Studiare i rapporti internazionali, sia in chiave storica che teorica, significa occuparsi di Stati ma anche dell’eredità di molti imperi del passato. O meglio: di Stati che hanno ben saldo un riferimento “imperiale” nella propria identità, a volte per respingerlo e superarlo, altre per guardarlo con nostalgia, altre ancora per ambire a ricostruirlo in forme nuove. Siamo, come sostiene una vasta letteratura, in una fase di ritorno degli imperi?
Questo numero di Aspenia cerca di rispondere a tale quesito di fondo per la vita internazionale, partendo dalla tesi – esposta nel saggio di Edoardo Campanella – che la crisi parziale della globalizzazione produca una nuova spinta al controllo diretto di territori, risorse, materie prime strategiche prima scambiate semplicemente sui mercati. Ma arrivando alla conclusione che la retorica neo-imperiale adottata per ragioni diverse dai grandi Stati nazionali di oggi, non riesca a tradursi in realtà. Siamo alle prese con nuovi imperi o con imperi per finta? L’ombra degli imperi persiste e si estende dai grandi Stati nazionali agli imperi immateriali delle Big Tech. Ma prevalgono narrazioni e illusioni.
ALLE RADICI DELL’IMPERIUM: L’IMPERO COME FORMA DI ORGANIZZAZIONE DEL POTERE. È decisivo chiarire, prima di tutto, cosa sia un impero. La parola latina “imperium” ne è il fondamento, riferendosi in origine a uno specifico (e limitato) potere conferito a un comandante politico-militare di guidare il popolo in guerra. In termini prelegali, il requisito centrale dell’imperium era una reputazione di rettitudine morale, quindi una virtù che andava al di là degli incarichi formali; ma nell’esperienza della res publica questo criterio si mescolava alla legittimità formale. Ripercorrere le radici storiche, che risalgono appunto all’antica Roma, è importante perché aiuta a ricordare che il termine “impero” non aveva affatto un’accezione denigratoria, ma descriveva un meccanismo di governo percepito al tempo stesso come giusto ed efficace – soprattutto nelle situazioni di emergenza e di crisi come tipicamente quelle belliche.
Nella politologia moderna e contemporanea, una struttura imperiale è qualcosa di più e di meno di uno Stato (nel senso weberiano del trittico popolazione-territorio-sovranità): di più, perché presuppone un nucleo centrale e una qualche periferia; di meno, perché manca dell’attributo della sovranità nella sua interezza (per definizione, se l’intero territorio fosse “sovrano” parleremmo semplicemente di uno Stato più vasto). Inoltre, una costruzione imperiale implica una forma di imposizione da parte di un’entità su un’altra – si tratta quindi di una forma di organizzazione del potere fondata sulla asimmetria fra un centro dominante e periferie subalterne e controllate. Che ha prevalso rispetto ad altre nel mondo pre-contemporaneo.
Da questa radice deriva naturalmente il termine imperialismo, che ha assunto un’accezione negativa e legata in modo indissolubile all’esperienza coloniale. E ciò complica non poco le cose anche nell’uso del più ampio aggettivo “imperiale”.
Questo aiuta a spiegare perché, nel lessico politico dell’ultimo secolo e mezzo, poche parole siano apparse anacronistiche come il termine “impero”. Veniamo infatti da una lunga fase di predominio degli Stati-nazione: perfino le cosiddette “due superpotenze”, nel contesto bipolare della Guerra fredda, si presentavano come Stati-nazione, pur aspirando a diventare qualcosa di diverso e più grande, ossia modelli politici per gli altri e fulcri di sistemi di alleanze che potremmo definire “quasi-imperiali”. Sebbene fossero entrambi dichiaratamente anticolonialisti, USA e URSS esercitarono di fatto, in modo molto diverso, tipi innovativi di impero, sia militare che economico e ideologico. L’ordine liberale internazionale fondato sulla Pax Americana potrebbe essere visto come una forma di “quasi impero” benevolo, di cui l’America di oggi non è più disposta a sostenere i costi. E che non regge alla diffusione del potere internazionale, anche se è privo di alternative (non sono vere alternative le riunioni allargate della Shanghai Cooperation Organization, come quella che si è tenuta ai primi di settembre a Pechino, né la coalizione poco coesa dei BRICS).
