Stando agli ultimi i sondaggi di opinione, l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva si appresta a vincere le elezioni presidenziali brasiliane, se non al primo turno del 2 ottobre, sicuramente al ballottaggio il 30 dello stesso mese, quando dovrebbe staccare l’attuale presidente Jair Messias Bolsonaro di una distanza che appare impossibile da colmare, dato il forte scontento verso il presidente in carica ed il suo governo. Serpeggia ancora qualche timore che Bolsonaro non accetti il verdetto delle urne, come ha più volte minacciato in passato, e tenti di sabotare la transizione come vorrebbe buona parte del suo elettorato, ma la sensazione è che il presidente non abbia la forza e il consenso necessari tra le sfere militari per un’avventura del genere.
La resurrezione di Lula
Il primo gennaio 2023 quindi, a 77 anni Lula salirà la rampa del palazzo del Planalto per la terza volta, come già fece nei giorni di Capodanno del 2003 e 2007. Una vera resurrezione politica, dopo 580 giorni passati in carcere e la restituzione dei diritti politici con l’annullamento di ventisei processi a suo carico, dichiarati illegittimi dalla Corte suprema brasiliana.
Migrante povero dal Nordest, leader dei grandi scioperi operai alla fine della dittatura militare (1964-1985), fondatore del Partido dos Trabalhadores (PT), del sindacato Central Unica dos Trabalhadoes (CUT), deputato federale, sei candidature presidenziali (1990, 1994, 1998, 2002, 2006, 2022), grande elettore di Dilma Rousseff – prima presidente donna del Brasile nel 2010 e 2014: Lula è il protagonista principale della politica brasiliana negli ultimi quarant’anni. C’è Lula, sempre, e poi c’è qualcun altro.
Il suo proverbiale pragmatismo spiega molto della sua longevità politico-elettorale: basti pensare che questa volta si sia scelto come candidato a vicepresidente Geraldo Alckmin, ex-governatore dello stato di San Paolo, il più ricco del Brasile, già sconfitto proprio da Lula alle presidenziali del 2006. Non pochi sono stati i malumori dentro il PT per questa proposta in funzione del profilo conservatore di Alckmin, uno dei fondatori del Partido da Social Democracia Brasileira, la forza storica del neoliberalisimo brasiliano che aveva polarizzato col PT le dispute presidenziali fino all’avvento di Bolsonaro.
In una recente intervista Lula ha difeso il suo vice ricordando un adagio del grande pedagogista brasiliano Paulo Freire: “bisogna unire i divergenti per fronteggiare meglio gli antagonisti”. Alckmin in effetti permette a Lula di rosicchiare consenso nelle fasce di elettorato di reddito alto e medio alto dove Bolsonaro è popolare, mentre Lula ha la vittoria garantita tra il voto popolare più povero, col 52% delle intenzioni di voto tra coloro che guadagnano fino a due salari minimi, fascia che rappresenta quasi la metà dell’elettorato.
Troppo rischioso, sembra aver pensato l’anziano leader, sottostimare la forza elettorale di Bolsonaro, e troppo presuntuoso sarebbe non proporre un “patto repubblicano” a settori conservatori essi stessi ridimensionati dal consenso verso l’estrema destra bolsonarista nel 2018. E i suoi lo hanno seguito un’altra volta.
La longevità del lulismo
Tuttavia, pragmatismo e arguzia non sono sufficienti a spiegare la longevità di Lula come leader politico e ancor meno il “lulismo” quale tipo specifico di patto elettorale e regime economico-politico. Secondo André Singer, ordinario di scienze politiche alla USP e primo difensore di questa tesi, il lulismo come regime economico-politico è in estrema sintesi “un progetto pratico di lotta alla povertà senza scontro diretto col capitale”, che fa leva su alcuni strumenti principali di redistribuzione del reddito: assistenza sociale, salario minimo, formalizzazione del mercato del lavoro e credito agevolato alle famiglie. La redistribuzione ha favorito il consumo popolare che ha agito come componente interna della domanda. Come patto elettorale consiste nell’emergere di una personalità popolare carismatica, non solo in funzione delle sue origini sociali, ma soprattutto grazie al mantenimento delle promesse elettorali in favore degli strati sociali più poveri e precari.
