La transizione energetica – e la sua geopolitica – vista dall’amministrazione Biden

Donald Trump non ha mai accettato l’idea di una transizione energetica verso le fonti rinnovabili. Aveva promesso al contrario di riportare l’industria del carbone negli Stati Uniti, elaborato una visione di «dominanza energetica» in relazione ai soli combustibili fossili e prima di lasciare la Casa Bianca ha accelerato la vendita dei contratti per l’estrazione di petrolio e gas nell’Arctic National Wildlife Refuge, la grande area protetta in Alaska. Joe Biden ha invece piani completamente diversi: vuole decarbonizzare il settore americano dell’energia elettrica entro il 2035 e portare il paese alle zero emissioni nette entro il 2050. Il distacco dal greggio sarà inevitabile.

Joe Biden alla Casa Bianca

L’ex presidente uscente e quello nuovo sono distanti in politica energetica ma concordano su una cosa: la necessità di contrastare l’ascesa della Cina, in particolare sulla tecnologia. Ecco perché l’amministrazione Biden proseguirà – con modi e toni ancora da vedere – la “guerra” a Huawei sul 5G e manterrà il grosso delle restrizioni all’accesso ai semiconduttori.

Ma nel mirino di Washington non ci sono solo le tecnologie cinesi per le telecomunicazioni. Gli Stati Uniti temono che la Cina possa espandere la propria influenza all’estero anche attraverso quelle per le rinnovabili e per la mobilità sostenibile: la transizione energetica e la “elettrificazione” delle società potrebbero infatti favorire Pechino e consegnarle ulteriore capitale geopolitico da spendere nel mondo, visto che il paese è già il maggiore produttore di pannelli solari, turbine eoliche e batterie agli ioni di litio, oltre ad essere il primo mercato per le automobili elettriche.

Questa preoccupazione, già presente con Trump, lo resterà certamente nel team di Biden, visti gli impegni di breve-medio periodo presi dai governi per l’aumento della quota delle rinnovabili nei mix energetici e per l’elettrificazione del parco veicoli. Il tutto in vista del raggiungimento della neutralità carbonica entro il 2050. Anche la Cina si è data lo stesso obiettivo, ma fissando il termine ultimo al 2060.

 

LE MOSSE DELL’AMMINISTRAZIONE TRUMP. Durante la conferenza CERAWeek di fine ottobre il Segretario all’Energia Dan Brouillette aveva rilasciato alcuni commenti notevoli sull’India, definendola tra le altre cose «perfettamente posizionata come potenziale produttrice» di celle fotovoltaiche perovskitiche: una tecnologia che ha attirato molta attenzione per la sua efficienza – prevede l’utilizzo di un diverso materiale assorbente rispetto alle celle “classiche”, al silicio – e che gli Stati Uniti stanno studiando, ma che non potrà affermarsi finché i costi di produzione non si abbasseranno. Le dichiarazioni di Brouillette sono interessanti perché segnalano l’interesse di Washington a “spezzare” la dipendenza dell’India dalle importazioni cinesi di celle e moduli fotovoltaici: una dipendenza che già supera l’80% e che potrebbe crescere ancora, considerata l’intenzione di Nuova Delhi di portare la propria capacità rinnovabile da 134 a 220 gigawatt entro il 2022.

Non è l’unico esempio. L’amministrazione Trump ha fatto pressioni sul Regno Unito perché non stringesse accordi con la Cina sull’energia nucleare – Londra punta alle zero emissioni nette in trent’anni – e ha sostenuto il progetto di un consorzio statunitense per la riapertura della centrale di Wylfa (in Galles) con lo scopo di promuovere l’esportazione di tecnologie nucleari americane e marginalizzare l’influenza delle compagnie cinesi. O, ancora, gli Stati Uniti stanno lavorando ad un’alleanza con il Giappone, l’Australia e i dieci membri dell’ASEAN per la commercializzazione di tecnologie per la cattura e lo stoccaggio del carbonio – fondamentali per raggiungere gli obiettivi di net zero – nel Sud-est asiatico, una regione in cui si giocano molte delle partite dello scontro globale con Pechino.

Un impianto per lo stoccaggio del carbonio in Vietnam

 

BIDEN E LA DIPLOMAZIA CLIMATICA. In un articolo pubblicato quasi un anno fa sulla rivista Foreign Affairs e che può essere considerato un manifesto della sua politica estera, Joe Biden ha scritto chiaramente che gli Stati Uniti devono essere duri con la Cina, ma anche che devono cooperare con Pechino in quelle aree in cui c’è convergenza di interessi, come il contrasto ai cambiamenti climatici.

La nomina dell’ex-segretario di stato John Kerry a inviato speciale per il clima – una carica peraltro inedita – lascia immaginare che la questione ambientale sarà al centro dello sforzo diplomatico dell’amministrazione Biden, che non si esaurirà con il rientro simbolico nell’accordo di Parigi. Washington e Pechino – rispettivamente i secondi e i primi emettitori di gas serra del mondo – dovranno collaborare attivamente per garantire la riduzione delle emissioni dentro e fuori i rispettivi territori. Allo stesso tempo, però, i due paesi finiranno per scontrarsi sulle tecnologie per le energie “pulite”.

