Il 2011 si sta rivelando un anno di svolta per la politica spagnola. Da una parte, i giovani indignados hanno invaso e continuano a invadere la scena pubblica del paese, richiamandosi direttamente alle dimostrazioni a cui i loro coetanei avevano dato vita sulla sponda meridionale del Mediterraneo, e accusando le istituzioni finanziarie internazionali di essere all’origine della crisi e la politica nazionale di essere inetta e corrotta.
Dall’altra, le elezioni amministrative di maggio hanno quasi cancellato dalla mappa politica i socialisti di José Luis Zapatero, che governano la Spagna dal 2004: il partito del premier, il Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE), perde il controllo di tutte le roccaforti, sia a livello regionale che cittadino. Il Partido Popular (PP) di Mariano Rajoy vede spalancarsi le porte del governo – le elezioni politiche previste per l’anno prossimo sono state anticipate a novembre.
Cosa ha prodotto questa svolta? Quali conseguenze potrà avere sulla situazione politica di un paese che è comunque un membro importante della eurozona? Fino allo scoppio della crisi, la Spagna ha vissuto un quindicennio di crescita economica ininterrotta, che tra il 2000 e il 2007 ha galoppato al doppio della media europea. Un poderoso piano di investimenti in infrastrutture, reso possibile dagli attivi di bilancio e da un utilizzo sapiente dei fondi europei (la Spagna ha ricevuto da Bruxelles una cifra equivalente a tre piani Marshall) ha consentito di ridurre il divario tra le regioni più povere e quelle più ricche.
La situazione propiziava un generale clima di ottimismo e di apertura, per cui nella politica spagnola non hanno trovato spazio quei toni populisti che da circa un ventennio si diffondono in altri paesi del vecchio continente. Il meccanismo della legge elettorale, che blinda il bipartitismo, ha contribuito a mantenere il dibattito nell’ambito della dialettica tra i due grandi partiti; le polemiche più accese sono così rimaste confinate nell’arena del potere locale, soprattutto sul terreno della spartizione delle competenze tra stato e regioni – che nell’ordinamento spagnolo sono asimmetriche e negoziabili.
Tuttavia, la recessione ha picchiato duro proprio sui cardini del sistema Spagna, cioè il mattone e il credito. Il settore immobiliare è imploso, dopo essere cresciuto per anni al di sopra della domanda, alimentato da un facile accesso al finanziamento bancario. La conseguente stretta creditizia ha finito per strozzare un’economia in cui, nonostante la crescita, gli stipendi erano rimasti stabili e l’espansione del potere d’acquisto individuale si era basata in gran parte sul generoso credito al consumo.
Questa brusca frenata ha avuto effetti deleteri sull’occupazione, perché i posti creati negli anni del boom si concentravano nei settori a manodopera intensiva (a ridotto valore aggiunto) oppure erano impieghi temporali facili da tagliare: nel primo trimestre 2011 si è quindi toccato il clamoroso tetto del 21,3% di senza lavoro (soprattutto donne, giovani, immigrati), contro l’8% registrato a fine 2007. Di conseguenza, stranieri disoccupati e giovani laureati hanno cominciato a lasciare il paese.
Cifre di tale entità hanno immediatamente pesato sul bilancio pubblico. Il governo, dopo un’iniziale sottovalutazione dovuta al tentativo di salvaguardare il clima di ottimismo tanto favorevole alle sue politiche, si è trovato poi nell’obbligo di intervenire duramente già nella primavera del 2010, dietro la spinta insistente della BCE, ma soprattutto da un deficit previsto oltre l’11% e da uno spread sui titoli di stato tedeschi più ampio rispetto a quello italiano.
Gli stipendi pubblici sono stati tagliati del 5%, l’età pensionabile portata a 67 anni, l’IVA aumentata di due punti; sono stati poi tagliati gli investimenti, i trasferimenti ai ministeri e agli enti locali, e finanziato il debito delle banche. La tassazione societaria è rimasta invariata, mentre il licenziamento è stato facilitato. Queste scelte hanno ammorbidito la pressione dei mercati, ma il forte scontento che ne è seguito ha portato una parte consistente dell’elettorato progressista a migrare nell’area del non-voto.
