Le vie di Taiwan dopo il voto

“Tu sai guidare meglio di me”. Un video pubblicato poco prima delle elezioni taiwanesi del 13 gennaio mostra la presidente uscente Tsai Ing-wen al volante di un’automobile, affiancata dal nuovo candidato, ora presidente-eletto William Lai, e sul sedile posteriore la vicepresidente in pectore Hsiao Bi-khim. Lo scopo? Rassicurare gli elettori che una vittoria del ticket Lai-Hsiao non avrebbe comportato grandi cambiamenti, soprattutto nella gestione dei rapporti con la Cina. Obiettivo centrato: raccogliendo il testimone di Tsai, sabato scorso Lai ha reso il Partito Democratico Progressista (DPP) la prima formazione politica a mantenere il potere per tre mandati consecutivi sin dalle riforme che hanno introdotto la democrazia a Taiwan negli anni ‘90. Una vittoria che premia lo “status quo” nello Stretto – insieme agli spin doctor del DPP.

Elicotteri portano la bandiera taiwanese su Taipei

 

Molti sono i fattori ad aver inciso sull’esito del voto. Innanzitutto la rottura sul nascere di un’alleanza tra i due candidati dell’opposizione: il nazionalista del Kuomintang (KMT), Hou Yu-ih, e Ko We-je del Partito del Popolo (TPP), sbarcato in politica solo pochi anni fa. Con un’agenda “populista” molto focalizzata sull’economia e l’occupazione giovanile, Ko pare aver strappato potenziali voti al collega del KMT, che è invece è più forte tra la popolazione over 60, in virtù della sua visione conservatrice. Senza una dispersione delle preferenze dell’opposizione, forse Lai non avrebbe vinto tanto facilmente. Lo dimostrano recenti sondaggi, secondo i quali la maggioranza dell’opinione pubblica avrebbe preferito un pensionamento dei progressisti al governo, travolti nell’ultimo anno da numerosi scandali. Per non parlare della discutibile gestione dell’economia e del Covid, almeno nella fase finale della pandemia.

Ecco che i temi interni, troppo spesso sottovalutati dai media stranieri, hanno giocato la loro parte. Nondimeno il rapporto con Pechino – che rivendica l’isola come parte della Repubblica Popolare – continua a rappresentare una variabile rilevante nelle scelte dell’elettorato, soprattutto dopo l’aumento della pressione militare cinese in risposta alla visita di Nancy Pelosi a Taiwan dell’agosto 2022. Non siamo ai livelli del 2019, quando le proteste di Hong Kong ebbero un effetto determinante sul voto taiwanese, spingendolo in direzione anti-cinese. Ma l’invasione russa dell’Ucraina, rievocando le mire di Pechino su Taiwan, sembra aver esercitato un qualche impatto, sebbene più attenuato dalla lontananza geografica della minaccia.

Tutto ruota intorno allo status internazionale dell’isola, che nel 1971 è stata sostituita dalla Repubblica Popolare come “unico legittimo rappresentante della Cina” alle Nazioni Unite. La maggior parte della popolazione taiwanese non sostiene né l’unificazione con la Repubblica popolare né l’indipendenza formale, bensì lo status quo. Ovvero quell’indipendenza di fatto che permette a Taiwan di intrattenere scambi economici e rapporti con la comunità internazionale anche in assenza del riconoscimento della statualità.

Come preservare questa sottile ambiguità è il punto in cui si biforca la visione dei nazionalisti e dei progressisti. Lontani sono i tempi in cui il KMT di Chiang Kai-shek, sconfitto da Mao Zedong, aspirava addirittura a riprendersi la Cina continentale, usando Taiwan come base di partenza. Ugualmente nel fronte progressista le voci più radicali a favore del distacco da Pechino hanno perso ascolto. Oggi la postura dei due principali partiti è più sfumata rispetto al passato. Per parafrasare Nathan Batto, ricercatore presso l’Academia Sinica di Taipei, “il DPP è contro le politiche che potrebbero eventualmente portare all’unificazione”, mentre “il KMT è contro le politiche che potrebbero eventualmente portare all’indipendenza formale.”

