Nella politica internazionale, in termini tanto di accavallarsi di avvenimenti concreti quanto di interpretazioni teoriche, è sempre più ricorrente l’immagine del ritorno degli imperi. Mescolando un po’ di Robert Gilpin e Kenneth Walz, potremmo dire che alla sempre incipiente e mai davvero compiuta multipolarizzazione dell’ordine internazionale e al precario equilibrio che ne deriverebbe, si starebbe accompagnando il ritorno di una logica imperiale, la quale – al netto di una serie di pur rilevanti considerazioni di ordine etico, giuridico e politico – sarebbe spinta proprio dalla necessità/opportunità/volontà di riorganizzare lo spazio politico globale, conferendogli così un ordine e un equilibrio più stabili e prevedibili.
In estrema sintesi, una simile impostazione postula che a un movimento verso la complessità e la diversificazione del numero, della qualità e della natura degli attori – oltre che al repentino sommarsi di nuove sfide alle più vecchie e conosciute della politica internazionale – corrisponderebbe un moto, reciproco e opposto, verso la riduzione degli attori decisivi e la semplificazione della loro logica di comportamento.
UN “MONDO NUOVO” FRAMMENTATO. Non può infatti sfuggire che la suggestione (neo?) imperiale prende corpo e slancio mentre gli individui e le comunità che compongono la popolazione del pianeta – estremamente diversificate per culture, qualità della vita, rapporto tra aspirazioni e mezzi necessari al loro perseguimento e protezione giuridica effettiva dei diritti umani, civili e politici – affrontano sfide inedite per la loro qualità o per la magnitudine con cui si manifestano. Basti pensare alle pandemie, al cambiamento climatico o alla pressione migratoria.
Nel frattempo, l’accelerazione tecnologica di questo ultimo decennio sta trasformando la stessa percezione del reale e delle sue plausibili evoluzioni, rendendo sempre più evidente la convivenza di differenti “realtà” – nessuna delle quali mai totalmente verificabile e sperimentabile come immune da elementi di virtualità – dove l’azione dei social media e dell’intelligenza artificiale gioca un ruolo sempre maggiore, difficile da circoscrivere. Soprattutto, però, le Big Tech mostrano che la nuova fase della rivoluzione dell’informazione non elimina la dimensione territoriale del potere ma semmai la riconfigura e la gerarchizza ulteriormente. Il loro modello di business contribuisce fortemente al processo di permeabilizzazione dei confini e di dematerializzazione dell’economia cui abbiamo assistito durante tutta l’era della globalizzazione. Allo stesso tempo, mentre la loro relazione con il potere politico di Washington si fa sempre più organica, nel tentativo di penetrare i territori dei mercati target eludendo la tassazione e violando le norme a tutela della concorrenza, la scarsità relativa e la rilevanza strategica delle materie prime necessarie ai processi di produzione (in primis le cosiddette terre rare) riportano al centro il tema del territorio e del suo controllo.
Questi tratti del “mondo nuovo” richiederebbero non solo uno sforzo e una volontà decisa di cooperazione tra gli attori del sistema internazionale, ma anche la disponibilità di strumenti idonei a garantirne una forma più efficace di governance, ancorata intorno ad alcuni – pochi – principi condivisi. Sarebbe necessario, cioè – per dirla con Hedley Bull – il rafforzamento o la costituzione di una “società internazionale”: esattamente quanto di più lontano dallo spirito dei nostri tempi, mentre i pilastri dell’ordine internazionale liberale – ovvero la massima approssimazione a tale traguardo – vengono scossi tanto dall’esterno quanto dall’interno.
LO SGRETOLAMENTO DELL’ORDINE LIBERALE. Se analizziamo gli accadimenti dell’ultimo lustro assistiamo a comportamenti che mettono in mora i principi cardine sui quali l’ordine postbellico riposava, compresi quelli ritenuti inviolabili ben prima che la sua natura liberale si affermasse.
Dal febbraio 2022 la Federazione Russa – un membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – rivendica e attua con sistematica brutalità il progetto di modificare il confine internazionale con l’Ucraina, per riportarla con la forza dentro la sua pretesa sfera di influenza.