La parabola della guerra fredda – 45 anni circa – è in realtà breve in prospettiva storica, ma esistono vari altri casi interessanti di commistione tra la politica “Stato-centrica” e forme alternative e più flessibili di organizzazione del potere, che possono essere assimilate a quelle imperiali. Si pensi alle “civiltà” di Samuel Huntington come unità di analisi, che in fondo hanno convissuto con gli Stati-nazione da quando questi esistono in quanto creazione westfaliana (1648), quindi tipica dell’era moderna ma appunto non esclusiva. La tesi dello scontro tra civiltà, con qualche forzatura e approssimazione, aveva in effetti anticipato alcune forti tensioni che sono emerse con chiarezza soltanto dopo la fase molto dinamica della globalizzazione tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila: esistono lunghe filiere globali e forme di interdipendenza strutturale, ma la politica e l’ideologia continuano a dividere e frammentare il sistema dei rapporti internazionali. Se la globalizzazione è sembrata superare ulteriormente l’eredità imperiale (con Stati-nazione, grandi e piccoli, disposti a intrecciare stretti legami di interdipendenza), la fase attuale – caratterizzata dalla “weaponizzazione” delle dipendenze economiche – potrebbe riportare in auge anche alcune caratteristiche organizzative dei vecchi imperi, ma in modalità aggiornate al XXI secolo.
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Sarà davvero così? Questo numero di Aspenia ne dubita, guardando ai casi concreti: la tensione ricorrente degli Stati Uniti fra impero e repubblica, le illusioni fatali della Russia o le aspirazioni neo-ottomane della Turchia, le coloriture persiane dell’Iran e lo scarto che esiste in Cina fra il mito del grande risveglio dell’Impero di Mezzo e i problemi interni della superpotenza asiatica.
RITORNO DEGLI IMPERI O DELLA RETORICA IMPERIALE? Il tema del ritorno degli imperi esiste, non c’è dubbio. Evoca potenze egemoniche e coloniali, guerre solo apparentemente lontane, poi tornate vicine, mappe geopolitiche scolorite ma oggi rilanciate dall’aspirazione al controllo diretto di territori o di materiali strategici.
L’impero, insomma, non è solo un ricordo del passato. Per lo storico britannico Niall Ferguson, l’idea imperiale non è scomparsa: si è trasformata, adattata, e oggi viene ripresa nei linguaggi di quelle che si sentono o sono grandi potenze. Seppure in forme molto diverse, negli Stati Uniti e in Russia, in Cina o in Turchia – una delle principali potenze regionali – la retorica imperiale è tornata a fare parte dei discorsi politici e delle narrazioni nazionali. Per la Russia, ad esempio, la nostalgia per l’impero perduto – quello sovietico – e per l’impero glorioso del passato – quello zarista – è essenzialmente uno strumento di consolidamento interno del regime.
Per l’America di Trump, l’idea di dovere controllare direttamente risorse prime strategiche, invece che scambiarle sul mercato, rientra nel crollo di fiducia sui vantaggi dell’interdipendenza.
La crisi della globalizzazione ha molto a che fare, quindi, con il ritorno delle visioni imperiali: perlomeno nel senso che un attore come l’America punta al tempo spesso a evitare dipendenze per sé e ad accentuarle per altri. Di fatto, settori economici cruciali vengono così considerati “campi di battaglia”; e gli strumenti economici diventano armi con cui combattere. Sicurezza ed economia si contagiano. Mentre un punto interrogativo si apre sul futuro dell’impero del dollaro.
LE ORIGINI DEGLI IMPERI. Gli imperi non nascono per caso ma per l’esistenza di opportunità strutturali: un attore politico dotato di una chiara superiorità militare impone il proprio ordine su aree indebolite. Ma questo impulso espansionistico non è mai solo materiale. Ha bisogno di una giustificazione ideologica. Di una narrazione, si direbbe oggi.