Starebbe qui la principale differenza tra il lulismo e il “petismo”, cioè la tradizione elettorale, ideologica e programmatica del PT di cui Lula è leader assoluto da sempre. Il PT è un partito che ha origine tra i lavoratori salariati (classe operaia e settori della piccola borghesia intellettuale), di ispirazione socialista e, alle origini, con vocazione rivoluzionaria, ma che non è mai riuscito a conquistare il consenso maggioritario degli strati più poveri della società brasiliana. Il lulismo invece ci riesce, quando diviene governo, anzi diviene lulismo grazie al governo; lo fa attuando un programma elettorale redistributivo, e traghetta il petismo con sé, senza però fondere le due tradizioni dal punto di vista ideologico. In altre parole, il lulismo è l’adesione della maggioranza dei poveri al leader, un progetto più grande e che ingloba il PT e ne cambia parzialmente la base elettorale. Il PT, primo partito organizzato del paese, è la macchina di manovra del lulismo, che per vincere si adegua alla strategia del leader.
Il lulismo come riformismo non di struttura e di bassa intensità anti-capitalistica non si sarebbe realizzato pienamente se non avesse goduto durante due interi mandati (2003-2010) del boom delle commodity (alimentari, petrolio e derivati, minerali ferrosi), che assicurarono giganteschi saldi commerciali positivi e di conseguenza la possibilità di margini di manovra redistributiva pubblica senza bisogno di intaccare le rendite finanziarie e i privilegi fiscali degli strati più ricchi della popolazione, difesi dai partiti di centro della coalizione. La stessa abilità dell’ex presidente non avrebbe avuto vita facile se ci fosse stato da raschiare il fondo del barile di un bilancio pubblico meno solido, o da tassare le fasce medio alte.
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Questo è un punto fondamentale per interpretare il periodo della crisi del lulismo tra il secondo mandato della Rousseff e l’elezione di Bolsonaro nel 2018, e mettere in luce i suoi limiti strutturali in un paese che rimane periferico nel sistema capitalistico internazionale. In altre parole, quali sono le chance di vita di un lulismo senza congiuntura economica favorevole e senza composizione politica?
Lo scontro con il capitale finanziario e la crisi
Bisogna volgere lo sguardo ai governi della Rousseff per avere alcune risposte. I suoi due mandati furono segnati tanto dalla fine del boom delle commodity, in buona parte causato dal rallentamento della crescita cinese, e dal secondo dispiegamento della crisi economica internazionale, quanto dalla radicalizzazione politica del progetto lulista, con la presidente decisa a forzare la Banca Centrale ad abbassare il tasso di sconto, a usare le due grandi banche pubbliche per diminuire i tassi di interesse, non lasciando altra scelta alle banche private che fare altrettanto.
Questa non era altro che una dichiarazione di guerra all’establishment nazionale e ai creditori esteri dei titoli del debito sovrano. La Rousseff spinge il lulismo sulla strada dello scontro col capitale finanziario, accusato di frenare lo sviluppo economico del paese, e tenta di formare un patto strategico con il settore industriale, discutendo e proponendo un piano di re-industrializzazione: meno interessi, interventismo, sviluppo di logistica e infrastruttura, diminuzione del costo dell’energia, svalutazione cambiale, controllo di capitali.
Per circa due anni sembrò che la versione radicalizzata del lulismo stesse vincendo la sua battaglia, con l’elezione di Fernando Haddad (PT) a sindaco di San Paolo nell’ottobre 2012, la disoccupazione scesa ai minimi storici, e la stessa storica rielezione presidenziale dell’ottobre 2014. Invece la Rousseff non governerà mai durante il secondo mandato.
La vicenda è nota ma vale la pena ricordarla in pillole. In sequenza: La Rousseff vince per un soffio al termine di una campagna elettorale con toni fortemente di sinistra, ma la sua vittoria non viene riconosciuta da Aecio Neves (PSDB) che al ballottaggio del 26 ottobre 2014 si era fermato al 48,4%. Neves, porta il suo partito su un percorso di radicalizzazione dell’opposizione chiedendo di ricontare i voti con la giustificazione di non lasciare nessun dubbio sulla credibilità del sistema di voto elettronico. Nel novembre del 2015 un audit dei voti commissionato dallo stesso PSDB, riconosciuto dal Tribunale Superiore Elettorale, riconoscerà non esserci stata alcuna frode elettorale, ma il sospetto sulla validità del sistema elettronico era ormai introdotto nel dibattito politico (come abbiamo visto, è stato ripreso più volte da Bolsonaro quest’anno, ma non quando le urne lo consacrarono presidente nel 2018).