A Gaza, nella convinzione che la volontà di perseguire i propri fini non trovi altro limite che nella propria potenza relativa, da quasi due anni Israele sta combattendo una guerra atroce, nel totale disprezzo dei diritti altrui, delle leggi internazionali e delle istituzioni che ne sono custodi, garanti e interpreti, con modalità talmente inumane da averle fatto perdere ogni caratteristica di legittima e proporzionata reazione ai barbari eventi del 7 ottobre che ne stanno all’origine.
L’amministrazione Trump, infine, ha scatenato una guerra commerciale contro tutti, applicando dazi unilaterali nei confronti di ogni partner commerciale, con effetti potenzialmente distruttivi per l’ordine economico globale. Non è in discussione il diritto di uno Stato sovrano, in sé pienamente legittimo, di imporre tariffe nei confronti di specifici flussi di merci e servizi provenienti da questo o quel singolo partner, quanto piuttosto la “weaponizzazione” del commercio internazionale, che al fondo rivela il divorzio dall’idea, genuinamente liberale, che l’incremento del commercio stesso rappresenti un poderoso incentivo alla cooperazione e un altrettanto poderoso disincentivo al conflitto. La politica trumpiana, per tacere dei profili di dubbia costituzionalità con cui è attuata, costituisce un vero e proprio siluro lanciato contro il vascello della globalizzazione che, pur con tutti i suoi limiti e le sue derive, ha rappresentato il cuore economico dell’edificazione dell’ordine liberale.
Il mondo dominato dagli imperi che sembra annunciarsi è, sostanzialmente, un mondo dominato dalla pura forza e mosso dal perseguimento esclusivo dei propri interessi egoistici e da istinti predatori, regolato soltanto dal principio dell’equilibrio e dal riconoscimento delle rispettive sfere di influenza. Un mondo che appare semplice nella sua logica brutale ed efficace nel perseguimento di un ordine stabile solo perché “legge” la realtà semplificandola rozzamente, ovvero riducendo l’intera gamma delle relazioni sociali esperibili da individui e comunità a meri rapporti di forza, ed è oltretutto incapace di spiegare come, in una realtà ricondotta sistematicamente a un gioco a somma zero tra interessi in perenne competizione, sia comunque perseguibile la loro composizione o addirittura un interesse sistemico o collettivo.
Al di là delle debolezze teoriche di una simile impostazione, occorre forse ricordare che l’idea della stabilità di un ordine internazionale governato informalmente da pochi grandi attori guidati solo dalla logica di potenza e ognuno in grado di dominare le proprie sfere di influenza l’abbiamo già sperimentata in Europa, fino alle sue più distruttive conseguenze sfociate nei due conflitti mondiali della prima metà del Novecento.
L’UNIONE EUROPEA, ANTITESI DELL’IMPERIALISMO. Tutto evolve, o quanto meno muta, ma se esistono trasformazioni che possono cambiare anche in profondità la natura di chi le sta subendo, occorre tenere sempre presente che non tutte le mutazioni sono disponibili per qualunque organismo. L’Unione Europea nasce con il preciso scopo di porre rimedio ai disastri dell’imperialismo europeo che al suo apice, nel corso di due conflitti mondiali, aveva portato l’intero continente a un passo dall’autodistruzione.
Il fenomeno dell’imperialismo ha accompagnato e trasformato la storia del vecchio continente perlomeno a partire dalla fine del XV secolo, subendo evoluzioni e adattamenti nel corso dei cinque secoli successivi. Per più di un aspetto, la costruzione concreta della sovranità degli Stati europei si è intrecciata alla dinamica imperialista, mettendo a disposizione delle “madrepatrie metropolitane”, come venivano pudicamente definite tra Otto e Novecento, le risorse prelevate con la forza nelle periferie coloniali, allo scopo di aumentarne le capacità da impiegare per la conquista della leadership sullo scacchiere continentale.
