La rivoluzione del 1979 rappresenta uno spartiacque non solo per la storia dell’Iran, ma per l’intero Medio Oriente. All’epoca, con il ritorno in patria dell’ayatollah Rurhollah Khomeini, dopo quindici anni di esilio, e la caduta dell’autoritaria monarchia dello Scià, prese forma la Repubblica islamica. Un referendum popolare approvò con larghissima maggioranza il nuovo sistema politico, incentrato sul ruolo della Guida Suprema. Non si trattò semplicemente di un cambiamento istituzionale: la rivoluzione islamica inaugurò un progetto ideologico con ambizioni transnazionali, destinato a plasmare gli equilibri regionali fino a oggi.
L’Iran post-1979 si concepì come potenza portatrice di “rivoluzione permanente”, un messaggio politico-religioso alternativo all’ordine internazionale. All’epoca, tuttavia, il mondo era ancora segnato dal bipolarismo tra Stati Uniti e Unione Sovietica, una contrapposizione che si estendeva anche al Medio Oriente: Washington sosteneva regimi monarchici e conservatori, mentre Mosca intratteneva stretti rapporti con governi laici e nazionalisti, come quelli di Siria, Iraq ed Egitto nella fase nasseriana.
In questo contesto, la Repubblica islamica scelse una via autonoma, rifiutando tanto l’imperialismo americano quanto l’ateismo marxista sovietico. Khomeini guardava con sospetto all’URSS, percepita come potenza materialista e oppressiva nei confronti dei musulmani, in particolare dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979, che confermò la distanza ideologica tra Teheran e Mosca. Il principio della velayat-e faqih, il governo del giurista islamico, non solo ridefinì le istituzioni interne ma divenne la base per un modello da proiettare oltre confine.
Una rete di influenza multilivello
In oltre quattro decenni, l’Iran ha costruito una rete complessa e articolata che combina strumenti diversi. La dimensione militare si è manifestata nel sostegno a milizie e proxy, impiegati come deterrenza e proiezione esterna. Parallelamente, Teheran ha promosso rapporti di cooperazione selettivi con alcuni governi regionali più che vere e proprie alleanze formali e con attori non statali, sfruttando le affinità religiose e politiche, a questo si aggiunge un intenso lavoro di soft power, fatto di retorica ideologica, legami religiosi e capacità di fornire servizi sociali attraverso i propri alleati in territori contesi e situazioni conflittuali.
Hezbollah in Libano rappresenta il caso paradigmatico di questa strategia. Nato come movimento armato, si è progressivamente trasformato in attore politico e sociale, capace di radicarsi nella società libanese e di diventare elemento strutturale del sistema istituzionale. Per Teheran, Hezbollah è al tempo stesso avamposto strategico e simbolo della capacità di costruire un modello ibrido, militante e politico insieme.
Lo stesso schema è stato replicato in Iraq, dove l’Iran sostiene milizie sciite che garantiscono influenza diretta sulla vita politica del Paese. In Yemen, il sostegno agli Houthi (organizzazione armata che combatte il governo centrale e controlla una parte del Paese) ha aperto un fronte di attrito permanente con l’Arabia Saudita, con impatti significativi sugli equilibri del Golfo. La Siria ha costituito per oltre un decennio l’alleato regionale più rilevante: il supporto militare e logistico al regime di Bashar al-Assad, durante e dopo la guerra civile che ha infine portato alla sua caduta nel dicembre 2024, ha consentito a Teheran di mantenere un corridoio strategico verso il Mediterraneo e di garantire continuità ai rifornimenti per Hezbollah. Anche la relazione con Hamas, sebbene oscillante, mostra la capacità iraniana di andare oltre la sola dimensione confessionale sciita, proiettando la propria influenza sulla causa palestinese.
Confronto strutturale con Israele e Stati Uniti
Alla base di questa architettura vi è una contrapposizione fondamentale con Israele e Stati Uniti. Non si tratta di rivalità contingenti, ma di elementi identitari. Israele è percepito come un corpo estraneo, avamposto occidentale nel cuore del Medio Oriente; gli Stati Uniti incarnano il potere egemonico globale che l’Iran si propone di sfidare. Questa ostilità, lontana dall’essere episodica, rafforza la coesione interna e contribuisce a legittimare il regime, soprattutto nei momenti di difficoltà economica e politica. Pur non essendo condivisa in modo uniforme dalla popolazione che in parte guarda con pragmatismo alla necessità di aperture verso l’esterno, questa linea di contrapposizione resta un pilastro della narrativa ufficiale e uno strumento di mobilitazione politica.
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Negli ultimi anni Teheran ha cercato di ampliare questa opposizione in chiave regionale, costruendo un fronte che unisce paesi e movimenti eterogenei sotto la bandiera della resistenza. L’obiettivo strategico è duplice: da un lato, impedire il consolidamento di un asse israelo-arabo che isoli l’Iran nello scenario mediorientale; dall’altro, mantenere viva la propria immagine di potenza guida della “resistenza” islamica contro l’egemonia occidentale. La capacità di presentarsi come guida ideologica, più che come semplice potenza militare, resta uno dei principali strumenti di proiezione dell’Iran.