Intanto, il peggioramento dei saldi commerciali e la crisi economica internazionale mettono in difficoltà la realizzazione delle politiche espansive e riducono i margini di manovra in parlamento. E’ allora che avviene il compattamento conservatore, con le forze di centro della coalizione di governo, a capo il vice-presidente Michel Temer, che si allineano all’opposizione. La Rousseff commette quello che oggi in tanti nel PT le rimproverano essere stato un errore tattico: invece di chiamare alla mobilitazione politica a difesa del programma e di una manovra anticiclica, nel tentativo di calmare mercati e l’inflazione crescente, inaugura una politica di austerity che aggrava i conti, fa esplodere la disoccupazione e semina sfiducia nell’elettorato lulista.
La riscossa conservatrice e le vie possibili del lulismo
Nel frattempo, si gonfiano le mobilitazioni contro i casi di corruzione che investono tutti i partiti della coalizione e inizia la sfilza di processi contro Lula da parte giudice Sergio Moro (poi condannato dalla Tribunale Superiore Federale per avere agito in modo “parziale” contro l’ex-Presidente). Alla fine del calvario, nell’agosto 2016, arriva l’impeachment della Rousseff, accusata di illeciti di bilancio per alcune manovre contabili (pur sempre praticate dai suoi predecessori e reiterate persino dal successore Temer quando le subentra alla presidenza) poi platealmente riconosciute dai suoi detrattori come meri espedienti per farla fuori. L’offensiva conservatrice si compirà con la prigione di Lula al quale verrà impedito di partecipare alle elezioni del 2018, quando tutti i pronostici lo davano vincitore. Le vincerà invece Bolsonaro e Sergio Moro sarà nominato ministro della Giustizia.
È probabile che fatti di questa rilevanza metterebbero in crisi qualunque tipo di governo. Il punto fondamentale è però un altro: aver dimostrato quali siano le condizioni di governabilità per un governo progressista in un paese periferico nello scenario mondiale come il Brasile, cosa e quali politiche siano disposte a tollerare le classi dominanti, e in che modo reagirebbero. E che probabilità abbiano questi fenomeni di riproporsi durante il prossimo mandato di Lula.
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Quanto ai primi due punti, si è già detto dell’estrema difficoltà di toccare le rendite finanziarie, soprattutto in un periodo di vacche magre. Quella è la “zona d’allarme”, che il lulismo radicalizzato della Rousseff aveva osato penetrare. Ma è bene menzionare una tesi dibattuta all’interno al campo progressista: anche un lulismo non antagonistico avrebbe finito per provocare la reazione conservatrice, perché aumentando gradualmente ma costantemente i salari reali e includendo milioni di brasiliani nel mercato formale del lavoro avrebbe cominciato a minare le basi di un’economia che riposa su un gigantesco esercito di riserva di lavoro a basso costo e con scarsi diritti.
Quanto alle probabilità di una nuova tempesta, non è affatto impossibile: la coalizione parlamentare a sostegno del governo continuerà a essere molto composita, lo scenario economico internazionale non è tra i più promettenti e, davvero last but not least, il tetto alla spesa pubblica messo in Costituzione dal governo Temer dopo l’impeachment, e mantenuto da Bolsonaro, dovrà essere per forza rinegoziato per consentire al lulismo di dispiegarsi ancora una volta come patto elettorale di redistribuzione nei confronti dei più poveri.
Lula ha certamente la capacità di navigare nel mare della politica come il migliore timoniere possibile, ma circostanze e condizioni che nemmeno lui potrebbe cambiare potrebbero apparire all’orizzonte. L’aspettativa di Lula è quella di una ricomposizione della dialettica democratica e di una ripresa della crescita economica e del gradualismo redistributivo. La sua priorità assoluta è la lotta contro la povertà in un paese che vede 61 milioni di cittadini soffrire di insicurezza alimentare, con 15 milioni di loro letteralmente alla fame.