 

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Ex indipendentista sfegatato, negli ultimi tempi Lai ha più volte rassicurato la popolazione di voler mantenere invariata la posizione internazionale dell’isola, confermando la linea moderata di Tsai. Ovvero quella di una riapertura dei contatti con la Repubblica Popolare senza dichiarazioni formali di indipendenza. Ma senza nemmeno riconoscere (come il KMT) il principio dell’“unica Cina”, che Pechino considera precondizione per una distensione tra le due sponde dello Stretto. “Sulla base della reciprocità e della dignità, sostituirò il contenimento [della Cina] con lo scambio e la conflittualità con il dialogo”, ha rassicurato Lai subito dopo lo spoglio.

Dialogo, certo. Ma anche deterrenza militare e diversificazione dei rapporti economici. Quindi, come da strategia Tsai, rafforzando i rapporti con i Paesi affini per ridurre la dipendenza dalla Cina, ancora primo partner commerciale dell’isola nonostante le ritorsioni tariffarie incrociate imposte negli ultimi anni.

Davanti alle intimidazioni di Pechino, non ha invece convinto la cosiddetta “terza via” del TPP. Tantomeno la proposta di riavvicinamento sotto la guida del KMT. Eppure i numeri parlano chiaro: seppure con oltre il 40% dei voti, quella di Lai non è stata una vittoria schiacciante. Lo dimostra il risultato delle elezioni parlamentari, svolte in contemporanea e terminate senza una maggioranza assoluta nello Yuan legislativo, per la prima volta dal 2004. Una situazione che, rompendo la tradizionale dicotomia tra DPP e KMT, renderà determinante il posizionamento del TPP, fautore di una linea “centrista” rispetto alle relazioni intra-stretto.

Su questa nuova simmetria interna si gioca praticamente tutto. Compreso il futuro dei rapporti con Pechino. Basti pensare che vent’anni fa, durante l’ultimo governo di minoranza del DPP, i nazionalisti bloccarono più volte l’approvazione del bilancio militare. Certo, erano altri tempi e non è detto che oggi invece i pesi e contrappesi delle due forze politiche più aperte al compromesso non favoriscano una politica intra-stretto più conciliante. Dopo le tensioni degli ultimi anni, una parte consistente della popolazione non disdegnerebbe una normalizzazione dei rapporti con il gigante della porta accanto. Non tanto per senso di appartenenza identitaria – due terzi dei taiwanesi non si considera cinese. Ma i sondaggi dicono che un 76% tra i più giovani accetterebbe volentieri un lavoro in Cina, per via delle somiglianze linguistiche e culturali. Pechino lo sa bene ed è su questo frangente che prova a fare leva con incentivi e politiche inclusive.

Per la leadership cinese, l’esito divisivo delle ultime elezioni parrebbe confermare che la strada intrapresa è ancora lunga ma non completamente sbagliata. Commentando a stretto giro la debole vittoria di Lai, l’Ufficio per gli affari taiwanesi ha dichiarato che “il DPP non rappresenta l’opinione prevalente dell’isola”. Con velato compiacimento, Pechino sembra tutto sommato apprezzare un risultato che le permette di salvare la faccia in casa e all’estero. Anche di provare a rilanciare i contatti intra-stretto. Se non con il nuovo presidente quantomeno con i deputati dell’opposizione più dialoganti. Cosa che peraltro sta già avvenendo, nonostante le barriere normative erette da Tsai Ing-wen per difendere la sicurezza nazionale.

Insomma, i tamburi di guerra possono attendere. Almeno per ora. Secondo Francesco Sisci, analista presso la Renmin University, difficilmente la Cina azzarderà mosse eclatanti “fintanto che non si definirà la chimica tra parlamento e presidente”. Con la recentissima rottura dei rapporti tra Taipei e Nauru, Pechino torna invece a puntare sulla cosiddetta “diplomazia dei dollari”: dal 2016 a oggi ben dieci Paesi hanno voltato le spalle a Taipei – pare in cambio di investimenti cinesi. Ma quello della Cina sembra perlopiù un gesto simbolico per mantenere il punto. Per il pressing militare invece c’è tempo fino al 20 maggio, quando si insedierà il nuovo presidente e le condizioni meteo renderanno più agevoli eventuali esercitazioni navali, come avvenuto dopo la visita di Pelosi del 2022. L’obiettivo della “riunificazione nazionale” resta “fermo come la roccia”, hanno ribadito le autorità cinesi a urne chiuse.