Fragilità interne e resilienza istituzionale
Se all’esterno Teheran ha consolidato la propria influenza, sul piano interno la Repubblica islamica ha dovuto affrontare sfide sempre più complesse. L’improvvisa morte del presidente Ebrahim Raisi a maggio 2024 ha rappresentato un momento di incertezza, che ha sollevato interrogativi sulla stabilità del sistema. Tuttavia, la centralità della Guida Suprema e l’assetto istituzionale concepito fin dall’origine hanno garantito continuità, limitando i rischi di vuoto politico.
Le tensioni restano comunque significative. L’economia iraniana è gravata dalle sanzioni internazionali e da una struttura interna poco competitiva. Le proteste popolari (soprattutto studentesche), cicliche negli ultimi 25 anni, testimoniano un crescente scollamento tra la società giovane, urbana e istruita e un sistema politico percepito come rigido e distante. Il divario generazionale e la domanda di riforme costituiscono fattori che incidono sulla resilienza del modello rivoluzionario, pur senza metterne in discussione, almeno nel breve termine, la tenuta complessiva.
L’evoluzione regionale
Il contesto regionale è stato modificato dall’ultimo atto della rivoluzione siriana, che ha portato dopo lunghi anni di guerra civile alla caduta di Assad e alla riduzione dell’influenza iraniana nel Paese. La Siria, per oltre un decennio, aveva rappresentato la chiave della strategia di Teheran: un alleato centrale e un corridoio per il sostegno a Hezbollah, oltre che un ponte con la Russia, Paese tradizionalmente molto vicino al regime di Damasco.
La fine di Assad ha interrotto questa dinamica, ridimensionando la possibilità di utilizzare il territorio siriano come base logistica. Questo mutamento evidenzia i limiti della “via delle armi” come principale strumento di influenza. I costi militari ed economici della proiezione esterna sono cresciuti, mentre la sostenibilità interna si è ridotta. Di fronte a questi vincoli, l’Iran si trova oggi costretto a bilanciare il radicalismo ideologico con un pragmatismo crescente, modulando i propri strumenti di influenza in funzione di un ambiente regionale meno favorevole.
Parallelamente, nell’ambito dell’accelerazione dei contrasti regionali, l’Iran ha subito attacchi diretti ai propri siti militari e nucleari da parte di Israele e Stati Uniti: tra giugno 2025, il sito di Fordow e successivamente quelli di Natanz e Isfahan sono stati colpiti, segnando una svolta nella proiezione militare occidentale nella regione.
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Allo stesso tempo, gli Accordi di Abramo, siglati a partire dal 2020 per normalizzare i rapporti tra Israele e diversi Stati arabi, stanno ridefinendo le alleanze regionali, rischiando di relegare Teheran ai margini di un nuovo Medio Oriente multipolare.
L’Iran continua a configurarsi come potenza ideologica. La sua forza non risiede tanto nella capacità militare convenzionale, quanto nella possibilità di mobilitare attori non statali, di offrire un’identità alternativa e di trasformare la resistenza in strumento di legittimazione politica. Tuttavia, la rivoluzione permanente non può più essere intesa solo come un orizzonte ideale: essa si intreccia con il realismo strategico e con le esigenze di sostenibilità interna. Il futuro della Repubblica islamica dipenderà dalla capacità di mantenere vivo il nucleo rivoluzionario, conciliandolo con i vincoli geopolitici ed economici.
Tra continuità e adattamento
In tal senso, una sfida decisiva sarà rapportarsi con una regione che è profondamente cambiata: gli Stati Uniti di Donald Trump hanno colpito militarmente il programma nucleare clandestino dell’Iran, Israele ha dimostrato di poter usare la forza militare non solo contro i proxy ma anche contro il loro mandante, e intanto resta il nodo dei rapporti con le monarchie arabe del Golfo che stanno ritagliandosi un ruolo più attivo rispetto al recente passato.
Ampliando ancora il ragionamento, non si può ignorare la questione nucleare: secondo l’IAEA, l’Iran possiede oggi più di 9.000 kg di uranio arricchito, di cui alcune centinaia di chilogrammi a livelli molto vicini a quelli per uso militare, riducendo drasticamente il tempo necessario per sviluppare un’arma. Sullo sfondo, il rapporto con un Israele più assertivo che mai è centrale: le operazioni israeliane recenti hanno mirato a siti nucleari, depositi di missili e centri di comando dell’IRGC, dimostrando la capacità di colpire con precisione e senza esitazioni. In risposta, l’Iran ha reagito con missili e droni, confermando il rischio costante di escalation.
È questa la dimensione pragmatica della politica estera di Teheran: ogni mossa va calibrata tra deterrenza, capacità militare reale e reazioni regionali, in un contesto dove la pressione di Stati Uniti, Israele e delle monarchie del Golfo si fa sempre più concreta. In questo equilibrio instabile si gioca la posizione dell’Iran in Medio Oriente: una potenza che resta al tempo stesso rivoluzionaria e pragmatica, ideologica e strategica, sospesa tra continuità e adattamento.