 

DAI PETROSTATI AGLI ELETTROSTATI. La priorità geopolitica degli Stati Uniti è impedire l’ascesa di una potenza rivale in qualsiasi area del pianeta. Quello sfidante, la Cina, è emerso ormai da tempo e l’America sta agendo per contenerne le ambizioni globali, specie per quanto riguarda le reti digitali di nuova generazione. Se è vero che controllare le connessioni (anche Internet) significa un po’ controllare il mondo, allora lo stesso ragionamento è valido per l’energia: i paesi che hanno la capacità di aprire o chiudere i rubinetti dell’approvvigionamento energetico concentrano nelle loro mani un potere enorme.

La transizione dalle fonti fossili a quelle rinnovabili non si ripercuoterà soltanto sulle economie, sui sistemi energetici e sull’ambiente, ma avrà anche profonde implicazioni geopolitiche. Secondo l’IRENA nei prossimi trent’anni l’elettricità, visto il maggiore utilizzo nei trasporti e nel riscaldamento, passerà dal soddisfare il 20% del fabbisogno energetico mondiale al 50%. La decarbonizzazione comporterà dunque l’“elettrificazione” delle società e di conseguenza un progressivo trasferimento di influenza dai “petrostati” agli “elettrostati”, ovvero quei paesi in grado di produrre ed esportare grandi quantità di energia elettrica pulita.

 

DIPENDERE DALLA CINA. Questo passaggio potrebbe avvantaggiare la Cina, che produce quasi i tre quarti dei moduli fotovoltaici di tutto il mondo, il 45% delle turbine eoliche e il 69% delle batterie agli ioni di litio necessarie per la mobilità elettrica e per l’immagazzinamento dell’energia. Le nazioni e le aziende che vorranno aumentare la propria capacità rinnovabile installata finiranno con molta probabilità a rifornirsi da Pechino.

Chi produce i pannelli solari

 

Si tratta però di una dipendenza “leggera”, che non garantirebbe alla Cina la stessa leva geopolitica posseduta in passato dai produttori petroliferi mediorientali: bloccare l’esportazione di pannelli solari non è come interrompere le forniture di greggio, come ha notato anche Jason Bordoff su Foreign Policy. Se non fosse che la Repubblica popolare domina non soltanto la manifattura delle tecnologie per le rinnovabili ma l’intera filiera, fin dalle materie prime. Come il litio e il cobalto necessari per le batterie oppure le terre rare, presenti nei dispositivi tecnologici ma anche nelle turbine eoliche e nei motori per le auto elettriche. Tra produzione domestica e investimenti nelle miniere all’estero, la Cina controlla oltre il 90% del mercato globale delle terre rare.

Biden considera il cambiamento climatico un tema di sicurezza nazionale, ma anche la transizione energetica lo è: e se gli Stati Uniti non costruiranno una filiera “fidata” – coinvolgendo gli alleati ma puntando anche sulla produzione domestica –, corrono il rischio che Pechino li tagli fuori dalle catene di approvvigionamento. Sul sito della campagna Biden si legge appunto che né gli Stati Uniti né i suoi partner «dovrebbero essere dipendenti per le forniture fondamentali da paesi come la Cina e la Russia» e che «l’America ha bisogno di una filiera domestica più forte e resiliente in vari settori, includendo l’energia e le tecnologie per la resilienza delle reti elettriche». Queste ultime, in particolare, si faranno più interconnesse e digitali ma anche più esposte ai cyberattacchi, e dovranno essere in grado di gestire l’intermittenza delle fonti rinnovabili preservando la continuità del servizio.

La Segretaria all’Energia nominata da Biden, Jennifer Granholm, aveva detto già anni fa che il passaggio ad economie a basse emissioni di carbonio avrebbe creato una domanda globale di «prodotti puliti» che gli Stati Uniti dovranno essere in grado di soddisfare. Altrimenti i consumatori si rivolgeranno altrove: in Europa, oppure in Cina.

Jennifer Granholm, alla guida delle politiche energetiche dell’amministrazione Biden

 

La società di consulenza Eurasia Group, fondata da Ian Bremmer, immagina proprio una nuova “corsa” tra Washington e Pechino, incentrata stavolta sulle tecnologie per le energie pulite, e una “biforcazione” delle relative filiere che subiranno pressioni simili a quelle che hanno riguardato la componentistica per il 5G.

 

LA GUERRA DEI NEV. Dopo quella a Huawei, la nuova guerra tecnologica tra America e Cina potrebbe vertere anche sui “veicoli a nuove energie” (NEV), termine che include le automobili a batterie, le ibride plug-in e quelle a celle a combustibile. Il settore cinese è cresciuto molto e i produttori come NIO e BYD si sono fatti notare. Non è quindi da escludere, per il futuro, una competizione tra Washington e Pechino sull’export di auto elettriche, che entro il 2030 dovrebbero rappresentare un terzo delle nuove auto vendute a livello mondiale.

Al momento, però, le esportazioni cinesi di veicoli a nuove energie non hanno una quota rilevante (l’1,7% del totale nel 2019), né le aziende nazionali hanno la stessa attrattività della californiana Tesla. Lo scontro è rimandato.

 

 

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