*Questo articolo è il primo contributo di una serie, parte di un progetto di ricerca e analisi su nuove tecnologie e sicurezza economica europea che Aspen sviluppa assieme al Politecnico di Torino, allo Studio Bonelli Eredi e alla LUISS. Il progetto è supportato dalla Compagnia di San Paolo.
Il contesto dell’arretramento europeo
Poco dopo aver vinto il Premio Nobel 2025 per l’Economia per i suoi studi sul processo di innovazione (assieme a Peter Howitt), Philippe Aghion[1] ha avvertito che l’Europa sta perdendo la corsa tecnologica nei confronti degli Stati Uniti e della Cina. L’economista ha spiegato che, a partire dagli anni ’90, l’Unione Europea si è mostrata capace di innovare in modo adeguato, se paragonata ai due principali attori globali. Si tratta solo dell’ultimo capitolo, in quella che è divenuta ormai una serie interminabile di richiami e diagnosi sul ritardo tecnologico europeo in questo inizio di XXI secolo.
D’altra parte, le preoccupazioni sulla posizione globale dell’Europa riflettono ansie già avanzate decenni addietro. In riferimento alla competizione con gli Stati Uniti e col Giappone sulla tecnologia, si potrebbe far riferimento ai dibattiti suscitati da opere come La sfida americana (Le défi américain) del giornalista francese Jean-Jacques Servan-Schreiber (1967) e Europa: una colonia tecnologica? (Die japanisch-amerikanische Herausforderung) del diplomatico tedesco Konrad Seitz (1990)[2].
Nel 2011, già si paventava il rischio di un “G2 per la scienza”[3], un sistema della conoscenza destinato a essere dominato da Stati Uniti e Cina. La previsione di quegli anni si basava sulla constatazione che la connessione tra i due paesi era forte, crescente e reciprocamente vantaggiosa. Il modello scientifico statunitense era molto aperto e continuava ad attrarre talenti, in particolare dall’Asia. Nel frattempo, la Cina stava sviluppando rapidamente le proprie capacità scientifiche e tecnologiche, mentre l’Unione Europea era percepita ai margini del processo di globalizzazione della scienza.
Oggi, questa tendenza alla marginalizzazione è particolarmente evidente nella corsa all’intelligenza artificiale, in un panorama dove alla collaborazione, tuttora essenziale per l’impresa scientifica, si affiancano sempre più dinamiche competitive. Gli Stati Uniti hanno guidato il boom dell’intelligenza artificiale con scoperte chiave grazie ai loro laboratori universitari e aziendali, con l’integrazione hardware e software nell’infrastruttura di calcolo e coi grandi modelli linguistici che hanno maggiore presa sui consumatori. La Cina, con istituzioni formative come la Zhejiang University, con aziende come DeepSeek e Alibaba, ma anche con le attività di attori industriali tradizionali come State Grid (società che gestisce la rete elettrica cinese), è l’unico Paese vicino a eguagliare gli Stati Uniti, in uno stretto coordinamento tra pubblico e privato, tra laboratori di frontiera e usi industriali. Anche la situazione dei brevetti dell’intelligenza artificiale generativa evidenzia invece un netto ritardo dell’Europa[4].
Sicurezza economica, vulnerabilità e politiche inefficaci
Il rallentamento e la dipendenza dell’Europa derivano anche da un contesto in cui la geopolitica della tecnologia e la sicurezza economica sono divenute sempre più rilevanti sulla scena internazionale. Le classi dirigenti statunitensi[5] e cinesi hanno avuto piena contezza di questo fenomeno ben prima delle burocrazie europee, formate con un’ideologia meno in grado, per usare un eufemismo, di considerare in modo adeguato i fattori politici in gioco nell’economia contemporanea.
Negli ultimi anni, l’uso delle dipendenze commerciali come armi – con la proliferazione di sanzioni, dazi, controlli su investimenti e sulle esportazioni – hanno accresciuto l’attenzione su questi temi da parte delle varie potenze del pianeta. In primis Stati Uniti e Cina, ma anche India, Giappone e altri attori. Alcune filiere tecnologiche sono al centro di questa competizione, che influenza più in generale la capacità industriale e che riguarda anche le materie prime e il loro trattamento. In termini di mercato, la posizione europea nei principali super-cicli del digitale, dal personal computer ai social media, fino agli smartphone e ai data center, ha evidenziato un progressivo arretramento.
