Viene confermato, così, un tratto rilevante della politica estera di Trump 2: la Casa Bianca rivendica, nell’Emisfero Occidentale, una propria sfera di influenza. Trump, che si richiama storicamente alle scelte di fine Ottocento (le presidenze di William McKinley e di Theodore Roosevelt), applica nei fatti una sorta di dottrina Monroe aggiornata. Secondo cui l’America, nel proprio vicinato, non ha bisogno di alleati ma ha bisogno di Paesi allineati. La politica estera di Trump 2 muove insomma dall’idea che la forza comparativa degli Stati Uniti debba basarsi anzitutto sulla proiezione continentale. In uno spazio regionale americano per definizione. Se per Monroe e i suoi seguaci dell’Ottocento ciò significava eliminare le presenze coloniali europee, per Trump significa rafforzare la presa territoriale degli Stati Uniti, così da rafforzare la lotta all’immigrazione illegale, limitare l’influenza cinese (Canale di Panama) e acquisire nuove risorse strategiche. Che dazi doganali siano lo strumento adatto per facilitare il compito è discutibile; ma l’idea sembra questa.
Verso il resto del mondo, la logica è diversa. Trump 2, come Trump 1, vede nelle tariffe – che gran parte degli economisti considera soprattutto una tassa sui consumatori americani, con potenziali effetti inflattivi – la leva per riequilibrare i rapporti commerciali internazionali, con un abbattimento del deficit degli Stati Uniti. Sul piano interno, ciò serve in teoria a rendere sostenibili i tagli fiscali. E a proteggere parte di una manifattura “made in USA”. Sul piano esterno, l’idea di Trump – non adesso ma da decenni – è che l’ordine internazionale vigente, costruito e garantito dagli Stati Uniti, indebolisca l’America (il deficit commerciale ne sarebbe la spia) a vantaggio sia degli alleati che dei rivali. Per questo il presidente non fa grandi differenze fra le due categorie di Paesi: siamo nell’epoca dei “frenemies”, degli amici che sono al tempo stesso nemici. Nuovi dazi colpiranno anche l’Europa.
La cosiddetta “pax americana” è così davvero alle spalle. L’America di Trump non è più disposta a garantire il vecchio ordine liberale ma vuole almeno in parte liberarsene, perché ritiene i costi superiori ai benefici. Di conseguenza, gli Stati Uniti diventano a loro volta una potenza revisionista, come lo sono – in modi e con obiettivi del tutto diversi – Cina e Russia. E come invece non è l’Europa, potenza erbivora in un mondo di carnivori. L’Unione Europea rischia molto, anche perché sembra vivere con la testa all’indietro, aggrappata a un ordine che non esiste più; mentre non pare preparata ad affrontare un mondo in cui la potenza vale più delle regole.
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La capacità contrattuale dell’Unione Europea, che ha un importante surplus commerciale con gli Stati Uniti, verrà presto messa alla prova. E su un terreno fondamentale: la relazione economica transatlantica è il 30% del commercio globale, con un peso enorme degli investimenti bilaterali e degli scambi di beni e servizi. Può darsi – sostengono le tesi ottimistiche – che la “scossa” americana spinga l’Europa a fare finalmente scelte economiche, insieme a scelte per la difesa, che ha rimandato troppo a lungo. La crisi della Germania lo dimostra, è in effetti il declino di un intero modello di sviluppo industriale. Rivederlo è nell’interesse degli europei stessi, non solo del rapporto con gli Stati Uniti.
Il bivio è ormai chiaro. O l’Europa riuscirà a partecipare alla definizione del nuovo assetto internazionale, trattando con Washington un’agenda positiva e non solo ritorsioni commerciali. O gli sviluppi futuri verranno largamente definiti altrove: in particolare, dal rapporto competitivo fra gli Stati Uniti e la Cina, con la sua preminente dimensione tecnologica. Non sappiamo ancora – ed è uno degli interrogativi più rilevanti dell’epoca Trump – se la dinamica fra Washington e Pechino sfocerà in un conflitto più aperto o in un accordo parziale. Ma sappiamo già che, se non avrà superato con successo quel bivio, l’Europa sarà vulnerabile: all’interno e all’esterno, come area contesa fra grandi potenze.
*Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 3/01/2025