Si fa presto a dire nucleare

Questo articolo è pubblicato sul numero 1-2025 di Aspenia

Nel 2010, quando il governo Berlusconi si stava lanciando nella sfortunata e breve avventura di riaprire l’Italia all’energia nucleare, Alberto Clò diede alle stampe un libretto intitolato Si fa presto a dire nucleare. In quell’agile volume, l’economista ed ex ministro dell’Industria ammoniva contro la tentazione di farla facile: proprio le caratteristiche che avevano determinato il boom del nucleare negli anni Settanta e Ottanta ne decretavano la non fattibilità pochi decenni dopo: “Il combinato disposto di liberalizzazioni e privatizzazioni ha ridotto l’appetibilità economica dell’energia nucleare: avendo la prima aumentato i rischi degli investimenti e la seconda l’avversione al rischio delle imprese (e il loro costo del denaro)”. In pratica, gli imperativi di un mercato concorrenziale militavano contro una fonte caratterizzata da alti costi fissi e ritorni incerti e lontani nel tempo.

 

L’ATOMO E L’AMBIENTE. Adesso le cose potrebbero cambiare nuovamente: il nucleare ha trovato un nuovo grande alleato, cioè la necessità di abbattere le emissioni di CO2, ma ha anche un nuovo nemico, almeno in Europa, vale a dire il modo in cui l’Unione sta disegnando la sua politica climatica. L’atomo ha alcune caratteristiche che lo rendono, se non insostituibile, quanto meno estremamente prezioso nella lotta contro il cambiamento climatico. Infatti, è in grado di erogare energia in modo continuativo, in piena sicurezza e con costi stabili nel tempo. Esso consente quindi di soddisfare quella quota della domanda elettrica che varia poco nel corso dell’anno (il cosiddetto carico di base) e rappresenta uno strumento implicito per la stabilizzazione dei prezzi, compensando in tal modo le oscillazioni determinate da fonti quali il gas (i cui prezzi sono volatili) e le rinnovabili (la cui produzione non è programmabile).

Inoltre, la necessità per gli impianti convenzionali di corrispondere un costo sempre crescente per le quote di CO2 avvantaggia le tecnologie low carbon. Infine, l’elettrificazione dei consumi – considerata uno degli assi fondamentali delle politiche di decarbonizzazione – comporta inevitabilmente un aumento della richiesta di energia elettrica, attribuendo così ulteriore importanza alla disponibilità di fonti affidabili. Insomma: se nel passato la liberalizzazione ha favorito i cicli combinati a gas, la volontà di ridurre le emissioni cambia i connotati della concorrenza e introduce nuove variabili nel calcolo economico.

 

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Il nucleare non compete più col gas, il carbone o le fonti rinnovabili, che hanno mediamente costi attualizzati di generazione inferiori. Si confronta, da un lato, con i combustibili fossili, a cui sarà necessario associare tecnologie per la cattura e lo stoccaggio della CO2 (al fine di neutralizzarne l’impatto climatico), dall’altro con le rinnovabili a cui si dovranno affiancare batterie o altri sistemi di accumulo (per stabilizzarne il profilo produttivo). È una partita in gran parte aperta e forse neppure iniziata. E non è detto che la vincerà solo uno: anzi, è quasi certo che ne usciremo con un portafoglio di opzioni, tra le quali il nucleare potrebbe occupare una posizione di rilievo. Ne è convinta, per esempio, l’Agenzia internazionale per l’Energia, secondo cui l’inclusione del nucleare nel mix serve a minimizzare i costi complessivi della transizione[1].

 

IL MERCATO: DA OSTACOLO AD ALLEATO. Quindi, quello che per Clò quindici anni fa era il principale ostacolo, cioè il mercato, oggi lo è molto meno. È il mercato stesso, infatti, a premiare le tecnologie in grado di abbattere le emissioni. E sulle credenziali climatiche dell’atomo abbiamo fatto enormi passi avanti: la Commissione europea ha chiesto al Joint Research Center di studiare l’argomento, arrivando alla conclusione che – se ben gestiti e in presenza di un robusto quadro regolatorio per quanto riguarda la sicurezza – l’atomo è del tutto compatibile con le finalità ambientali della politica. Anche sulla scorta di questo rapporto il nucleare è stato introdotto nel regolamento sulla Tassonomia, riconoscendo nella sostanza che – ai fini climatici – esso ha i medesimi benefici delle fonti rinnovabili e degli impianti convenzionali decarbonizzati (per esempio sostituendo il metano con green gas).