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Il progetto dell’Unione Europea sorge per potere andare oltre i guasti della politica di potenza, delle sfere di influenza, della sopraffazione interstatale e dell’imperialismo. Ma c’è di più: proprio perché sede storica di imperi effettivi e terra d’origine dell’imperialismo, l’Europa non può subire con ipocrita ingenuità la fascinazione neoimperiale. Nel nostro caso non c’è nessuna possibile e vacua proiezione immaginifica, perché il peso del passato, con i suoi fasti e i suoi orrori, concluso giusto ottant’anni fa, è troppo ingombrante. Noi abbiamo sperimentato sulla nostra pelle (oltre che su quella degli altri) i guasti e gli orrori della Machtpolitik e delle ossessioni imperiali e, soprattutto, le false promesse di pace collegate al principio di equilibrio e al fallimentare “concerto delle grandi potenze”.
Quando Donald Trump insegue le sue visioni fumettistiche da (basso) impero romano, al netto del suo narcisismo patologico e della conoscenza elementare della storia antica, lo fa sull’onda di una tradizione di interventismo americano nella politica mondiale che, dal suo sorgere, si riteneva mossa da un disegno altro e più alto rispetto al coevo imperialismo europeo. Il paradosso è che oggi Trump proietta l’imperialismo americano in una dimensione ancora più cinica e brutale di quella che caratterizzò l’apice dell’esperienza europea tra Otto e Novecento, perché spoglia di qualunque travisamento “missionario” che ricopra il nudo interesse egoistico. Compie cioè un percorso inverso rispetto a quello dolorosamente effettuato dall’Europa e sul quale l’Europa non può seguirlo.
TRA SOVRANISMO E SOVRANITÀ. Non è però soltanto una questione culturale o concettuale a rendere implausibile la trasformazione dell’Unione in un neoimpero, accanto a quelli russo, cinese e americano. Il punto è che quella europea è una unione di Stati sovrani, ben lontana dall’essere una federazione analoga a quella americana e persino molto più lasca della Confederazione Elvetica. Come si può seriamente immaginare di trasformare in Principatus, in impero, una struttura che non è ancora riuscita a diventare una effettiva Respublica?
Si dimentica, tra l’altro, che la spinta sovranista, cioè il ritorno aggiornato dei temi della sovranità, del nazionalismo, dei confini e della territorialità – che per Russia, Cina e Stati Uniti funziona “naturalmente” come acceleratore della centralizzazione del potere e della nouvelle vague imperiale – rappresenta invece un vero e proprio ostacolo sulla via della costruzione di una “deeper and wider Union”. Ovunque si manifestino, le pulsioni sovraniste hanno nel mirino proprio l’Unione e la sua possibile trasformazione in uno Stato federale. E ovviamente vagheggiare con gioia o terrore di risorgenti imperi tedeschi o francesi – solo per stare agli attori principali – rappresenta un anacronismo patetico, frutto di una profonda ignoranza della storia e di una totale incomprensione del tempo presente.
Il tema della sovranità rispetto alla costruzione dell’unità europea e alle sue prospettive merita però ancora una riflessione. Perché il suo ritorno, insieme a quello dei confini e della criticità della dimensione territoriale, pone l’Unione di fronte a una oggettiva necessità di ripensamento. Il progetto europeo si è sviluppato nella prospettiva di un progressivo ridimensionamento della sovranità degli Stati membri, sullo sfondo della costruzione di una istituzione dai caratteri rivoluzionari e dalla politicità ridotta. Semplificando un po’, potremmo dire che l’accentuazione originaria della dimensione economica della cooperazione rispondeva al più classico disegno liberale: attenuare gli effetti più dirompenti della componente squisitamente politica delle sovranità statali attraverso lo strumento del commercio e poi della più ampia cooperazione economica. L’edificazione di una vera e propria sovranità politica europea, complementare a quella degli Stati membri, avviene in realtà successivamente, attraverso i trattati degli anni Ottanta e Novanta.
L’UE OLTRE IL LEGALISMO E IL PANECONOMICISMO. Le spinte sovraniste, così rischiose per il destino dell’Unione, non emergono peraltro dal nulla, ma proprio da quel lungo processo di apparente depoliticizzazione dell’agenda europea condotta nel nome di un duplice dispositivo, composto dal tentativo di giuridicizzare integralmente la politica e dal pan-economicismo. Il varo dell’euro rappresenta il caso più macroscopico di questo fenomeno. Al poderoso sistema di istituzioni che lo governano non ha fatto da contraltare lo sviluppo di un’autorità politica corrispondente altrettanto potente e centralizzata, e quindi in grado, ad esempio, di imporre politiche fiscali omogenee, garanzie collettive ai singoli debiti nazionali e la creazione di un vero mercato finanziario unico europeo.
