In Siria, la guerra sembra finita solo sulla carta. Ancora ferito e diviso, travolto da una catastrofica crisi umanitaria, al collasso economico e segnato da un’estrema fragilità politica e istituzionale, il Paese corre su un crinale scivoloso. Su cui si gioca anche la partita tra le potenze regionali e globali, che pare continuare a influenzare il futuro della Siria più delle urne. La prospettiva di una fragorosa ricaduta nel caos non è affatto remota.
Il faticoso insediamento del nuovo potere
Archiviata l’era baathista degli Assad, il nuovo Capo di Stato Ahmad al-Sharaa tenta di accreditarsi in legittimità e governance sulla scena interna e internazionale come il custode di una “nuova Siria” stabile, democratica e plurale. Al di là della narrazione ufficiale, però, il Paese resta intrappolato nelle logiche settarie e in un sistema di potere che conserva tratti fortemente autoritari e monolitici, non molto diversi da quelli che hanno definito i cinquant’anni della dittatura familista conclusasi con l’ingloriosa fuga dell’8 dicembre 2024 da Damasco e iniziata con la cosiddetta “Rivoluzione Correttiva” negli anni ’70.
L’autoproclamato presidente di transizione, ex comandante del gruppo jihadista salafita Hayat Tahrir al-Sham (HTS), meglio noto con il nome di battaglia Abu Muhammad al-Jawlani, formatosi tra le fila di al-Qaeda e al-Nusrah e ora riscopertosi nazionalista moderato, guida una Siria “sul filo del rasoio” – per citare l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Geir Pedersen.
Passato il tempo dell’euforia per la caduta della sanguinaria dittatura di Bashar al-Assad – rovesciato dall’offensiva dei ribelli capeggiati da HTS e supportati dalle milizie sostenute da Ankara sotto l’egida dell’Esercito nazionale siriano (SNA) – la fiducia dei siriani, dei laici e delle minoranze in particolare, nella leadership sunnita appena insediata sembra cominciare a incrinarsi. Infrangendosi contro la realtà di un governo ancora di fatto dominato da HTS e dalla sua ideologia islamista, delle promesse riforme di giustizia e sicurezza ferme al palo, e del settarismo che torna a insanguinare il Paese. Senza una “correzione di rotta” – è la lettura dell’inviato speciale affidata al Financial Times – con le fazioni che si spartiscono il territorio in un mosaico di feudi, la Siria “rischia di trasformarsi in Libia”.
Le prime elezioni parlamentari post-Assad, tenutesi lo scorso 5 ottobre, sono state salutate come “un momento storico” nella transizione postbellica della nazione araba. Ma tanto le modalità di voto quanto i risultati tradiscono l’immagine di un potere che, pur avendo cambiato bandiera, rimane ben lontano dal cambiare la Siria in ciò a cui guardavano le piazze del 2011.
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In un processo elettorale ibrido e indiretto – giustificato dall’amministrazione ad interim nel nome della sicurezza nazionale e della transizione controllata – al-Sharaa nominerà 70 dei deputati della riformata Assemblea del popolo. Altri 119 seggi sono stati assegnati attraverso il voto riservato a un ristrettissimo corpo elettorale di circa 6mila persone (su una popolazione stimata tra i 23 e i 25 milioni) riunite in collegi regionali dopo esser state attentamente selezionate, come anche i candidati, da sottocommissioni elettorali locali e da un Alto Comitato per le elezioni, anch’esso nominato direttamente da al-Sharaa. Gli ultimi 21 scranni sono invece rimasti vacanti a causa del rinvio delle consultazioni nelle regioni che sfuggono all’autorità di Damasco, quelle nord-orientali di Al Hasakah e Raqqa (nel Rojava), controllate dalle Forze democratiche siriane (SDF) della minoranza curda, e quella meridionale di Suwayda, a maggioranza drusa.
Il neonato Parlamento, formalmente privo di ogni affiliazione politica (i partiti sono sciolti da inizio anno), avrà mandato per 30 mesi e poteri limitatissimi, con quasi nessuna prerogativa effettiva sui decreti presidenziali. E vi siederanno appena sei donne e dieci rappresentanti per le numerose minoranze etniche e religiose che compongono l’eterogeneo tessuto sociale siriano. Carenze gravi che al-Sharaa potrà o meno decidere di colmare con le sue attese nomine personali.
Forte è lo scetticismo di analisti e osservatori, che riconoscono in queste elezioni selettive, condotte in un contesto di forte controllo politico e mediatico, niente più che un esercizio di legittimazione dell’ordine emergente: sempre un regime che, anche riorganizzato nel riferimento ideologico e settario, mantiene ogni leva dello Stato nelle mani del presidente, sorveglia capillarmente il dissenso, e non smette di schiacciare le minoranze.