La Commissione Europea ha risposto a queste sfide molteplici con nuovi strumenti, tra cui la proposta di una Strategia di sicurezza economica nel 2023, mirata a promuovere la competitività, proteggere dai rischi e collaborare con un’ampia gamma di Paesi. Un pacchetto di iniziative di inizio 2024 si è focalizzato sul rafforzamento dei controlli sugli investimenti (secondo il quadro già presente e il coordinamento già attivo tra gli Stati membri), sulle esportazioni, sulla possibile istituzione di un meccanismo di controllo degli investimenti in uscita, sull’aumento della capacità di ricerca duale (civile e militare) e sulla protezione della ricerca avanzata. Nel portafoglio del Commissario Maroš Šefčovič è indicata in modo esplicito la sicurezza economica[6], accanto al commercio. Nonostante queste ambizioni, la strategia europea si è per ora concretizzata in un approccio puramente normativo, con strategie e regolamenti che peraltro giungono in ritardo rispetto alle stesse previsioni della Commissione, anche per ragioni politiche. E soprattutto, si sono registrati scarsi risultati sul piano industriale, quello su cui si misura la competizione attuale, anche per via dell’accelerazione delle tensioni commerciali.
Inoltre, l’Unione Europea si distingue attualmente da altri attori occidentali per la ridotta capacità di diversificare rispetto alla dipendenza cinese. Come sottolineato del Peterson Institute e da Rhodium Group[7], mentre gli Stati Uniti hanno ridotto la quota di prodotti cinesi nelle loro importazioni totali (escludendo petrolio e gas) di oltre l’8% tra il 2017 e il 2023, e anche il Giappone ha ridotto la sua dipendenza (dal 29.6% al 27.3% nello stesso periodo), la quota cinese nelle importazioni extra-UE è aumentata di circa il 3% tra il 2017 e il 2023.
L’esposizione alla Cina è determinata da un mix di scelte politiche e di fattori macro: l’apertura europea alle importazioni cinesi nel settore cleantech (una filiera in cui la capacità industriale cinese è senz’altro dominante); le conseguenze della crisi energetica ma anche della regolamentazione interna europea sulle importazioni di prodotti chimici dalla Cina; la mancanza di strumenti davvero incisivi, visto che le cosiddette politiche di de-risking europee, quali il Critical Raw Materials Act e il Net Zero Industry Act, non hanno dato contributi tangibili alla manifattura interna.
I semiconduttori e lo spazio come esempi del rallentamento europeo
Per misurare il problema delle politiche europee, possiamo considerare gli esempi paradigmatici dei semiconduttori e dello spazio.
Se il 2020, con la cosiddetta “carenza di chip” emersa nel corso della pandemia, ha rappresentato un punto di generale risveglio sul ruolo strategico dell’industria dei semiconduttori, fondamentale per la vita digitale e per tutte le tecnologie di frontiera, le politiche intraprese dall’Unione Europea hanno mostrato, in questo stesso settore, di essere inadeguate rispetto alle loro promesse e al contesto internazionale.
I semiconduttori sono la base della vita digitale[8]. Come ricordato anche nel Rapporto Draghi[9], l’UE dipende per oltre l’80% da Paesi terzi per i suoi prodotti, servizi e infrastrutture digitali. La quota dell’UE sui ricavi globali ICT è scesa dal 22% nel 2013 al 18% nel 2023, mentre la quota degli Stati Uniti è aumentata dal 30% al 38% nello stesso periodo. Il mercato dei servizi cloud dell’UE è dominato per il 65% dagli hyperscaler con sede negli Stati Uniti e, ovviamente, l’industria europea dell’intelligenza artificiale è dipendente dai sistemi statunitensi, di cui NVIDIA è leader.
Le valutazioni della European Court of Auditors[10] hanno mostrato ritardi e carenze dello European Chips Act, lanciato tra il 2022 e 2023 con l’obiettivo di raggiungere a livello europeo il 20% del valore della produzione mondiale di semiconduttori all’avanguardia entro il 2030. Per raggiungerlo, si mirava a mobilitare almeno 43 miliardi di euro di investimenti pubblici, abbinati a investimenti privati, per un totale di almeno 86 miliardi.