Ciò non significa necessariamente che il nucleare abbia davanti una nuova primavera – restano molte le difficoltà e sfide da superare – ma semplicemente che i termini della questione sono parzialmente cambiati rispetto al passato, anche recente. Così come l’avvento dei cosiddetti small modular reactors (SMR) costituisce potenzialmente una ulteriore innovazione: data la loro taglia ridotta, essi implicano una dimensione di investimento decisamente più contenuta (e quindi più gestibile dagli investitori) e tempi di realizzazione assai più brevi (l’Agenzia di Parigi dice che il tempo di ritorno si accorcerebbe di almeno un decennio). Non solo: la serializzazione potrebbe rendere i costi più certi e prevedibili, evitando quelle brutte sorprese in situ che si sono verificate a Flamanville in Francia e Olkiluoto in Finlandia e che stanno dando molti grattacapi a Hinkley Point nel Regno Unito.

Va anche detto che i sempre più stringenti requisiti regolatori spiegano in parte l’escalation dei costi e pongono una domanda relativa a quale sia il livello “ottimo” (o accettabile) di rischio e di conseguente regolamentazione. Tutte questioni che, se si fa sul serio sulla decarbonizzazione, l’Unione Europea dovrà prima o poi affrontare. Non a caso il problema si sta ponendo in modo macroscopico negli Stati Uniti, dove gli energivori data center stanno alimentando un nuovo ciclo di investimenti nel nucleare (da vedere con quali esiti) e dove voci sempre più forti si stanno alzando per chiedere semplificazioni e moderazione regolatoria.

 

LE VERE DIFFICOLTÀ IN EUROPA. Ma il principale ostacolo per il nucleare, quanto meno in Europa, è un altro e si trova al crocevia tra politica di concorrenza, politica ambientale e politica industriale. Dalla prima deriva il disegno dei mercati elettrici, che si fonda appunto sulla competizione tra soggetti privati, i quali si fanno (teoricamente) carico del rischio di investimento e sono dunque responsabili degli utili e delle perdite prodotte dai loro impianti. A causa degli alti costi fissi, il nucleare è una tecnologia che fatica a trovare il suo spazio sul mercato, ma ha un’opportunità data dalla necessità di rimpiazzare i combustibili fossili.

La politica ambientale ruota attorno all’abbattimento delle emissioni e trova il suo perno nel sistema Emissions Trading System (ETS), in base al quale chiunque produca CO2 deve compensarla acquistando diritti di emissione: questo rende le fonti low carbon (incluso il nucleare) relativamente più competitive rispetto a quelle che invece rilasciano anidride carbonica nell’atmosfera. La politica ambientale europea, negli anni, ha preso sempre più la strada della politica industriale, cioè della tentazione di non limitarsi ad assegnare al mercato un obiettivo climatico, ma di stabilire anche il modo in cui tale obiettivo deve essere raggiunto.

Così, all’obiettivo di riduzione delle emissioni si è affiancato – fino a prendere il sopravvento – un secondo obiettivo relativo alla quota di consumi finali da coprire obbligatoriamente tramite le fonti rinnovabili. Tale obiettivo non riguarda semplicemente l’incentivazione delle fonti rinnovabili, in particolare (ma non solo) per la generazione elettrica. Esso fissa un target quantitativo che gli Stati membri devono raggiungere, a costo di sostenere sanzioni di vario tipo: l’asticella era stata inizialmente stabilita al 20% dei consumi finali entro il 2020. Una volta raggiunto (e superato) tale livello, l’obiettivo successivo è stato più volte rivisto e attualmente è pari al 42,5% entro il 2030. Un ulteriore target si riferisce all’efficienza energetica e prevede una riduzione dei consumi dell’11,7% al di sotto dello scenario di riferimento, sempre entro il 2030 (il precedente obiettivo di miglioramento dell’efficienza energetica di almeno il 20% entro il 2020 era stato a sua volta raggiunto).

Per comprendere le implicazioni di questi target settoriali – e in particolare, ai nostri fini, di quello sulle energie rinnovabili – può essere utile approfondirne la dinamica pre-covid. Inizialmente, l’obiettivo pareva difficilmente raggiungibile, se non proprio impossibile. Al contrario, l’obiettivo è stato superato: la quota di fabbisogno energetico soddisfatto dalle energie rinnovabili nel 2020 è pari al 22,1%. In parte questo risultato è il frutto del calo di domanda registrato proprio in quell’anno a causa della pandemia (come conferma il leggero calo registrato anche l’anno successivo), ma sarebbe scorretto considerare determinante questo fattore. Infatti, negli anni successivi la quota delle fonti verdi ha ripreso a crescere.

