A inizio 2021 l’impresa mineraria anglo-australiana Rio Tinto ha annunciato un investimento di 6 milioni di dollari in un impianto per la produzione di ossido di scandio, un elemento del gruppo delle terre rare, nella provincia canadese del Québec. Più che sul valore economico del progetto, le dichiarazioni delle parti coinvolte – all’investimento partecipa anche il governo locale – si sono concentrate sulla sua rilevanza strategica. Da Rio Tinto si sono infatti detti “orgogliosi di offrire la prima fornitura affidabile di ossido di scandio del Nord America”. Il ministro dell’Energia del Québec ha parlato di uno stabilimento che “ha il potenziale per diventare un importante fornitore di scandio al di fuori della Cina”.
UNA QUESTIONE DI SICUREZZA NAZIONALE. Attorno alle terre rare come lo scandio si è sviluppata una grande questione geopolitica legata al fatto che l’80% circa della loro offerta mondiale è controllata da un solo paese: la Cina, appunto. A preoccupare praticamente tutte le economie avanzate non è però il quasi-monopolio cinese in sé, quanto i rischi per la sicurezza nazionale connessi a questa dipendenza. Parlare di terre rare non equivale a parlare di giocattoli o di prodotti tessili (Pechino domina le esportazioni di entrambi): i diciassette metalli racchiusi nel termine vengono utilizzati in tutta una serie di settori strategici come la difesa, l’alta tecnologia e l’energia.
Proprio la transizione verso sistemi energetici più “puliti” causerà un aumento della richiesta di terre rare, necessarie alla produzione di turbine eoliche, veicoli elettrici e celle a combustibile. L’Unione Europea, che vuole azzerare le proprie emissioni nette entro il 2050, stima che per quella data la sua domanda di terre rare potrebbe aumentare di dieci volte. Attualmente viene soddisfatta per il 98% dalla Cina. Ma come farebbe Bruxelles a raggiungere gli obiettivi climatici, e a garantire la disponibilità di materie prime per le industrie, se Pechino dovesse un giorno sospendere le esportazioni?
Dall’altro lato dell’oceano Atlantico, gli Stati Uniti di Joe Biden hanno target di decarbonizzazione simili e timori di vulnerabilità anche maggiori. Il 24 febbraio – un mese e dieci giorni dopo l’annuncio di Rio Tinto in Canada – il Presidente ha firmato un ordine esecutivo per la resilienza delle catene di approvvigionamento legate ai prodotti fondamentali per l’economia e la sicurezza americana: nel testo si parla di dispositivi di protezione individuale, di semiconduttori, di batterie per le auto elettriche e di “minerali critici”, incluse le terre rare.
L’obiettivo dell’amministrazione Biden è diminuire la dipendenza degli Stati Uniti da quei fornitori esteri potenzialmente ostili – innanzitutto la Cina – che potrebbero impugnare la loro dominanza su certe filiere come un’arma geopolitica e bloccare le esportazioni per colpire i paesi rivali. In termini generali, la precedente amministrazione di Donald Trump voleva la stessa cosa: rafforzare le catene del valore più critiche, ridurre l’esposizione al pericolo di azioni cinesi, riportare la produzione manifatturiera a casa. In America il discorso sul reshoring è in realtà vecchio di anni ma la sua attuazione, al di là dei desideri politici, è stata finora limitata.
Ristrutturare le supply chain è un processo complicato, che richiede tempo, spese, audacia (le aziende potrebbero, almeno inizialmente, perdere in competitività), organizzazione ma anche volontà condivise. Il riassetto commerciale-strategico che Biden ha in mente per le filiere della tecnologia – chip e altri componenti cruciali –, in maniera da renderle il più possibile indipendenti da Pechino, passa per il coinvolgimento dei partner asiatici come Taiwan, Giappone e Corea del Sud. Per le filiere legate alle nuove fonti energetiche, invece, sarà soprattutto l’Australia a giocare un ruolo chiave, potendo esibire importanti riserve di terre rare.
IL RUOLO DEL NORDAMERICA. Ad aprile del 2020 l’esperto di geopolitica Parag Khanna, provando ad immaginare quale direzione prenderà il mondo dopo la crisi del coronavirus, scriveva che “la regionalizzazione sarà la nuova globalizzazione”: che la globalizzazione, cioè, si spezzetterà in regioni geo-economiche meno ampie, in modo da avere supply chain più corte e più vicine ai consumatori ultimi, arginando il rischio di blocchi alle forniture.
Gli Stati Uniti partono avvantaggiati in un contesto di questo tipo: il Nordamerica di cui rappresentano un terzo – ci sono poi Canada e Messico – è infatti una regione profondamente integrata, di cui proprio gli Stati Uniti sono il perno insostituibile. Una realtà testimoniata dal trattato di libero scambio USMCA (il successore del NAFTA, siglato nel gennaio 2020), dalle cifre del commercio tra i tre paesi (oltre mille miliardi di dollari) e dall’industria automobilistica: alcune parti che compongono i veicoli passano da una parte all’altra delle frontiere statunitense, messicana e canadese fino ad otto volte prima di venire assemblate nella loro forma finale.
Non è allora un caso se i primi incontri (per quanto virtuali) di Biden con dei capi di Stato stranieri siano stati con il primo ministro del Canada Justin Trudeau e con il presidente del Messico Andrés Manuel López Obrador. Più che ingraziarsi i nemici, a Washington conviene tenersi stretti soprattutto gli amici, perché il Nordamerica può contribuire in maniera determinante alla resilienza di alcune filiere critiche e al successo della sfida manifatturiera alla Cina. I comunicati stampa successivi alle videochiamate con Trudeau e López Obrador menzionano entrambi la volontà di lavorare al rafforzamento delle supply chain.