Tuttavia, con investimenti insufficienti e rallentati, con la confusione tra i fondi europei e quelli relativi ai contributi pubblici degli Stati membri in competizione tra loro nell’attrazione delle aziende dell’ecosistema, l’obiettivo del 20% non potrà essere aggiunto. Secondo stime industriali, l’UE dovrebbe investire complessivamente circa 250 miliardi entro il 2030: impossibile. La previsione della Commissione di luglio 2024 stima, peraltro ottimisticamente, che la quota complessiva dell’UE nella catena del valore globale aumenterà di poco: l’11,7% entro il 2030.
Le debolezze strutturali di questo programma europeo riguardano vari aspetti: ambizioni quantitative sballate, scarso coordinamento, scarsi fondi comuni, ma anche mancanza di focus sulle necessità industriali e sulle capacità interne nella filiera, nonché sottovalutazione della dipendenza dalle materie prime e dell’incidenza del costo dell’energia.
Anche nel settore spaziale, l’UE è un attore in ritardo rispetto alla competizione tra potenze spaziali tradizionali (Stati Uniti, Russia) e in ascesa (Cina, India, Turchia, monarchie del Golfo). Anche in questo campo, le ambizioni della cosiddetta autonomia strategica contrastano con la reale capacità di protezione e proiezione dei propri asset.
L’UE non è una potenza spaziale completa, mancando di sufficienti capacità nelle applicazioni militari e nel volo umano[11]. Il divario negli investimenti pubblici è notevole: la spesa pubblica per le tecnologie spaziali (sia militari che civili) è circa molto superiore negli Stati Uniti rispetto all’UE. Il divario nella cosiddetta space economy, in cui contano sempre di più gli investimenti privati e il software, è ancora maggiore. L’UE ha perso leadership e terreno nel mercato dei vettori di lancio commerciali e si è trovata a dover dipendere temporaneamente da razzi statunitensi (SpaceX) per il lancio dei satelliti del suo programma strategico Galileo.
In questo contesto, il sistema europeo di governance e decisioni in materia dello spazio, invece di divenire più semplice, è stato reso progressivamente più complicato e farraginoso. Il Rapporto Draghi ha dedicato un’attenzione specifica al tema dello spazio, formulando diverse raccomandazioni utili. Ha fatto presente l’urgente necessità di riformare la governance spaziale europea, punto essenziale per ridurre la complessità, la frammentazione e le sovrapposizioni tra i vari attori istituzionali, come la Commissione, l’Agenzia Spaziale Europea e l’ulteriore agenzia della Commissione, EUSPA. Il rapporto raccomanda anche di rimuovere il principio del cosiddetto “ritorno geografico” dell’Agenzia Spaziale Europea, che ha contribuito ad amplificare la frammentazione della base industriale e a ostacolare l’efficienza, in un’economia dello spazio che SpaceX ha invece fatto avanzare attraverso il principio dell’innovazione verticale.
Dalla teoria alla pratica
Negli ambiti sopra citati come in altri, è facile riscontrare come le proposte di riforme non vengano attuate e, comunque, se avviate, non vengano mai portate a termine. Ci sono discussioni aperte da 15 anni nel contesto europeo, centrali anche per lo sviluppo tecnologico, come l’Unione dei mercati dei capitali: è semplice verificare come queste proposte abbiano prodotto una serie di documenti, talvolta abbiano cambiato nome (“Unione dei risparmi e degli investimenti”, e così via) ma non siano diventate nulla di concreto, in grado di incidere realmente sulla competitività europea.
Il filosofo Immanuel Kant, uno dei padri della razionalità europea, fu autore nel 1793 di uno scritto intitolato: “Sul detto comune: ‘Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica’”. La connessione tra teoria e pratica, che gli attori europei sembrano aver perduto più di ogni altro, è un requisito indispensabile per la competizione tecnologica. Di ciò fa senz’altro parte la consapevolezza dei propri punti di forza e di debolezza, che va realizzata aumentando la conoscenza del proprio sistema e del contesto internazionale.