Piuttosto, vi sono due elementi determinanti: in primo luogo, la crisi economica del 2008-2009 (la cosiddetta Grande Recessione) aveva determinato una riduzione strutturale dei consumi, in particolare per usi industriali. Poiché le fonti rinnovabili hanno la priorità di dispacciamento sulla rete e, in ogni caso, sono caratterizzate da costi marginali bassi o nulli, la contrazione della domanda si è scaricata prevalentemente sugli impianti alimentati da fonti fossili, mandandoli fuori mercato. Ciò ha anche causato un forte ciclo di disinvestimento: per esempio, in Italia tra il 2013 e il 2017 sono stati dismessi circa 13 GW di capacità termica (un processo che è ulteriormente proseguito negli anni successivi, seppure in modo meno drammatico).

L’altro driver della crescita delle fonti rinnovabili è stato, ovviamente, la rapida e per molti versi imprevista (almeno in queste dimensioni) riduzione dei costi medi di generazione elettrica. Proprio per questo, l’incremento della quota delle rinnovabili è stato particolarmente significativo nel settore elettrico, nel quale sono arrivate a quota 37,5% (contro il 23,1% nel riscaldamento e raffrescamento degli edifici e 10,2% nei trasporti).

Per le medesime ragioni, è probabile che, nei prossimi anni, gli sforzi per raggiungere il target sulle fonti rinnovabili continueranno a concentrarsi sul settore elettrico. Per esempio, il Piano nazionale integrato energia e clima per l’Italia prevede un target di copertura delle fonti di energia rinnovabile nel settore elettrico compreso tra il 60 e il 70% da qui al 2030.

Inevitabilmente, l’esistenza di un vincolo sulle fonti rinnovabili riduce la fattibilità di investimenti nell’energia nucleare. Infatti, se – tendenzialmente – una quota ampiamente maggioritaria del fabbisogno dovrà essere coperta dalle rinnovabili, per costrutto normativo, e se queste hanno di fatto o di diritto priorità nel dispacciamento, ne segue che la restante parte della richiesta dovrà essere coperta da tecnologie dotate di sufficiente flessibilità. Questo esclude il nucleare, o comunque ne riduce l’attrattività.

 

SUPERARE LE BARRIERE REGOLATORIE. Ne segue, dunque, che oltre alla sfida economica – dimostrare di essere in grado di operare con costi medi compatibili con la curva dei prezzi attesi – il nucleare dovrà in qualche modo superare anche una barriera regolatoria. Oggi, nella sostanza, questa appare pressoché insuperabile, a meno che le norme non siano riviste. Per farlo non è necessario mettere mano ai target climatici: sarebbe sufficiente, sulla scorta del regolamento sulla Tassonomia, modificare l’obiettivo sulle rinnovabili equiparando queste fonti a tutte le tecnologie in grado di garantire un analogo livello emissivo, cioè zero emissioni nella fase di esercizio oppure emissioni al di sotto di un certo livello se calcolate a ciclo vita (per esempio 100 grammi CO2/kWh, cioè la soglia utilizzata per qualificare come sostenibili gli impianti alimentati per la generazione elettrica a gas).

 

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Sarà questa la grande decisione che potrebbe rivoluzionare l’aspetto della politica climatica europea. Per la prima volta, un documento del Partito popolare europeo ha riconosciuto l’esigenza quanto meno di affrontare la faccenda[2]. Ciò anche sulla scorta delle evidenze che le fonti rinnovabili, a causa della loro intermittenza, pur avendo costi medi di generazione calanti, impongono al sistema costi crescenti in proporzione al loro livello di penetrazione, col probabile effetto di contribuire all’incremento dei prezzi finali di vendita dell’energia elettrica. E dunque far coincidere l’obiettivo sulla decarbonizzazione con quello sulle rinnovabili rischia di pregiudicare il raggiungimento del target ambientale e, con esso, la competitività delle imprese europee, specie di quelle energivore.

Il nucleare può essere parte della soluzione alla crisi climatica – anche se non è scontato che lo sarà, a causa delle forti incertezze sui suoi costi e sull’accettabilità sociale. Solo le scelte concrete degli operatori di mercato potranno dare un’indicazione in tal senso. Ma senza una modifica delle regole europee, questa verifica “dal basso” non potrà mai essere effettuata.

 

 


Note:

[1] International Energy Agency, The Path to a New Era for Nuclear Energy, 2025.

[2] “Europe needs more growth and jobs – Enhancing competitiveness by cutting back bureaucracy and over-regulation”, gennaio 2025.

 

 


Questo articolo è pubblicato sul numero 1-2025 di Aspenia

 

 

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