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La Pax romana giustificava l’irradiazione del potere di Roma. L’impero ottomano si fondava, in teoria, sulla protezione delle popolazioni di fede musulmana. La Gran Bretagna parlava della sua “missione civilizzatrice”. E la Russia zarista affermava, con l’impero, il proprio destino eurasiatico. In tutti questi casi, la forza militare si combinava a una visione universale dell’ordine, della civiltà e della legittimità.
Lo storico inglese Paul Kennedy, nel suo classico “The Rise and Fall of the Great Powers”, dimostra come le grandi potenze tendano a espandersi quando la loro superiorità strategica supera quella dei rivali regionali. Gli imperi sono quindi prodotti di asimmetrie e di squilibri: militari, politici, ideologici.
Dominic Lieven, studiando l’espansione russa, dimostra d’altra parte che l’ideologia imperiale non è solo propaganda, ma si attua sulla base di una logica organizzativa. La Russia si percepiva come baluardo della cristianità ortodossa e guida dell’Eurasia. La sua espansione era, per il potere zarista, un dovere storico.
IL DECLINO IMPERIALE. Ogni impero contiene in sé, d’altra parte, i fattori della propria fine. Niall Ferguson parla in “Colossus” di overstretch (come il già citato Paul Kennedy prima di lui): quando l’estensione territoriale e gli obblighi militari superano la capacità amministrativa e fiscale del Centro, l’impero decade. La fine dell’impero romano resta l’esempio emblematico: una Roma logorata da guerre periferiche, corrotta internamente, incapace di gestire le sue frontiere.
Ma il declino non è solo militare. È spesso ideologico. Quando l’élite perde fiducia nel proprio ruolo, o quando le periferie smettono di credere nella legittimità del centro, l’impero si svuota.
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Dopo il 1945, il principio di autodeterminazione ha eroso le basi ideologiche dei vecchi imperi coloniali. Il 1956, con la crisi di Suez e la sconfitta di Francia e Gran Bretagna, segna la fine di fatto della precedente era coloniale.
In sintesi, gli imperi storici sono finiti per tre motivi principali: costi eccessivi, perdita di legittimità, emergere di attori alternativi più efficaci. Fu l’affermazione dell’America post-bellica a sigillare, con la crisi di Suez appunto, la fine del vecchio impero britannico. Mentre nasceva, con le istituzioni di Bretton Woods, il ciclo caratterizzato dalla Pax americana, un impero di fatto basato sulla superiorità militare e sulla potenza del dollaro ma non sul dominio territoriale.
Giovanni Arrighi, nel suo “Il lungo XX secolo”, mostra in effetti come la transizione dall’impero classico alla Pax americana abbia segnato una trasformazione strutturale del potere: da dominio territoriale a egemonia militare, politica ed economica, largamente ancorata alla finanza internazionale e al privilegio esorbitante del dollaro. Un ciclo che comincia a mostrare le sue crepe con la crisi finanziaria del 2018, primo segnale di declino relativo del dominio degli Stati Uniti. E poiché il primato americano era stato l’ingrediente decisivo dell’ordine internazionale novecentesco, questa prima scossa ha conseguenze che diventeranno sistemiche: il passaggio dall’unipolarismo post-1989 al multipolarismo, con l’ascesa della Cina e la diffusione del potere internazionale; il succedersi di crisi – dalla pandemia all’invasione dell’Ucraina, con il ritorno della guerra in Europa; la competizione tecnologica come nuova forma di rivalità geopolitica; la fine della fiducia nei benefici dell’interdipendenza e quindi la nuova interazione fra sicurezza ed economia, con i suoi effetti sulle catene globali del valore.
È una transizione conflittuale e caotica, che sgretola il vecchio ordine liberale internazionale e di cui non è ancora chiaro l’esito. La fine della Pax americana, insomma, è ormai evidente: ma prevale per ora un “non-ordine”. È il mondo di nessuno, per usare la definizione di Charles Kupchan; è il G-0, per utilizzare invece il logo di Ian Bremmer. E sappiamo che le transizioni del potere internazionale sono sempre fasi rischiose, ad alto tasso di guerre e di conflitti economici.
LO SCONTRO FRA NARRAZIONI. In un contesto internazionale del genere, l’impero non ritorna nei fatti ma torna nei discorsi. È retorica, come si notava, più che struttura. Tuttavia, la retorica imperiale ha effetti politici reali. Serve a legittimare il potere politico, a rafforzare il consenso interno, a costruire identità nazionali, a giustificare scelte geopolitiche.
