La Paz, Bolivia. 20 ottobre 2019. Non c’è nessuno per strada: tutti quanti sono incollati davanti ai televisori per ascoltare i risultati della giornata elettorale. Sono circa le 20 quando vengono pubblicati i primi risultati tramite il Trep (Trasmissione di Risultati Elettorali Preliminari). Le percentuali danno il Presidente uscente Evo Morales del Mas (Movimiento al socialismo) attorno al 45,6%, mentre Carlos Mesa, suo oppositore di Comunidad Ciudadana, intorno al 38,2%. Questo scenario porterebbe al ballottaggio, previsto per il 15 dicembre. La Costituzione boliviana infatti stabilisce il ricorso al secondo turno se il candidato più votato non supera il 50% dei voti, oppure nel caso in cui non superi di più del 10% dei voti il secondo partito.
All’interruzione del conteggio preliminare viene annunciato l’inizio di quello ufficiale; per le seguenti 24 ore, però, non viene più consegnato al pubblico nessun dato. Le opposizioni giudicano strana la situazione e cominciano a scaldarsi. Carlos Mesa chiama i suoi ad assembrarsi attorno all’edifico nella capitale dove si sta realizzando il conteggio ufficiale. Qualcuno già grida al fraude, alla frode elettorale. Gli oppositori di Morales sono separati dai suoi sostenitori, anch’essi scesi in piazza, solo da un cordone di agenti di polizia; la situazione è parecchio tesa. Intorno alle 23 del 21 ottobre, il Tse (Tribunal Supremo Electoral) comunica i risultati ufficiali: 36,8% per Mesa, 46,9% per Morales. Il 10,1% di differenza consentirebbe a Morales di essere proclamato presidente subito.
I manifestanti dell’opposizione (perlopiù studenti universitari e cittadini della classe media) non ci stanno. La polizia inizia le sue manovre per disperderli: vengono sparati lacrimogeni. È l’inizio di giorni di grande tensione, che produrranno 7 morti e più di 300 feriti.
L’ascesa di Evo
Ex leader del movimento sindacale dei cocaleros, Evo Morales giunge alla guida della Bolivia nelle elezioni del 2005, convocate anticipatamente in seguito alla crisi politica e sociale che affliggeva il Paese dopo i governi di Gonzalo Sánchez de Lozada e Carlos Mesa. La vittoria di Morales è resa possibile da un rapido consenso, generato soprattutto dalla sua forte retorica anticapitalista, fomentata dalla rivalità con l’ambasciatore degli Stati Uniti Manuel Rocha. In questo modo, il Mas si garantisce l’appoggio delle fasce popolari, indigene e contadine del Paese, culminato nella vittoria presidenzale del 2006.
Il nuovo presidente cerca subito l’appoggio dei governi ideologicamente più vicini, trovandolo in Venezuela e a Cuba. In politica interna inizia il proceso de cambio, contraddistinto da tre elementi: la nazionalizzazione degli idrocarburi, le politiche sociali e la riforma costituzionale.
Il primo punto è stato oggetto di diverse controversie, suscitate sia dagli oppositori che dalla sinistra radicale; quest’ultima ritiene che il processo di nazionalizzazione non si sia mai realmente compiuto. In effetti i governi Morales non hanno mai proceduto all’esproprio degli impianti, piuttosto alla rinegoziazione dei contratti nazionali: cosa che ha dato il via, secondo i sostenitori del Mas, al decollo dell’economia. Si tratta di una politica di aumento delle entrate pubbliche congiunta a un processo di collaborazione e rinegoziazione con le imprese straniere. Sebbene non si tratti di una nazionalizzazione, gli esponenti del Mas continuano a chiamarla in questo modo, sostenendo che abbia contribuito a liberare la Bolivia dalla dipendenza dal FMI e abbia consentito al governo di sostenere il suo vasto programma di politiche sociali.