D’altronde per Pechino si profilano all’orizzonte segnali potenzialmente incoraggianti, come la possibile nomina del nazionalista Han Kuo-yu a presidente dello Yuan legislativo. Una figura che, trovandosi contestualmente alla guida della Fondazione di Taiwan per la Democrazia, potrebbe ridimensionare gli scambi tra l’isola e l’occidente in mancanza di relazioni ufficiali. Il condizionale è d’obbligo, però. Non è escluso infatti che, sulla terraferma, quei segnali siano interpretati con eccessivo ottimismo. D’altro canto, se quello del DPP è un successo effimero, va anche notato che il numero di voti ottenuto da Hou Yu-ih (33%) è stato inferiore a quello raccolto dal candidato nazionalista nel 2020 (38,61%). Segno di come col tempo il partito dell’”unica Cina” cominci a scontare la mancanza di un rinnovamento.

Puntare sulla strategia attendista ha un altro inconveniente: permette a Taipei di prepararsi a un’eventuale invasione militare – non auspicata ma mai esclusa dalle autorità cinesi. “La riunificazione con Taiwan sarà inevitabile”: Xi Jinping lo ha detto mille volte.

Un po’ per motivi familiari, un po’ per trascorsi professionali, il presidente cinese sembra avere particolarmente a cuore l’isola, che ha imparato a conoscere fin da quando servì nel partito del Fujian, la provincia cinese davanti allo Stretto. C’è chi dice persino voglia passare alla storia riuscendo nell’impresa fallita da Mao e Deng Xiaoping. La “grande rinascita nazionale” – il cosiddetto “sogno cinese” – resterebbe una missione incompiuta senza Taiwan. Volendo essere meno ottimisti e più realisti, la riconferma dei progressisti a Taipei in realtà allontana sempre di più, non avvicina, l’agognato traguardo. Occorre fare qualcosa. Cosa, però, non sembra saperlo nemmeno Xi.

 

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L’arma delle ritorsioni commerciali rischia di ampliare il divario con la popolazione taiwanese, che – come dicevamo – mal tollera l’ingerenza politica della Cina, ma apprezza il potenziale economico delle relazioni intra-stretto. Qualsiasi reazione scomposta finirebbe inoltre per intralciare il sofferto processo di appeasement con gli Stati Uniti. Solo pochi giorni fa il Ministero degli Esteri cinese ha ribadito che “Taiwan è la prima linea rossa da non superare nelle relazioni Cina-USA”. Ma se per Pechino l’isola è una questione storica e di sovranità nazionale, per Washington rappresenta un prezioso produttore di microchip, crocevia di traffici marittimi internazionali e – soprattutto – un alleato chiave per arginare la Repubblica Popolare nell’Indopacifico. Insomma, nessuna delle due parti pare disposta ad arretrare.

Dunque, cosa aspettarsi? Per Sisci, “ci sarà un arco di tranquillità di diversi mesi”. Ma forse più a ridosso delle elezioni americane di novembre le cose potrebbero complicarsi. A quel punto dipenderà anche dai segnali che arriveranno dagli Stati Uniti. Allora la tensione sull’isola potrebbe cominciare a salire.

A comporre il quadro concorre un altro fattore non indifferente. Pechino non può dimostrarsi troppo arrendevole; deve dare conto all’opinione pubblica nazionale. Quello della “riunificazione” è un tema molto sentito dai cinesi, cresciuti per decenni a pane e propaganda. Come in altre circostanze, la retorica nazionalista si sta già rivelando una lama a doppio taglio per le autorità comuniste. Nei giorni scorsi il web è letteralmente insorto alla notizia della vittoria di Lai. “Niente più ritardi, prima attacchiamo meglio è. Non la pensavo così in passato, ma sento che non ci resta molto tempo,” scrive su Weibo il popolare account Ziwu Xiashi.

 

 

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