L’ultimo incidente è stato il 30 novembre. Un drone dell’IDF ha centrato due sospetti terroristi che avevano attraversato la Yellow Line (la linea di demarcazione provvisoria prevista dalla Fase 1 del cessate il fuoco, che lascia a Israele il controllo militare di oltre il 50% del territorio di Gaza). Avevano 8 e 11 anni. Ma in realtà, non è stato l’ultimo: è stato l’ultimo di cui si è parlato. A Gaza il cessate il fuoco è in vigore dal 10 ottobre. Da allora, gli ostaggi sono stati quasi tutti rilasciati, manca un corpo solo: ma si sono avuti oltre 350 morti. Nel primo mese, le violazioni sono state 25. E l’ONU sostiene che stia entrando solo la metà dei 600 camion di aiuti al giorno previsti. Le ONG dicono un quarto. E comunque, quello che entra, dicono i palestinesi, sparisce. Va dritto al mercato nero.
Ma si tratta davvero di violazioni? O forse questa tregua è proprio così? Un ibrido che non è né guerra né pace? Per Israele, o più esattamente, per Benjamin Netanyahu, è ovvio. Netanyahu ha sempre puntato a gestire il conflitto, invece che a eliminarlo: ha sempre puntato a un conflitto a bassa intensità – la famosa strategia del falciare il prato: un po’ di bombardamenti, di tanto in tanto, un’ondata di raid, una fiammata di scontri, per avere morti e feriti, sì, insicurezza, ma non troppo. Perché è così, intanto, che continua a espandere gli insediamenti, e a conquistare la Cisgiordania. Ed è così, intanto, che i palestinesi, sfiniti, vanno via.
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Il misterioso aereo atterrato in Sudafrica il 13 novembre con a bordo 153 passeggeri senza passaporto né bagaglio è una storia da film. Ma da un po’ di tempo, per i palestinesi è molto più semplice ottenere un visto. A Nablus, a Jenin, a Ramallah, è tutto in vendita: sono tutti in partenza.
Adesso, poi, per Netanyahu questa tregua – un po’ tregua, un po’ no – è ancora più utile. Gli lascia margine di manovra non solo in Cisgiordania, ma anche in Libano e in Siria, in cui sta tentando di consolidare una sorta di zona cuscinetto lungo tutto il confine. E gli lascia margine di manovra con l’Iran: il suo vero obiettivo.
Oltre che per Netanyahu, però, tutto questo è ideale anche per Hamas. Perché così, a Gaza resta l’unica presenza palestinese organizzata in campo. Non importa se e quanto sia ancora davvero forte, quanti combattenti abbia, e quanto esperti e quanto armati, e soprattutto, se e quanto abbia il sostegno dei palestinesi: con Israele che spara qui e lì, non si avrà mai nessun governo. Non si avrà mai un’alternativa. Nessuno andrà mai a piazzare i suoi “stivali sul terreno” in un contesto così: e infatti nessuno ha accettato di partecipare alla famosa International Stabilization Force che, in base al Piano Trump, è chiamata a disarmare Hamas.
Anche perché Hamas ha detto che è pronta al disarmo, sì: ma solo alla fine dell’Occupazione. Nel frattempo, ha detto, considererà l’International Stabilization Force come un’altra Occupazione. Hamas ha una strategia altrettanto chiara di quella di Netanyahu: punta sulla mobilitazione internazionale. Su manifestazioni, tribunali, sanzioni. Boicottaggi. Flottiglie. E perché la mobilitazione internazionale non si smorzi, morti e feriti sono indispensabili. Se cessa davvero il fuoco, cessa anche l’attenzione.
In apparenza, è contraddittorio. In fondo, dopo il 7 Ottobre Netanyahu è stato categorico: non si sarebbe fermato fino a quando non avrebbe cancellato Hamas. E ora, invece, cosa fa? Tollera Hamas? Tollera che esista ancora? Ma Netanyahu sa che fino a quando c’è Hamas, non si avrà uno Stato palestinese, e non si avrà neppure la ricostruzione. I Paesi arabi, infatti, temono Hamas e il contagio delle milizie filo-iraniane più di quanto temano Israele. Ormai, si è capito: Netanyahu e Hamas sono necessari l’uno all’altro. Di fatto non sono nemici, ma alleati.
A rigore, che la tregua sia una tregua vera, e spiani la strada a un futuro per Gaza, è interesse di Trump. L’iniziativa è sua. Ma il suo piano di pace, che è adesso allegato alla Risoluzione 2803 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 17 novembre, è un piano in più fasi: e come ogni piano in più fasi, andrà avanti solo se il suo garante, e cioè questo non meglio precisato “Board of Peace”, avrà la capacità, e volontà, di costringere Israele e Hamas ad andare avanti.
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Questo, in realtà, è piuttosto improbabile. Non solo perché l’esperienza degli Accordi di Oslo del 1993 insegna che quello del garante è un mestiere full time: La Casa Bianca, invece, ha tanti fronti internazionali aperti, dall’Ucraina in giù: ma anche perché Trump ha puntato tutto sugli affari. Non sull’economia – strategia più che legittima, visto che la cooperazione economica ha effettivamente tutto il potenziale per allargarsi ad altre forme di cooperazione: è la storia dell’Europa. No. Qui non si parla di economia, ma di affari e basta. Di appalti. E israeliani e palestinesi sono divisi da questioni di altro tipo. Di politica. Di identità.
Non si tratta di ingegnarsi perché collaborino, e così, si conoscano, e si abituino gli uni agli altri, come francesi e tedeschi con il carbone e l’acciaio negli anni ’50 del secolo scorso. Israeliani e palestinesi si conoscono benissimo. Si tratta di risolvere l’equazione che dia libertà agli uni e sicurezza agli altri. Ed è un’equazione che continua ad avere le incognite di sempre: non sarà un piano imprenditoriale a poterla risolvere.