Su quest’ultimo aspetto, è un imperativo categorico fare passi avanti nella conoscenza delle supply chain. Si prenda l’approccio degli Stati Uniti, i quali nel 2020 hanno esteso l’analisi delle vulnerabilità delle filiere tecnologiche (supply chain review) dal Dipartimento della Difesa, già evidente nel 2018, a settori civili strategici (come semiconduttori, batterie, minerali critici). Tale approccio pratico, basato sull’identificazione di obiettivi a partire dalle capacità industriali e di ricerca, ha guidato politiche come il Chips & Science Act e l’Inflation Reduction Act (IRA) del 2022. Nel campo cinese, è stato dimostrato come, a seguito delle vulnerabilità delle aziende nazioni rispetto ai controlli sulle esportazioni statunitensi, rese evidenti nel caso ZTE, si è intrapreso un lavoro complessivo e granulare di analisi e controllo della filiera[12], volto a individuare punti di forza e di debolezza, e cioè proteggere le forniture, valorizzare le capacità interne, anche per avere sempre più “carte” da giocare nella competizione commerciale e tecnologica.
Oltre a questo salto nella consapevolezza e nella pratica, ripensare la strategia economica europea è utile anche per verificare alcune domande: il peso regolatorio lede veramente la competitività europea, oppure no? È possibile costruire un sistema di regole in grado di incentivare maggiormente l’innovazione e, se sì, come? In che modo è possibile costruire maggiori competenze europee sulla base delle tendenze in atto, come i maggiori investimenti in difesa e sicurezza? Come è possibile far emergere in modo più chiaro i “campioni nascosti” del contesto industriale e tecnologico europeo? Per tutte queste ragioni, approfondiremo nel dettaglio nei prossimi mesi gli elementi possibili di una nuova strategia economica europea, con l’obiettivo di invertire la tendenza.
Note:
[1]“Europe losing tech race to China and US, Nobel Prize winner warns”, South China Morning Post, 14 ottobre 2025, https://www.scmp.com/economy/china-economy/article/3328920/europe-losing-tech-race-china-and-us-nobel-prize-winner-warns
[2] Per una ripresa di questo dibattito, si rimanda a Alessandro Aresu, Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina, La Nave di Teseo, Milano, 2020.
[3] Reinhilde Veugelers, “A G2 for Science?”, Bruegel Policy Brief, aprile 2011.
[4] Si veda “The AI Showdown: How the US and China Stack Up”, Bloomberg, 6 agosto 2025, https://www.bloomberg.com/news/articles/2025-08-06/who-is-winning-the-artificial-intelligence-race-the-us-or-china
[5] Si veda tra l’altro Robert Blackwill, Jennifer Harris, War by other means: geoeconomics and statecraft, Harvard University Press, Cambridge MA, 2016.
[6] Su questo contesto, si veda anche Filippo Fasulo, Roberto Italia, Alberto Prina Cerai, Ludovica Favarotto, “The EU’s Road to Economic Security: De-risking, Strategic Investments and Critical Partnerships”, ISPI Policy Paper, 16 settembre 2025.
[7] Si veda Agatha Kratz, Camille Boullenois, Jeremy Smith, “Why Isn’t Europe Diversifying from China?”, Rhodium Group, 2 dicembre 2024.
[8] Per una sintesi sulla centralità dell’industria dei semiconduttori in ottica di lungo periodo, si rimanda a Gordon Moore, La legge che muove il mondo, a cura di Alessandro Aresu, Liberilibri, Macerata, 2025.
[9] Il riferimento è ovviamente al report The future of European competitiveness, presentato alla Commissione Europea nel settembre 2024.
[10] European Court of Auditors, special report 12/2025: “The EU’s strategy for microchips – Reasonable progress in its implementation but the Chips Act is very unlikely to be sufficient to reach the overly ambitious Digital Decade target”, Publications Office of the European Union, 2025.
[11] Si veda tra l’altro EU capabilities in space: Scenarios for space security by 2050, European Parliamentary Research Service, marzo 2025.
[12] Il tema, già evidenziato in un documento CSET di maggio 2022 a cura di Ben Murphy (“Chokepoints. China’s Self-Identified Strategic Technology Import Dependencies”), è presente tra l’altro in Edward Fishman, Chokepoints. American Power in the Age of Economic Warfare, Penguin, New York, 2025.