Le fragilità interne e i conflitti aperti
Intanto, dietro la vetrina della transizione ordinata, linee di faglia profondissime attraversano la Siria, disegnando la mappa di un Paese tutto da ricomporre. Le resistenze interne agli apparati politico-istituzionali, l’assenza di un autentico processo di giustizia di transizione e riconciliazione nazionale, e una complessa sovrapposizione di poteri locali danno adito a molti dubbi sulla reale capacità della dirigenza di riunificare la Siria e farne uno Stato, in fatto e in diritto.
Una costellazione di fazioni e formazioni con interessi e agende divergenti – almeno una sessantina di gruppi armati diversi, tra lealisti del vecchio e del nuovo regime, reparti di sicurezza semiautonomi, milizie indipendenti, combattenti stranieri – ancora infuoca il teatro siriano, sebbene il ministero della Difesa sostenga di averne integrato ormai la maggioranza sotto un unico comando centrale, che sarebbe destinato a costituire il futuro esercito nazionale.
Stretto è il nodo della frammentazione delle comunità confessionali ed etniche e delle aspirazioni autonomiste, che già a partire da gennaio ha rinfocolato il conflitto a bassa intensità lungo la fascia costiera come nel cuore centro-occidentale del Paese, nel sud druso e tra i sobborghi della capitale come a nord, tra Aleppo e il Rojava curdo.
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Si combatte un po’ ovunque, insomma, nel solco di una marcata debolezza istituzionale e di un pervasivo clima d’impunità per i crimini sistemici perpetrati dal governo Assad – e non solo, che hanno lasciato alla società siriana un’eredità di faide e un radicato sentimento di disillusione.
Di possibili crimini di guerra – omicidi, torture e atti disumani persino contro i cadaveri, anche filmati e diffusi sui social media – ha parlato la Commissione d’inchiesta ONU per la Siria nel quadro dell’ondata di violenze diffuse e sistematiche che investe il Paese, colpendo particolarmente gli Alawiti. Saccheggi e incendi di case e villaggi su larga scala hanno già provocato lo sfollamento di decine di migliaia di civili. E poi ci sono i rapimenti delle donne, gli stupri, gli arresti arbitrari, le sparizioni forzate. È lunga la lista delle atrocità attribuite alle forze del governo provvisorio e alle unità loro affiliate, come anche ai combattenti per il fronte opposto.
Nel rapporto “Sei Alawita?”, pubblicato a fine settembre, Human Rights Watch fotografa gli almeno quattro giorni di massacri che lo scorso marzo hanno insanguinato i governatorati di Tartus, Latakia e Hama, a maggioranza alawita, come una vera e propria caccia. Oltre 1.400 i morti. Le forze di sicurezza, i gruppi allineati e i volontari armati al loro fianco si sono lasciati alle spalle ammassi di cadaveri e comunità distrutte, dopo le attività “di rastrellamento” – che per modalità si rivelano più simili a una punizione collettiva a sfondo identitario – condotte in risposta a una serie coordinata di attacchi mortali da parte di insorti indicati come “residui del vecchio regime” (sotto gli Assad, i vertici dello Stato erano appannaggio, appunto, degli Alawiti).
A luglio, una campagna di violenza altrettanto brutale si è scatenata contro i Drusi, nella provincia di Suwayda e nei suoi dintorni, dopo che razzie e vendette con le comunità beduine degenerate in scontri aperti hanno finito per coinvolgere milizie locali, forze governative e corpi affiliati (oltre che Israele, impegnato a posizionarsi come protettore di questa minoranza nel panorama regionale).
La competizione tra poteri locali e potenze internazionali
Al-Sharaa promette giustizia, dichiarandosi determinato a perseguire “con tutta imparzialità e senza clemenza” i responsabili, anche quelli a lui più vicini. Ma si fa sempre più evidente quanto fatichi a imporsi come autorità legittima e riconosciuta in una Siria che è un caldo arcipelago di roccaforti.
Se Damasco governa le città principali, l’accordo siglato in marzo con le forze curde, che, sostenute dagli Stati Uniti, dominano gran parte del Rojava e le sue riserve di petrolio e gas, è arenato tra rinnovate violenze e una sfiducia reciproca ai massimi livelli. Nel sud, dopo gli spargimenti di sangue dell’estate, i contingenti governativi si sono ritirati dalla provincia di Suwayda, lasciando spazio a un’autonomia de facto gestita dalle leadership e le milizie druse che hanno riscoperto forti spinte indipendentiste. Nel nord-ovest, sotto il controllo delle truppe protette dalla Turchia, regna un equilibrio precario retto da un apparato di amministrazioni locali parallele e segnato dagli scontri ricorrenti con i curdi e da un rapporto ambiguo con il potere centrale. E poi, l’ininterrotta attività delle cellule jihadiste sparse sul territorio, un possibile tentativo di insurrezione assadista sulla costa alawita, i ripetuti interventi stranieri a consolidare l’instabilità.