Come hanno notato alcuni studiosi in campo accademico, la storia dei sistemi internazionali contiene in sé anche una vera battaglia di potere tra “narrazioni” alternative, in cui Stati o comunità competono per raccontare il passato e così dare forma al presente e perfino influenzare il futuro. I meccanismi vengono ad esempio spiegati in “Debating Worlds”, a cura di Daniel Deudney, G. John Ikenberry e Karoline Postel-Vinay. La retorica imperiale è un potente strumento in questo arsenale narrativo, e lo è anche la sua apparente antitesi, cioè la retorica anti-imperiale – che spesso finisce per contrapporre un’identità oppressa a quella che si è precedentemente imposta con la forza. In tale contesto, lo stesso “ordine liberale internazionale”, che per noi europei è quasi indiscutibilmente un esito positivo o comunque un’aspirazione costruttiva, è dipinto da molti altri come un progetto imperialista e neocolonialista – né più né meno. È quindi sempre questione di prospettive, e appunto di narrazioni tra loro alternative.
Arriviamo così al caso centrale nel sistema internazionale degli ultimi 80 anni circa: gli Stati Uniti, che nella seconda amministrazione Trump sembrano, a un livello superficiale, volersi imporre nuovamente come “great power” a tutto tondo e libera dai vincoli di alleanze invecchiate; ma che in realtà stanno soprattutto seguendo una linea di nazionalismo difensivo e protezionista.
L’AMERICA È DAVVERO IMPERIALE? Esiste un dibattito di vecchia data sulla natura della politica estera americana, che non si è mai fermato negli anni della guerra fredda ed è stato alimentato dal crollo sovietico del 1991.
Robert Kagan definisce gli Stati Uniti un “impero involontario” (“Dangerous Nation, The World America Made”): l’America non cerca il dominio – già Richard Haass aveva parlato degli Stati Uniti quale “sceriffo riluttante” – ma la sua presenza globale la rende inevitabilmente imperiale. O la rende comunque una nazione “indispensabile”, secondo la celebre definizione di Madeleine Albright. L’egemonia degli Stati Uniti si fonda sulla potenza militare, l’esistenza di basi nel mondo, il controllo degli snodi centrali delle vie marittime; si basa sul potere del dollaro come moneta internazionale di riserva e sul soft power, ma è corredata da un discorso “eccezionalista”: l’idea che l’America abbia una missione storica da compiere negli interessi generali del sistema internazionale.
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Oggi questa missione è messa in discussione a favore di una logica nazionale fondata sull’America First: gli interessi nazionali dell’America come unico parametro di riferimento. Il che sembra fare a pugni con la retorica mini-imperiale utilizzata nei discorsi politici. In realtà, gli Stati Uniti non sembrano più disposti a sostenere i costi del sistema internazionale da loro stessi creato e tendono a esternalizzarne gli oneri. Più che tendere verso un impero, stanno tornando a pensarsi come repubblica, in competizione con avversari e alleati.
Una potenza nazionale dura più che una potenza imperiale, più o meno benevola. Che guarda al mondo in una logica di sfere di influenza, più che attraverso le istituzioni internazionali. E che sta rapidamente perdendo parte del tradizionale soft power, con rischi per il dominio assoluto del dollaro (vedi il saggio di Giovanni Farese) – per concentrarsi fin troppo sulla bilancia commerciale, che di per sé non ha mai caratterizzato, né in termini di deficit né di surplus, le grandi potenze.
Proprio la parabola politica di Donald Trump, con i suoi anomali due mandati presidenziali non sequenziali, ha concentrato l’attenzione sulla dimensione interna delle dinamiche che possiamo definire “pseudo-imperiali”, nel senso che i suoi avversari politici hanno sempre visto nelle ambizioni di accentramento del potere esecutivo una pericolosa tendenza antirepubblicana se non antidemocratica e illiberale. Insomma, l’antitesi dell’impostazione data dai Padri fondatori alla struttura costituzionale americana, con una netta divisione dei poteri e un esplicito obiettivo antimonarchico.