Il secondo punto del proceso de cambio è proprio questo. Storicamente considerata una delle nazioni più arretrate del Sudamerica, la Bolivia si è quasi sempre conquistata le peggiori posizioni negli indici di povertà e alfabetizzazione. Morales delinea il suo progetto di sviluppo sociale intorno al concetto Aymara di Suma Qamaña, ossia la buona vita, concetto che descrive l’equilibrio spirituale e materiale dell’individuo e la sua relazione armoniosa con tutte le forme di vita. Gli obiettivi erano l’abbattimento dell’analfabetismo e della povertà.
La prima venne combattuta attraverso gli aiuti dei Paesi amici, che inviarono risorse economiche e professionali nel territorio boliviano e ricevettero in cambio giovani nelle loro università per formarsi. In merito alla povertà, invece, il governo Morales alzò lo stipendio minimo del 50% nel 2009 e ridusse l’età pensionabile dai 65 ai 58 anni.
Tali politiche furono possibili attraverso la riforma costituzionale. Questa vide la luce dopo 3 anni di lavoro, dal 2006, anno di formazione dell’Assemblea costituente, al 2009, quando venne approvata attraverso un referendum. La riforma fu ampia e profonda, tra le novità più importanti introdusse la possibilità di elezione diretta del Capo dello Stato, il divieto di privatizzazione delle materie prime boliviane, la limitazione a 5000 ettari massimi di proprietà della terra e il diritto alle nazioni indigene di approvare e amministrare le proprie leggi. Da quel momento la Bolivia cominciò a definirsi uno Stato Plurinazionale, con 39 nazioni indigene ognuna con un suo specifico idioma.
Morales sarà rieletto nel 2009 e nel 2014 e fu proprio la terza rielezione a dare il via alle accuse di autoritarismo e personalizzazione del potere. La Costituzione boliviana infatti vieta che un presidente possa ricoprire più di due mandati, ma la riforma non aveva effetto retroattivo. Un referendum, nel 2016, chiamò i boliviani ad esprimersi sulla possibilità di consentire un’eccezione a Morales, e farlo ricandidare per la quarta volta nel 2019. Vinse il No di poco, ma Evo approfittò del risultato contrario sì ma di stretta misura per fare appello alla Corte costituzionale. Questa decretò che proibire la candidatura a Morales avrebbe leso i suoi diritti civili e politici.
Escalation
Nelle due settimane successive ai risultati elettorali del 2019, la Bolivia ha vissuto uno stato di forte agitazione, con blocchi stradali e scontri tra sostenitori e oppositori di Morales.
Il Mas ha accettato il riconteggio dei voti da parte dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani, con sede a Washington) e nello stesso momento Comunidad Ciudadana lo ha sorprendentemente rifiutato, provocando così, di fatto, che il baricentro dell’opposizione si spostasse da Carlos Mesa, centrista, a Fernando Camacho, portavoce del Comité Pro Santa Cruz, movimento civico conservatore, ultracattolico e militarista, che ha preso al volo l’occasione per amplificare aggressivamente le accuse di brogli e di governo dittatoriale rivolte a Morales.
Nella notte di venerdì 8 novembre la situazione comincia a cambiare: la polizia di Cochabamba, fino ad allora rimasta neutrale e garante della sicurezza dei cittadini, si schiera a favore delle proteste; la seguiranno i comandi di Tarija, Oruro e Trinidad. Il giorno dopo si unisce anche la polizia di La Paz, simultaneamente all’esito del riconteggio della OSA: vengono comprovate le irregolarità, viene dimostrato che i dati sarebbero stati manipolati attraverso un server non registrato; secondo l’analisi tecnica dell’istituzione sovranazionale il Mas rimarrebbe comunque il primo partito, come certificato dai primi dati usciti, ma sarebbe statisticamente improbabile la vittoria con uno scarto di oltre il 10%.