UNA FILIERA CHE PRENDE FORMA. Con Ottawa il coordinamento strategico sarà incentrato sulle materie prime necessarie alla nuova industria della sostenibilità. I due vicini dicono di voler essere “leader globali in tutti gli aspetti legati alla produzione e allo sviluppo di batterie” per i veicoli elettrici e lo stoccaggio di energia rinnovabile. Al momento la filiera è controllata da Pechino. Ma c’è un impegno comune a far avanzare il piano d’azione per i minerali critici del gennaio 2020. E, soprattutto, c’è una catena del valore nordamericana che sta prendendo forma.
L’impianto di ossido di scandio in Québec annunciato da Rio Tinto è allora significativo: perché contribuirà a decentrare la produzione di questo elemento, erodendo l’esclusiva asiatica e russa; e perché offrirà forniture sicure e sostanziose alle aziende statunitensi della difesa, delle telecomunicazioni e dell’energia.
Un grande consumatore di scandio è Bloom Energy, produttore californiano di celle a combustibile ad ossido solido, una tecnologia che consente di generare elettricità. In marzo Rio Tinto ha peraltro pubblicato un comunicato su un ulteriore stabilimento – che stavolta sorgerà negli Stati Uniti – per il recupero di un altro minerale critico: il tellurio. Il tellurio va a formare il tellururo di cadmio, un semiconduttore utilizzato nella produzione di pannelli solari a film sottile. La disponibilità di una “fonte domestica di un minerale […] essenziale nella lotta contro il cambiamento climatico” è stata accolta positivamente da First Solar, società americana che realizza pannelli.
A dimostrare l’emersione di una supply chain energetica tra Canada e Stati Uniti c’è anche l’accordo tra Energy Fuels (americana) e Neo Performance Materials (canadese) sulla monazite, un minerale che contiene le terre rare necessarie alla produzione di magneti al neodimio, fondamentali per le automobili elettriche. Energy Fuels fornirà i carbonati misti di terre rare a Neo, che provvederà alla loro separazione in ossidi nella sua struttura in Estonia.
Circa l’80% delle importazioni statunitensi di terre rare, comunque, arrivano dalla Cina. Ma le riserve dell’Alberta, nel Canada occidentale, potrebbero aiutare a ridurre questa cifra. Il vero nodo da sciogliere per Washington non riguarda tuttavia il prelievo dei minerali dal sottosuolo, ma la loro raffinazione: è qui che si fa davvero sentire il monopolio cinese. Solo per fare un esempio, la Cina è attualmente l’unico paese a lavorare la monazite per ricavare terre rare.
LA BATTAGLIA DEL LITIO. Oltre alle terre rare, un metallo cruciale per la mobilità elettrica e per la transizione energetica è il litio. Serve a creare – come il nome suggerisce – le batterie agli ioni di litio, la tecnologia più diffusa e controllata, anche questa, per quasi il 70% da Pechino. Le aziende statunitensi si stanno muovendo per aumentare la capacità produttiva interna delle batterie. Washington può sostenerle attraverso l’impostazione di una filiera del litio regionale, pescando a nord (dalla provincia canadese dell’Alberta) e a sud (dallo stato messicano di Sonora). La compagnia mineraria canadese E3 Metals sostiene che la formazione Leducunità geologica nel centro dell’Alberta, possa offrire ventimila tonnellate di idrossido di litio all’anno, per vent’anni. Per ora il Messico non produce litio, ma un deposito nel Sonora potrebbe contenere 4,5 milioni di tonnellate di carbonato di litio. Il progetto, il cui successo è legato però ai costi di estrazione, è a co-partecipazione cinese.
Ma a rovinare i piani di interconnessione della Casa Bianca è l’aria di nazionalismo che tira a Città del Messico. Il presidente López Obrador vuole infatti riportare il settore energetico sotto il controllo dello stato, ridando centralità alle aziende pubbliche del petrolio e dell’elettricità. Un senatore del suo partito ha presentato una proposta di riforma costituzionale per nazionalizzare le riserve di litio e cavalcare il boom della domanda. Un contesto di questo tipo non è di aiuto agli investimenti: e infatti Tesla, il produttore di auto elettriche più importante al mondo, ha rinunciato ad aprire in Messico uno stabilimento per il suo pick-up Cybertruck, optando per il Texas.
Rispetto al Canada, il Messico è meno interessato a promuovere l’integrazione nordamericana e maggiormente ripiegato su sé stesso. Eppure avrebbe tanto da offrire al piano di Biden per la riorganizzazione delle filiere, sia quelle della mobilità elettrica (la casa automobilistica Ford già produce qui il suo SUV elettrico Mustang Mach-E), sia quelle della salute. Washington dipende da Pechino per il 90% dei prodotti medicali. Il Messico non è soltanto il quinto maggiore esportatore al mondo di dispositivi critici per la gestione dell’epidemia di coronavirus, come occhiali protettivi, saturimetri e mascherine; è anche geograficamente prossimo agli Stati Uniti.
La cooperazione bilaterale può allora partire proprio da qui: Città del Messico potrebbe iniziare a produrre su larga scala quelle mascherine N95 che gli americani hanno difficoltà a reperire.