La presidenza pedagogica, dal disastro del Golfo alla riforma della finanza

“Temo Washington e il governo centrale più di Mosca”. Cinquant’anni dopo siamo di nuovo lì, dove avevamo lasciato Barry Goldwater, lo sfidante del Presidente Lyndon Johnson nelle elezioni del 1964: allora Goldwater aprì la strada alla rivoluzione culturale neoconservatrice, rompendo con la tradizione moderata della vecchia aristocrazia repubblicana, quella di Nelson Rockefeller e di Prescott Bush. Goldwater perse le elezioni in modo rovinoso, ma segnò il ritorno di fiamma della retorica contro il Big Government, il potere di Washington, il ruolo dell’intervento pubblico e della regolamentazione federale nella vita economica e civile degli americani. In fondo, è sempre lo stesso dibattito dal 1787: il popolo americano versus il tiranno, che esso abbia il volto di Giorgio III o di un agente del fisco.

Grazie innanzitutto al radicalismo verbale e alla mobilitazione del movimento del Tea Party – un movimento che per cultura appare più vicino al libertario Goldwater che al “born again Christian” George W. Bush – il tema è tornato prepotentemente alla ribalta già alla metà del 2009, all’inizio del dibattito sulla riforma sanitaria. Lo troviamo sullo sfondo di ogni questione: il disastro ambientale del Golfo del Messico, la tragedia delle miniere del West Virginia dello scorso aprile, la riforma finanziaria, il tema del deficit, quello dell’immigrazione, le politiche a favore della Green Economy o il punto di vista di Elena Kagan – la candidata di Obama per il posto vacante della Corte Suprema – sul possesso di armi da fuoco.

Quest’anno, non a caso, l’editoriale del Washington Post sul 4 di luglio – l’Independence Day – si è occupato proprio di questo. Il Post ha ricordato ai suoi lettori che il governo, lo stato – i due termini con i quali traduciamo in modo inappropriato la parola government – è lo stesso che ha permesso alla Repubblica di espandersi fin sulle coste del Pacifico e che ha permesso a ogni americano la garanzia del godimento dei propri inalienabili diritti. Vale la pena citare direttamente: “Most Americans have benefited from this federal power for a couple of centuries now. It’s a far from perfect instrument, but it is something we’ve created ourselves, and we have orderly processes for changing it whenever the people think it necessary. Moreover, there seems to have been a rough consensus over the years that federal power has done what governments are — in the language of 1776 — meant to do: secure for us certain unalienable rights, among them life, liberty and the pursuit of happiness. For those who see it as a conspiracy rather than an elected government, be reassured: There is also an unalienable right to silliness”. La durezza di queste righe conclusive offre la misura dello scontro in atto: si tratta del grande tema politico/ideologico che attraversa questa stagione politica, un dibattito il cui esito potrebbe avere ripercussioni anche sulle nostre vicende europee e sull’incerto disegno della nuova governance mondiale.

Il caso del disastro ecologico nel Golfo del Messico diviene allora paradigmatico. Esattamente come avvenne per la tragedia di Katrina del 2005, si tratta di un perfetto esempio d’inefficienza federale – che si accompagna a quella del livello statale. Ora i pro-government la interpretano come il simbolo della privazione di mezzi e intelligenze subita negli ultimi anni dall’apparato pubblico. Come se il bushismo fosse il mandante materiale e morale del disastro. Per esempio, si viene a sapere che il Minerals Management Service (MMS) del Ministero degli Interni possiede solo sessanta ispettori per le circa quattromila basi di estrazione ed esplorazione presenti nel Golfo; come sempre in queste occasioni, si scopre che le relazioni tra lobby del settore e uomini delle agenzie di controllo erano forse troppo strette, e che in paesi come il Regno Unito, la Norvegia e l’Australia questo non potrebbe mai accadere.

Sistemi di supervisione inadeguati, eccessiva contiguità tra controllati e controlli, personale non competente e organici troppo ridotti: se dal dramma del Golfo si passa alla crisi finanziaria del 2008, ci si rende conto che le coordinate della narrazione obamiana sono le stesse, la ragione del disastro mostra la medesima radice. Sono mancati regolamentazione, controllo e indirizzo: il governo non ha potuto fare il suo dovere. E così arriviamo alla conclusione, nella quale si possono congiungere i fili del racconto – dal carattere quasi pedagogico – che l’amministrazione democratica ha costruito in questi due anni: non troppo governo (come si è detto per trent’anni), ma troppo poco.

Ecco la sintesi compiuta dallo stesso Obama in un atteso discorso tenuto il 1° maggio presso l’Università del Michigan, nel quale ha affrontato direttamente il tema del ruolo del governo e dell’intervento pubblico nelle vite dei cittadini degli Stati Uniti. Si è trattato del discorso più importante e partecipato dal 20 gennaio 2009, il giorno del giuramento. L’obiettivo di Obama era affrontare direttamente la rabbia del Tea Party e del partito “dell’anti-stato”. Il presidente ha sostenuto che, in democrazia, lo “stato siamo noi”; government “è le strade su cui guidiamo e i limiti di velocità che ci fanno essere più sicuri. Sono gli uomini e le donne del nostro esercito, gli ispettori che controllano le nostre miniere (a meno di un mese dalla morte dei 29 minatori in West Virginia, ndr), i pionieri della ricerca nelle nostre università”. “La crisi finanziaria”, ha aggiunto Obama, “ci ha mostrato i pericoli di troppo poco stato”. E’ la cifra linguistica della “presidenza pedagogica”: potrebbe essere il tratto distintivo di un’amministrazione costretta a fronteggiare un Congresso a maggioranza repubblicana a partire dal gennaio 2011. Una “presidenza retorica” contro i repubblicani di Capitol Hill, in attesa dello scontro biblico del novembre 2012.

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