Obama il centrista

Questa volta è ufficiale, al 100%: Barack Obama punta al centro anche nella retorica, rivendicando come suo un accordo contro il big government, quello che ha portato all’approvazione del budget per il 2011 e che ha evitato lo shutdown (una sorta di amministrazione controllata delle spese governative che interviene ogni qual volta il Congresso non approvi il budget). È un dato politico e un dato tattico-elettorale, che avvicina molto Obama al Clinton delle elezioni del 1996. La svolta non è misurabile attraverso la virulenza degli abituali attacchi “da sinistra”, ai quali Obama è abituato – in questo caso, soprattutto l’intervento durissimo di Paul Krugman, che a proposito del presidente si è chiesto “who is this bland, timid guy who doesn’t seem to stand for anything in particular?”. La svolta è piuttosto nelle parole scelte, con cura, dal presidente.

Commentando l’accordo sul budget raggiunto in extremis venerdì scorso, Obama ne ha descritto i contenuti sottolineando positivamente che si tratta del “più grande taglio di spesa annuale della nostra storia”: per chi lo segue da molto tempo e con attenzione, l’affermazione genera più scalpore del fatto in sé. La novità si trova in un cambiamento deciso nelle forme della retorica obamiana. Scelta politica con risvolti concreti in termini di policy, ma anche strategia di posizionamento in vista del 2012 – fredda, lucida e discussa a tavolino con i suoi consiglieri – e che è dentro l’avvio ufficiale della prima parte della campagna elettorale. Dobbiamo dare per scontato che arriverà di nuovo l’Obama incantatore che narra grandi visioni collettive, nel suo viaggio nato per redimere l’America: ma adesso la musica è decisamente diversa.

Per mesi e mesi il presidente si era detto disposto al compromesso ogni qual volta si era trovato ad affrontare uno scontro politico, ma non necessariamente come esaltazione di una virtù “centrista”: per Obama il compromesso è parte della sua concezione del ruolo presidenziale, ed è un elemento costitutivo della sua personalità. Chi avrà letto la sua autobiografia “Dreams from My Father” o ascoltato i suoi interventi pubblici più celebri, ha ben presente questa sua attitudine a far dialogare concezioni del mondo apparentemente inconciliabili: lo scopo non è quello di trovare un compromesso a metà strada, quanto quello di far emergere una sintesi nuova e a suo modo non prevista. Di quella sintesi, Obama diviene l’insostituibile “broker” – e l’esemplificazione più alta di questo approccio è il citatissimo discorso sulla razza tenuto a Filadelfia durante la campagna per le primarie del 2008.

Come spiega bene Marco Cacciotto, qui su Aspenia online, da un lato si tratta di una strategia tradizionale per un incumbent: il presidente in carica deve dimostrare di saper rappresentare l’interesse comune anche oltre la propria cultura partigiana, mostrandosi in grado di ottenere risultati concreti grazie alle proprie capacità di leadership. Dall’altro Obama sembra rinunciare alla caratteristica “pedagogica” che lo aveva caratterizzato fino a ora: spiegare agli americani le virtù del government, non un nemico ma uno strumento a sostegno del progetto individuale e collettivo del perseguimento della felicità. Tagliare e razionalizzare la spesa pubblica in tempo di crisi poteva e doveva essere un obiettivo di questa amministrazione, ma un taglio della spesa in sé e per sé non era mai stato rappresentato come una virtù. Ora lo è diventato, e capiremo meglio la strategia elettorale di Obama di qui a breve, poiché David Plouffe – Senior Advisor, ma prima di tutto un manager di campagne elettorali, compresa quella del 2008 – ha fatto intendere che il discorso presidenziale del 13 aprile sul piano di riduzione del deficit è una risposta diretta a quello proposto dal repubblicano Paul Ryan alcuni giorni fa.

È chiaro quanto questa presa di posizione pubblica abbia una valenza effettivamente elettorale, di ulteriore posizionamento: altrimenti non si capirebbe perché la Casa Bianca stia smentendo se stessa, visto che a febbraio aveva sostenuto che non fosse compito suo, ma del Congresso, proporre questo piano (l’amministrazione, probabilmente, lavorerà di sponda con la cosiddetta “Gang of Six”, sei influenti senatori di entrambi i partiti che stanno lavorando alla redazione di una proposta comune sulla riduzione del deficit).