D’altra parte, l’emersione di una serie di gravi scandali legati alla corruzione e la sensazione che la classe politica non facesse abbastanza per isolare i colpevoli (più di un centinaio di imputati per corruzione sono stati candidati alle ultime amministrative) ha diffuso in Spagna una profonda ondata di sfiducia nei partiti. L’opinione pubblica ha anche scoperto che negli anni della crescita non tutti i soldi pubblici sono stati spesi per il bene del paese: la linea ad alta velocità Toledo-Cuenca-Albacete, che contava solo nove passeggeri al giorno sugli oltre duemila previsti, è appena stata soppressa.
Al mutare del clima politico, i due principali partiti hanno sentito la necessità di rimodulare il contenuto e la forma dei propri messaggi agli elettori. Il cambiamento, paradossalmente, ha interessato in minor misura l’opposizione: il leader popolare Rajoy sta adottando un profilo critico (ad esempio facendosi fotografare di fronte alle file dei disoccupati davanti alle agenzie del lavoro) ma anche moderato e attendista, per non spaventare troppo l’elettorato di sinistra deluso dai socialisti. Un ulteriore programma di tagli e privatizzazioni appare comunque inevitabile.
Il partito socialista ha impresso una decisa sterzata al suo linguaggio. Il prossimo candidato premier, l’ex ministro degli Interni Alfredo Rubalcaba, deve riconquistare i circa due milioni di elettori passati all’astensione, a cominciare da quelli delle zone operaie della Catalogna, decisivi per la vittoria del 2008; e deve riuscire in qualche modo a intercettare il malessere della generazione di ventenni e trentenni, formati ma con scarsissime prospettive di inserimento lavorativo, che ha dato vita al movimento degli indignados.
Tuttavia, non sembra che la strada intrapresa dal PSOE passi per un’autocritica o almeno per un ripensamento delle scelte che sta duramente pagando dal punto di vista elettorale. Al contrario, la nuova “narrazione” del partito vuole attribuire le responsabilità della triste situazione economica attuale alle imposizioni e ai ricatti che la Spagna avrebbe subito da parte della finanza internazionale, delle agenzie di rating, della BCE e dei paesi più ricchi dell’eurozona. Insomma, è colpa dei potenti.
Il premier Zapatero, nei mesi scorsi sempre pronto a elogiare l’intervento di garanzia delle istituzioni europee e la solidità della contabilità tedesca, ha da poco invocato maggiore “responsabilità” da parte dei paesi “ricchi” nell’aiutare quelli indebitati a uscire dalla crisi: un messaggio inedito (e diretto soprattutto ad Angela Merkel) che avrà fatto sicuramente piacere alle decine di migliaia di indignados che nel weekend hanno marciato su Madrid da tutti gli angoli di Spagna. Il candidato Rubalcaba ha già inserito la riforma della legge elettorale – una delle principali rivendicazioni dei giovani che in piazza cantano “non li votare, non ci rappresentano” – nel proprio programma di governo, sebbene questa dovrebbe poi passare per un’improbabile modifica costituzionale.
Cresce la sensazione che il populismo, rimasto fuori dalla porta della politica spagnola grazie a tanti anni di crescita economica e a un sistema bipartitico stabile ed equilibrato, stia per rientrare dalla finestra: la causa è l’esplodere di problemi sociali non adeguatamente affrontati e della crisi di legittimità di una classe politica insufficientemente portata all’assunzione di responsabilità. E ciò accade proprio influenzando la politica di uno dei partiti finora più coerenti nel proprio sostegno all’integrazione europea: un tratto critico che verrà certamente sfumato quando il PSOE si troverà all’opposizione e sarà più di oggi nella condizione di poter recuperare consensi. La situazione dei Socialisti segnala comunque un rischio per la stabilità di un paese che dovrà in ogni caso rinunciare a una parte non marginale del benessere accumulato negli ultimi anni. Ed è una novità che le cancellerie del vecchio continente dovranno tenere in seria considerazione.