Ne parlano nei loro saggi Mario Del Pero ed Elizabeth Saunders, rendendo chiaro lo stretto legame tra l’impianto politico interno degli Stati Uniti e la loro proiezione esterna, visto che l’azione internazionale americana, fin dalla rivoluzione del 1765, è sempre stata caratterizzata dal ruolo del paese anche come modello organizzativo.
Una riflessione interessante è quella proposta recentemente da Ross Douthat sul New York Times (5 settembre 2025), sottolineando che vi sono tipi diversi di forzature costituzionali che Trump ha perseguito in questi anni, con effetti probabilmente diversi sulle future istituzioni americane. Quello che Douthat chiama “cesarismo imperiale” non è affatto nuovo nella politica statunitense, con Franklin Delano Roosevelt che ne rimane l’esempio più fulgido (nel bene e nel male, essendo stato eletto tre volte per portare il paese fuori dalla Grande Depressione e fino alla vittoria nella seconda guerra mondiale); quel tipo di rafforzamento dell’Esecutivo è quasi certamente sostenuto dall’opinione pubblica e dalla Corte suprema in questa fase storica.
Una seconda categoria comprende prerogative che il Congresso ha praticamente ceduto alla presidenza, come l’imposizione di tariffe sulle importazioni o l’uso della forza militare per operazioni limitate e “chirurgiche”: l’esito dipenderà qui dai futuri rapporti tra esecutivo e legislativo, di volta in volta, con un possibile ruolo di arbitro svolto dalla Corte suprema.
Infine, ci sono le forzature più direttamente legate alla personalità di Donald Trump e alla sua visione del potere, dall’espulsione degli immigrati irregolari, allo schieramento di truppe in grandi città guidate da sindaci democratici, fino agli scontri con le università; sono casi in cui i “checks and balances” devono ancora pienamente attivarsi ma in cui la scarsa popolarità del presidente rischia di metterlo sulla difensiva. Vedremo tra poco più di un anno che segnali arriveranno dal voto di midterm. E una domanda di fondo è quanto di tali forzature persisterà e quanto abbia invece bisogno – per durare – di una personalità come quella di Trump.
L’IMPERO NOSTALGICO RUSSO. Per Vladimir Putin, l’impero è trauma e desiderio. La perdita dell’Unione Sovietica è stata definita dal capo del Cremlino come “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”. Le annessioni di Crimea e Donbass sono giustificate come recupero di un ordine naturale, del vecchio dominio sulle popolazioni russofone ai confini.
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Come spiega con efficacia il saggio di Alberto Masoero in questo numero di Aspenia, la Russia dimostra che in alcuni casi non si può praticamente concepire neppure la “nazione” senza un suo “impero”, il che pone un dilemma per la sopravvivenza dello Stato – privato della dimensione imperiale, non ha legittimità e per ragioni storiche non può poggiare su solide fondamenta istituzionali di consenso. Ecco allora che il destino imperiale diventa una condanna, una maledizione ricorrente: proprio quella per cui la Russia di Putin non riesce a fare a meno dell’Ucraina come appendice territoriale ed etnica sottomessa e a sovranità (molto) limitata. L’apparente irrazionalità che intravvediamo nei comportamenti di Mosca ha qui la sua spiegazione, in una psicologia del potere politico che va compresa e analizzata pur mentre la si contrasta.
CINA: L’IMPERO DI MEZZO. La Cina di Xi Jinping promuove un “impero senza impero”: il dominio senza conquista territoriale – almeno per ora. Attraverso la Belt and Road Initiative, Pechino costruisce infrastrutture, accordi e dipendenze. Rana Mitter ha descritto questo progetto come una rivisitazione moderna del ruolo imperiale cinese, fondato su ordine, armonia e centralità asiatica.
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Ma anche su una diplomazia economica “coercitiva”, affidata al controllo di tecnologie e materiali strategici. In questo caso l’interrogativo vero è se una Cina in declino demografico e con forti tensioni interne abbia la forza comparativa per reggere al suo sogno imperiale.