E’ nota da alcuni giorni l’inedita apertura di Obama ai repubblicani sui tagli a Medicare e Medicaid, i due programmi pubblici che garantiscono l’assistenza sanitaria agli over-65 e ai poveri. In cambio, il presidente chiederà di aumentare le tasse a chi guadagna più di 250.000 dollari l’anno. Su queste scelte pesa anche una realtà di contesto, che rende Obama più debole. Il governo americano dovrà chiedere al Congresso, a metà maggio, l’autorizzazione ad aumentare il plafond del debito pubblico (al fine di far fronte alla spesa, ovviamente): i repubblicani aspettano il presidente al varco, e accetteranno che questo accada solo se l’amministrazione sarà disposta a fare altre pesanti concessioni.

La pronta partenza della campagna elettorale di Obama, però, è senz’altro un punto a favore del presidente: come spiega ancora Cacciotto, è un tentativo di spaventare la strana armata repubblicana, piena di candidati presidenziabili “così così”. Nel 2007, nello stesso periodo, i democratici avevano già schierato da tempo tre formidabili pesi massimi: Hillary Clinton, John Edwards e lo stesso Obama. Si tratta di mostrare la forza di una macchina organizzativa, di ricordare che – da presidente – Obama potrebbe battere ogni record di raccolta fondi, e che da ora in poi le sue apparizioni pubbliche in veste ufficiale saranno contemporaneamente affare di stato e affare elettorale. La recente nomina di una campionessa della raccolta fondi come Debbie Wasserman Schultz alla guida del Democratic National Committee – è lei il nuovo capo del partito, per quanto in America si tratti più di un manager/politico che di un segretario – è un ulteriore rombo di motori della macchina politica obamiana, che questa volta chiede ai suoi bundlers (i “raccoglitori” di donazioni) di trovare 700.000 dollari a testa in un anno e mezzo, quasi tre volte l’obiettivo che era stato posto nel biennio 2007/2008. Per ora, i bundlers in azione dovrebbero essere quasi 500.

Sullo sfondo il tentativo di esorcizzare il contesto, il temibile quadro generale che vede il più lento recupero di posti di lavoro della storia degli Stati Uniti in un periodo post-crisi (al di là di qualche lieve miglioramento, come la riduzione del tasso di disoccupazione a meno del 9%): si tratta di creare il paradosso, mostrare imbattibile un presidente che governa un “regno” insicuro e timoroso come non accadeva da decenni, come se dopo di lui non potesse che arrivare un diluvio ancora peggiore. Per questo la parola chiave della campagna elettorale di Obama sarà “futuro”, al posto di “change”: se da una parte c’è un chiaro posizionamento centrista che passa attraverso il prisma della politica economica, Obama dovrà di nuovo vendere un’immagine di speranza, mostrarsi come l’unico in grado di traghettare l’America verso un futuro meno faticoso di questo presente, anche a costo di sacrifici che il presidente non nasconde (per esempio, abituarsi all’idea di uno stile di vita più parsimonioso). Il “winning the future approach”, come lo ha definito William Galston della Brookings Institution, passerà però attraverso le solite forche caudine: la vittoria, stato per stato, nelle competizioni decisive di ogni grande campagna elettorale. Dall’Ohio aggredito dalla disoccupazione alla Florida, quella degli anziani preoccupati per il futuro delle loro pensioni e del loro trattamento sanitario.

Aggiornato al 14 aprile 2011

Obama ha tenuto ieri il suo major speech sulla riduzione del debito, usando toni partisan: è tornanto immediatamente al vecchio stile, mantenendo la barra sul sostegno verso misure balanced (unbalanced sarebbero le proposte dei repubblicani, che Obama accuserà di estremismo per tutta la campagna elettorale). Nella sostanza il progetto è molto lontano da quello del repubbliano Ryan, che proponeva tagli draconiani, ma è comunque ambizioso e prevede interventi molto significativi che un buon numero di democratici faranno fatica ad accettare (alcuni economisti sostengono che un aumento delle tasse per gli ultraricchi coprirebbe solo un terzo della riduzione di spesa proposto da Obama). A ogni modo, ne’ l’Obama centrista della scorsa settimana ne’ quello di ieri più agressivo nei toni sono frutto del caso, o di repentini cambiamenti di strategia. In questa campagna elettorale aspettiamoci di vedere all’opera – contemporaneamente – almeno due Obama: il saggio e moderatissimo presidente di tutti gli americani e il candidato liberal principled che narra la nuova America. Per i repubblicani sarà dura.

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