La OSA invita la Bolivia a convocare nuove elezioni. Le piazze gridano nuovamente e con più forza al fraude, e si pronunciano anche le forze armate: il capo dell’esercito Williams Kaliman chiede a Evo le dimissioni per evitare una fatale escalation di violenza in tutto il Paese, parole che suonano come un ultimatum. Il governo Morales chiama al dialogo le forze di opposizione, queste rifiutano, è ormai evidente che al confronto si preferisca l’uscita forzata: l’obiettivo dichiarato è quello di portare Morales alla rinuncia.
Il tramonto
Da quel momento è il tracollo per il Mas: deputati, senatori, ministri e funzionari fanno piovere dimissioni uno per uno. Fino alle dimissioni di Morales stesso: arrivano intorno alle 17 (22 italiane) di sabato 9 novembre. Il presidente dimissionario è costretto a viaggiare fino a Chimoré, vicino a Cochabamba, dove dichiara «Lascio il mio posto perché i nostri fratelli dirigenti non continuino a essere perseguitati. Questo golpe civile mi rammarica nel profondo. Vorrei dirvi, fratelli e sorelle, che la lotta non finisce qui. Continueremo questa lotta per l’uguaglianza e la pace».
Evo rinuncia dopo 13 anni di governo, rinuncia perché costretto dalla rapida crescita delle proteste. Il potere lentamente, ma inesorabilmente, gli viene tolto di mano dalle forze di polizia e dai corpi militari che, una dopo l’altra, prendono la parte degli oppositori. Assieme al vicepresidente Álvaro García Linera, Morales denuncia di essere di fronte nient’altro che a un colpo di stato. Presidente e vice ripareranno in Messico; al posto di Morales subentrerà ad interim la vicepresidente del Senato Jeanine Áñez, di Unidad Demócrata, dopo la rinuncia dei quadri del Mas.
L’opposizione infine giunge a manifestare a La Paz, in Plaza Murillo, sede del governo: Fernando Camacho sancisce il cambio di regime con la Bibbia e la bandiera boliviana. Oltre alla caduta, una dopo l’altra, delle personalità politiche del Mas, cominciano anche i primi arresti: personalità del Tribunale supremo elettorale vengono ammanettate e mostrate ai giornalisti in conferenza stampa. Camacho afferma che ci sarebbe anche un ordine di cattura riservato a Morales e García Linera. Evo conferma, la polizia invece smentisce.
Nella notte del 9 novembre, sostenitori del Mas si riversano per le strade della zona sud di La Paz e di El Alto, si registrano forti tensioni, scontri tra manifestanti e saccheggi. È la notte più difficile per la capitale boliviana.
L’eredità di Morales
La Bolivia, durante i 13 anni dei governi Morales, ha senza dubbio visto un miglioramento sorprendente, assestandosi come una delle economie in più forte crescita del Sudamerica. Il tasso di povertà è stato ridotto dal 38% a circa il 18% della popolazione; il PIL è cresciuto di circa il 5% annuo, e un’inflazione è ferma all’1,8%. Nel 2009, l’Unesco ha dichiarato il paese libero dall’analfabetismo.
Il leader indio ha servito la causa del popolo durante il suo lungo governo, ma sarebbe ingenuo non ammettere che anche le sue decisioni, soprattutto la mancata scelta di un successore politico, la nazionalizzazione apparentemente fasulla delle risorse naturali, la politica ambientalista da molti considerata non veritiera nei fatti, l’aver ignorato un referendum e piegato la Costituzione da lui stesso scritta, abbiano creato le condizioni affinché le opposizioni trovassero terreno per insorgere, captare il malcontento e costringerlo a lasciare il potere.
Al momento, comunque, siamo di fronte a due narrazioni contrapposte della situazione. Da un lato l’opposizione considera i brogli elettorali una ragione legittima per la cacciata di Evo Morales dal Paese; dall’altro il Movimiento al Socialismo denuncia un colpo di Stato non legato alla contingenza elettorale, ma già preparato in anticipo.