TURCHIA E IRAN: CIÒ CHE RESTA DEL PASSATO MA NON PUÒ GUARDARE AL FUTURO. Recep Tayyip Erdoğan ha costruito un’identità nazionale basata sul recupero dell’eredità ottomana. Il cosiddetto “neo-ottomanesimo” si traduce in proiezione culturale, influenza regionale, uso strumentale dell’Islam e delle minoranze turche all’estero. Soner Cagaptay, in “The New Sultan”, mostra come l’impero serva come modello per un’autorità paternalista e centralizzata. Ma la Turchia, come potenza regionale, non ha il peso specifico per proiettarsi realmente verso lo spazio europeo o arabo. Lo dimostra molto bene il saggio che Soli Özel ha scritto per questo numero di Aspenia. A cui può essere combinata la lettura dell’articolo di Nicola Pedde sulle ombre persiane dell’Iran attuale.
L’IMPERO COME ILLUSIONE. Il mondo del XXI secolo è strutturalmente anti-imperiale – come ci ricorda nel suo articolo Marta Ottaviani. È multipolare, con due superpotenze (Stati Uniti e Cina), con attori regionali forti e con una serie di potenze “di mezzo”, non schierate né con l’Occidente né pienamente (il caso dell’India) con i suoi rivali; è interconnesso, con una resistenza tecnologica e culturale alla frammentazione del commercio internazionale; ed è regolato da norme in erosione ma che ancora limitano il dominio unilaterale.
Kishore Mahbubani sostiene che l’Occidente ha perso la capacità di imporre l’ordine globale perché ha ignorato il cambiamento strutturale dei rapporti di forza (“Has the West Lost It?”). Fareed Zakaria, in “The Post-American World”, osserva che la vera egemonia richiede oggi cooperazione, legittimità e consenso — non eserciti, né colonie.
Anche quando la retorica imperiale può servire a breve termine, alla lunga produce instabilità interna: crisi economiche, isolamento internazionale, stagnazione politica. La Russia è l’esempio più evidente. Ma anche gli Stati Uniti stentano a sostenere un’impronta globale coerente con il proprio sistema democratico.
In questo contesto va collocata l’Unione Europea, che molto osservatori vedono oggi – forse troppo spesso e troppo superficialmente – soltanto come vaso di coccio tra vasi di ferro (neo-imperiali). In effetti, come nota Vittorio Emanuele Parsi, l’UE si pone deliberatamente come antidoto e alternativa, cioè come superamento virtuoso, costruttivo e post-imperiale di un’esperienza che ha segnato la storia del continente. La scelta creativa e originale dell’integrazione europea è un’unione volontaria di Stati-nazione che puntano “oltre” la loro struttura weberiana senza volere diventare impero. Certo, è anche la fondazione di un mito, che come tale forza e deforma la storia: ce lo ricorda con lucidità il contributo di Timothy Snyder, sottolineando che in realtà le Comunità europee furono forgiate nella sconfitta degli imperi, prima ancora che nell’atto volontaristico a favore della pace e contro la guerra. Il destino dell’esperimento europeo è molto incerto, lo sappiamo fin troppo bene: minacciato sia dall’interno che dall’esterno, sia dai suoi vicini a cominciare dalla Russia di Putin sia da potenze lontane come la Cina di Xi. Resta comunque una costruzione politica ed economica che gli stati nazionali europei hanno interesse a sviluppare, nonostante tutte le difficoltà.
L’impero non tornerà come forma organizzativa, non certo a breve termine. Non perché manchi la volontà — anzi, mai come oggi leader nazionali attingono al suo linguaggio — ma perché mancano le condizioni strutturali che resero possibili gli imperi passati.
Resta però una categoria politologica utile. Serve a capire le ambizioni di potenza, le fratture nei sistemi internazionali, i conflitti tra universalismo e sovranità. Serve a capire un lato decisivo – la paura delle dipendenze strategiche e quindi la ricerca di autonomia – della crisi della globalizzazione. E serve ad allargare lo sguardo ai nuovi domini: dallo spazio alle nuove tecnologie, analizzati nel Forum di questo numero di Aspenia.
L’impero, oggi, è in fondo una finzione operativa. Una finzione potente. Ma che si nutre di ombre più che di realtà.
Questo articolo è l’Editoriale del numero 3-2025 di Aspenia.