Tra le presenze straniere, quella più ingombrante è certamente quella israeliana. Dallo scorso dicembre, Tel Aviv ha infatti spostato i suoi obiettivi sul territorio da Hezbollah e le posizioni iraniane al radicamento nella Siria meridionale. Oltre alle alture del Golan, ha occupato i 235 km quadrati di zona cuscinetto ONU a Quneitra e si è spinta fino al sud del governatorato di Daraa e nelle campagne a ovest di Damasco, lanciando centinaia di incursioni e operazioni di sorveglianza e attacco aereo su tutta la Siria.
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Garantendosi posizioni strategiche rispetto al Libano e alle rotte iraniane, accesso a preziose risorse idriche, e influenza diretta sulle comunità locali (è il ritorno alla “politica periferica” dello Stato ebraico), Israele mira alla smilitarizzazione del Sud, presentando come una necessaria risposta alla minaccia estremista quella che in molti considerano un’azione manipolativa e destabilizzante sugli assetti mediorientali, tesa a esercitare la propria egemonia regionale. Una dinamica che Tel Aviv cerca di legittimare anche sul piano negoziale, sebbene le trattative, intavolate su impulso statunitense, per un accordo sulla sicurezza – di proposta israeliana e modellato sulla linea dell’Accordo di Camp David tra Egitto e Israele – restino, finora, inconcludenti.
Mentre al-Shaara si preoccupa di proiettare un’immagine di unità e stabilità che possa rassicurare gli investitori e la politica internazionale, reclamando per la Siria “il suo giusto posto tra le nazioni del mondo”, a completare lo scenario del disastro è l’emergenza umanitaria ed economica che erode le basi di ogni ipotesi di ricostruzione.
La profondità della crisi e la caccia alle opportunità
La crisi è tra le più gravi, complesse e prolungate al mondo. Nonostante i grandi movimenti di rientro registrati negli ultimi dieci mesi, stando alle conte dell’Agenzia ONU per i rifugiati oltre 7 milioni di sfollati interni rimangono nel Paese e non meno di 4 milioni e mezzo sono i rifugiati tra Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto. Sono stimate in 16,5 milioni le persone bisognose di urgente assistenza umanitaria, circa tre quarti della popolazione. Anche l’approvvigionamento idrico è gravemente insufficiente, e il sistema sanitario – come ogni infrastruttura essenziale – è allo stremo. L’economia, strangolata da 14 anni di conflitto costato almeno 600mila vite e dalle sanzioni internazionali che hanno paralizzato i settori energetico e finanziario, finendo per soffocare l’intero impianto produttivo e civile.
È vero che Damasco è oggi al centro di un graduale processo di riavvicinamento alla comunità internazionale, che pare orientata a riabilitare il numero uno del nuovo corso siriano (fino a pochi mesi fa bollato terrorista) come interlocutore legittimo e necessario in forza degli interessi di stabilizzazione del Medio Oriente – parla da sé la revoca delle sanzioni ONU ad al-Shaara, alla vigilia di una storica visita alla Casa Bianca. Lo è altrettanto che, in questo contesto, votando la sua diplomazia al pragmatismo, al-Sharaa ha ottenuto un allentamento delle misure economiche più restrittive e importanti iniziative di supporto, come quella di Qatar e Arabia Saudita. Ma la situazione resta drammatica.
Il crollo della valuta, l’inflazione a livelli insostenibili, la carenza cronica di carburante ed elettricità e i tassi di disoccupazione triplicati dal 2011, hanno ridotto in povertà il 90% dei siriani. Il mercato interno si regge su reti clientelari e sistemi di privilegio, traffici illegali in mano ai gruppi armati e aiuti esterni sempre troppo scarsi, in un’economia di guerra che alimenta corruzione e disuguaglianze. E le famiglie sono troppo spesso costrette a misure di adattamento negativo: rinuncia alle cure, abbandono scolastico, lavoro minorile. Secondo il Programma ONU per lo sviluppo, agli attuali tassi di crescita, la Siria non riacquisterà il livello di PIL pre-conflitto prima del 2080.
Su questo sfondo, la ricostruzione siriana, lungi dall’essere solo una questione interna, si fa oggi il riflesso più vivido di un equilibrio geopolitico in trasformazione.
L’assalto ribelle ad Assad non sarebbe stato possibile senza un contesto regionale favorevole, segnato dall’indebolimento dell’Iran e del suo “Asse della Resistenza” (che unisce Hezbollah, le milizie irachene, Hamas e gli Houti) distratto dal confronto con Israele, e dal parziale disimpegno di Mosca, più concentrata sul fronte ucraino e caucasico. E non meno determinante è stato il supporto, diretto e indiretto, di Turchia, monarchie del Golfo, USA e pure di alcune capitali europee, che nel crollo dell’autocrazia alawita hanno riconosciuto la partita per la ridefinizione delle sfere d’influenza nello scacchiere mediorientale e che ora giocano le loro carte, tra nuove alleanze e vecchie rivalità, nella consapevolezza generale che la direzione futura della Siria avrà ripercussioni ben al di là dei suoi confini.
Nel mezzo di una transizione che ha ancora poco di trasformazione, la Siria corre sospesa sul filo di una pace incompiuta.