesimo autogol inferto al suo Paese da Vladimir Putin. Vale la pena ricordare che la SCO – i cui membri sono Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan – è stata da alcuni perfino indicata come un vero contraltare della NATO e una dinamica coalizione in grado di ampliarsi ulteriormente.

Xi Jinping e Vladimir Putin alla firma degli Accordi di Shanghai (2014)

 

L’incontro – allargato con gli inviti anche a India, Pakistan e Turchia – ha evidenziato soprattutto le enormi difficoltà in cui si trova Mosca dinanzi al parziale fallimento dei propri obiettivi militari in Ucraina e ai costi economici e diplomatici che sta pagando. Ma si possono fare alcune considerazioni più ampie, legate a linee di tendenza strutturali che sono state finora mascherate o confuse dalla prima fase dell’invasione russa dell’Ucraina. Il momento della verità è arrivato, non solo per la Russia.

Prima considerazione: non esiste alcun “asse” delle autocrazie degno di questo nome. La Cina ha seccamente respinto ogni ipotesi di sostegno attivo allo sforzo bellico russo in Ucraina, chiedendo espressamente la fine delle ostilità – proprio a Samarcanda, costringendo Putin a commentare il fallimento militare del suo esercito – e richiamando l’obiettivo generale della “stabilità” internazionale. Le recenti esercitazioni militari congiunte e l’acquisto cinese di gas (a prezzi scontati) da Mosca non cambiano certo la situazione sul terreno nel Donbass.

 

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Il prestigio russo non è stato ovviamente rafforzato dalla circostanza che nelle ultime settimane ci sono segnali crescenti di ripresa di alcuni dei “conflitti congelati” in vari territori ex sovietici. Guardando anche oltre il contesto della SCO, gli altri presunti membri di un raggruppamento filorusso sono perfino una fonte di imbarazzo, oltre che comprimari con scarsissima influenza – come dimostrano le richieste che Mosca ha fatto di droni, armi e truppe a Iran, Corea del Nord, e Siria. In breve, l’indebolimento della Federazione Russa è sotto gli occhi di tutti.

Secondo punto: non esiste, a maggior ragione, alcuna capacità di attrazione da parte della Russia nei confronti di un grande “swing power” come l’India, che ha anch’essa chiaramente espresso una posizione contraria al conflitto in corso, nell’occasione dell’evento uzbeko. Si può qui notare che il tentativo russo di allargare il “fronte” antioccidentale è risultato controproducente, offrendo al Premier Narendra Modi un palco da cui strigliare Mosca e comunque smentire ogni presunto allineamento.

Nel complesso, rispetto alla Federazione Russa la situazione appare chiara: tutti (dagli USA alla UE, fino appunto a Cina e India) stanno imparando a gestire un Paese in declino accelerato, con una leadership pericolosa perché imprevedibile e disperata. L’aspetto semmai più rilevante per il futuro degli assetti globali è l’atteggiamento della Cina, che ora sembra meno “revisionista” di quanto temuto e forse più incline a ricercare compromessi con gli Stati Uniti e i loro alleati.

Il rapporto tra Pechino e Mosca è ormai marcatamente asimmetrico, con Xi Jinping a fare da senior partner, ma intanto la Repubblica Popolare si è avviata ad una fase di relativa chiusura verso l’esterno, consapevole delle sue molte fragilità e incapace – almeno ad oggi – di trovare soluzioni diverse dall’ulteriore accentramento autoritario (un leader unico del Partito unico).

 

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E’ una combinazione nuova con cui dovremo fare i conti, ed esiste certo il rischio che lo stesso Xi perda il controllo delle spinte nazionalistiche che ha aizzato per anni; per ora, comunque, la spinta globale cinese si è affievolita, e puntare su alleati come la Russia non aiuterà Pechino a superare i colli di bottiglia del suo modello si sviluppo.

Un terzo messaggio interessante sembra emergere da Samarcanda, seppure in modo involontario: la vera preoccupazione di Pechino e Mosca (in questo, sì, accomunate negativamente) è la capacità americana di attivare e tenere assieme vaste coalizioni in grado di accerchiare l’avversario e quasi bloccare le sue ambizioni. Il punto è decisivo e spesso sottovalutato in Europa, dove si guarda quasi soltanto alla tenuta incerta del fronte transatlantico.

In effetti, visto da Cina e Russia il fronte è al contempo più largo e più opprimente. Proprio mentre la SCO dichiara di volersi opporre al cosiddetto “unilateralismo” americano, il problema posto da Biden è, al contrario, la rinuncia alla “transactional diplomacy” autistica con cui Donald Trump ha sprecato quattro anni di politica estera, per tornare a sfruttare le coalizioni a guida USA – non solo la NATO, ma anche il “Quad” in Asia e la rete di rapporti nell’intero Indo-Pacifico. Non è peraltro necessario che una coalizione sia a tenuta stagna per esercitare pressione su Pechino e Mosca: basti pensare alla Turchia, che continua a oscillare furiosamente tra un vertice e l’altro, con proposte di “mediazione” che per lo più nessuno prende sul serio, e intanto rimane un membro della NATO.

Non è certo una situazione ideale per Stati Uniti ed Europa, ma non sembra neppure che qualcuno abbia saputo manipolare Ankara come quinta colonna nel Consiglio Atlantico. Nel frattempo, Svezia e Finlandia hanno posto fine a una storica politica di neutralità. Insomma, chi è dentro le coalizioni occidentali vuole restarci, e chi è fuori ha un problema serio – confermato nella forma più tragica dalla vicenda ucraina. Se ne sono certamente accorti anche a Samarcanda.

 

 

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