Il successo dell’euro e il suo contributo all’accelerazione del progetto di unificazione europea credo siano indiscutibili. Ma proprio questa accelerazione ha reso evidenti e sempre meno gestibili e tollerabili gli squilibri derivanti dall’assenza di un analogo sviluppo a livello politico-istituzionale.
Questa carenza di sviluppo politico si è manifestata in maniera drammatica di fronte all’impatto delle dinamiche migratorie sulla questione del controllo dei confini, della loro effettività e della relazione tra quelli dell’Unione e quelli interni. Proprio qui è emersa la tensione tra i principi universali sottesi alla concezione liberale e democratica dello Stato e la loro realistica, concreta e limitata applicazione. Per molti aspetti, in questa tensione si ritrova lo scontro tra la concezione giuridica dell’applicazione dei diritti umani e civili e la rivendicazione della politica di fissarne i limiti applicativi, adattandoli alle mutate convinzioni e circostanze.
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La medesima criticità la stiamo sperimentando nel ritardo e nelle difficoltà con cui si adottano le misure politico-militari necessarie a migliorare la difesa europea, di fronte alla minaccia concreta ed esistenziale portata dalla Russia all’Unione e ai singoli Stati-membri attraverso la guerra in Ucraina. Al di là delle possibili sfumature e differenze nelle posizioni di alcuni Stati membri, occorre constatare come un’interpretazione eccessivamente formalistica dei trattati e la difficoltà di assumersi i rischi e il peso di decisioni politiche improcrastinabili finiscano con il ritardare e complicare persino la realizzazione concreta delle misure su cui c’è accordo.
D’altronde, quando diamo sfogo alla delusione per l’insufficiente protagonismo europeo in Ucraina o Medio Oriente, dimentichiamo spesso come la costruzione dell’Unione abbia rappresentato il più grande successo dell’ordine internazionale liberale, reso possibile dall’egemonia americana sull’Occidente (di cui l’Europa unificata costituiva il secondo pilastro accanto agli Stati Uniti). Non dovrebbe stupire, allora, che essa sia in così grave difficoltà nel momento in cui l’America cerca di imporre brutalmente una revisione totale del concetto stesso di Occidente e della propria leadership, perseguendo un potere “senza limiti” e derubricando ad “accidente” la centralità costitutiva della dimensione liberal-democratica e la sacralità della rule of law.
Un mondo dominato dagli imperi, abitato da predatori e governato dalla logica della sopraffazione non è una prospettiva che ci conviene e alla cui realizzazione siamo obbligati a contribuire. Doveroso è invece attrezzarsi per poter sopravvivere in un ambiente meno favorevole del passato, se non apertamente ostile, difendendo e rafforzando la nostra specificità e dimostrando il coraggio politico oggi indispensabile.
Come ha affermato con forza e rigore Mario Draghi a fine agosto 2025: “Per anni l’Unione Europea ha creduto che la dimensione economica, con 450 milioni di consumatori, portasse con sé potere geopolitico e nelle relazioni commerciali internazionali. Quest’anno sarà ricordato come l’anno in cui questa illusione è evaporata.” Ma “deve adattarsi alle esigenze del suo tempo quando esse sono esistenziali”, per tutelare con tutti gli strumenti possibili (economici, giuridici e militari) i principi che ne hanno consentito l’edificazione e che ne consentono la sopravvivenza. Se l’Europa non può e non deve trasformarsi in un nuovo impero, può invece riaffermarsi come l’unica vera Respublica del nostro tempo: pur con tutti i suoi limiti e le sue criticità, uno spazio politico fondato sulla certezza della legge, sulla tutela dei diritti e sulla garanzia della proprietà.
È proprio questa la sua missione: mostrare alle altre comunità politiche che vogliano riconoscersi in quei principi che esiste un’altra possibilità rispetto alla logica imperiale e diventare così, correggendo le sue fragilità, un punto di riferimento globale per chi ancora ricerchi ordine senza oppressione e stabilità senza dominio.
Questo articolo è pubblicato sul numero 3-2025 di Aspenia.