La Cina che soffoca se stessa

Oltre 5mila delegati sono arrivati a Pechino per l’annuale sessione della Conferenza consultiva e dell’Assemblea nazionale (il Congresso Nazionale del Popolo) dal 5 marzo, chiamati a dare il proprio assenso a decisioni prese altrove. Il documento più importante da varare (non è prevista ovviamente alcuna possibilità di introdurre emendamenti o di dissenso) è il XIV Piano Quinquennale: se attuato, dovrebbe porre fine alla simbiosi USA-Cina – ribattezzata “Chimerica” da Niall Ferguson – visto l’accento che si pone sull’autosufficienza dell’industria cinese e sulla necessità di crescere non solo sulla base delle esportazioni ma anche sui consumi interni. Il che vorrebbe dire il varo definitivo di un modello cinese alternativo rispetto a quello occidentale. Una via cinese allo sviluppo, fatta di molta autocrazia e un po’ di mercato, davvero alternativo al modello occidentale fatto di democrazia liberale, stato sociale e mercato.

Un simile sviluppo porterebbe acqua al mulino di quanti da più parti continuano a sostenere che la Cina sia la prova provata che Francis Fukuyama, con la sua “fine della storia”, avesse torto e che ci sono effettivamente alternative al modello liberale occidentale (mercato più democrazia). Anzi, visti i numeri del miracolo cinese c’è chi si spinge a sostenere che questo nuovo binomio, rinsaldato e vivificato dai valori asiatici o confuciani, sia il nuovo, vero Graal dell’eterna crescita, che può essere adottato anche da altri paesi: ci si potrebbe così rifiutare di passare sotto le forche caudine dell’occidentalizzazione per poter arrivare alla terra promessa di una crescita economica auto-propulsiva. Ma le cose stanno realmente così? Quello cinese è un modello alternativo a quello occidentale?

La crescita di Shanghai nei due decenni a cavallo del 2000

 

La cultura occidentale – dice Arnold Toynbee – ha un carattere radioattivo che pone costantemente sotto assedio le culture altre. Una volta a contatto con la forza dissacrante della civiltà occidentale le possibilità di reazione che queste hanno non sono molte. In “Civiltà al paragone”, libro del 1948, Toynbee scrive che nel seno di una civiltà “aggredita” dall’Occidente si possono verificare due reazioni difensive: può formarsi un partito erodiano, formato cioè da coloro che non rifiutando la cultura aliena si fanno promotori di una autocolonizzazione forzata, al fine di evitare una colonizzazione imposta. Al contrario può formarsi un partito zelota composto da coloro che ostinatamente rifiutano ogni elemento della cultura altra.

Tuttavia, l’espediente del partito erodiano è destinato al fallimento, dato che è impossibile per una società tradizionale poter mantenere in piedi la propria struttura culturale se si consente l’infiltrazione di uno solo, benché apparentemente insignificante, elemento di una società aperta. Questo, scrive Toynbee in Il mondo e l’Occidente (1953), perché: “ogni struttura culturale storica è un tutto organico delle parti interdipendenti” pertanto “(…) se da una certa cultura si sfalda una scheggia e la si introduce in un corpo sociale estraneo, questa scheggia isolata tenderà a trascinarsi appresso, nel corpo estraneo in cui si è insediata, gli altri elementi costitutivi del sistema sociale dove la scheggia è di casa e da cui è stata staccata innaturalmente. La struttura infranta tende a ricostruirsi in un ambiente straniero in cui si è fatta strada una delle sue componenti”. Inoltre, “una volta messo in moto, il processo di acculturazione è inarrestabile e i tentativi degli aggrediti di frenarlo non avranno altro risultato che quello di rendere più straziante la cosa”.

E’ quella che lo stesso Toynbee definisce la legge di “una cosa tira l’altra”: infatti tale processo si fermerà “solo quando tutti gli elementi essenziali della società radioattiva siano stati impiantati nel corpo sociale della società aggredita, perché solo così la società occidentale può funzionare perfettamente”. Questo significa che di fronte a una società aggredita si aprono soltanto due strade: l’opzione zelota e cioè la chiusura totale, finché possibile, a tutto ciò che è estraneo; o l’estirpazione della tradizione e la mimesi totale della società occidentale, che potremmo definire la via kemalista, e cioè l’occidentalizzazione forzata attuata in Turchia da Mustafà Kemal. La via erodiana è solo un ibrido sterile e pericoloso, infatti, vista la vigenza della legge di “una cosa tira l’altra” è solo un modo per rallentare il declino della società tradizionale e nel contempo, paradossalmente, di aumentarne le contraddizioni creando situazioni esplosive.

Nel 1792 Giorgio III re d’Inghilterra organizzò una della più grandi missioni diplomatiche per aprire la Cina, che si era chiusa al mondo a partire dagli anni Trenta del ’400, ai commerci inglesi. Le cose andarono male e l’Imperatore Qialong non concesse niente a Lord Macartney a capo della spedizione; anzi, scrisse l’Imperatore in una splendida lettera per il re inglese, i cinesi non sapevano che farsene delle merci che avevano portato gli occidentali, perché loro, la più alta espressione del genere umano, si curavano soltanto delle più alte arti del governo.Gli inglesi ci riprovarono con le buone una seconda nel 1812 ma questa volta Lord Amherst nemmeno venne ricevuto dall’imperatore. La terza volta gli inglesi aprirono le porte della Cina, alle quali avevano bussato invano per due volte, con le cannonate. Era il 1839 e quella era la prima guerra dell’Oppio; la prima di una lunga serie di sconfitte per la Cina, che dal vertice delle grandi potenze, nel quale pensava di essere, si ritrovò umiliata, smembrata territorialmente e ridotta al rango di semi-colonia.

Per i cinesi lo shock fu enorme. Come era stato possibile che quelli che loro consideravano poco più che dei barbari fossero riusciti a sconfiggere il più grande impero della storia? L’Impero che solo qualche decennio prima aveva sdegnosamente respinto gli ambasciatori britannici fu costretto a prendere atto della propria debolezza e arretratezza. E’ in questo “contesto drammatico che la Cina ha dovuto «imitare» con grande urgenza e in modo doloroso l’Occidente”, come scrive François Julien (2017) in Pensare con la Cina.

Bisognava individuare le sorgenti della potenza europea e imitarle: fu questo il compito che si pose il movimento dell’autorafforzamento, e cioè l’opzione erodiana. “Una delle idee base del movimento dell’autorafforzamento (…) era quella di apprendere e utilizzare la tecnica e la scienza dell’Occidente in modo strumentale, permettendo, così, alla Cina di resistere alle aggressioni delle potenze, pur mantenendo la cultura e i valori tradizionali. Vennero creati uffici di traduzione, moderni arsenali, cantieri navali, cotonifici e altre industrie meccanizzate. Tuttavia l’ideologia dello Stato e della società rimaneva il Confucianesimo secondo la formula «il sapere occidentale come mezzo, il sapere cinese come fondamento»” (Mario Sabattini e Paolo Santangelo, Storia della Cina, 2005).

Un esperimento che non poteva riuscire perché le tecniche occidentali sono il prodotto di una Weltanschauung che ha la sua peculiarità proprio nell’essere anti-tradizionale. Un esperimento che poteva condurre soltanto alla “schizofrenia del sistema” In breve: l’esperimento non poteva riuscire perché, per utilizzare la terminologia di Karl Popper, si cercò di far convivere una società aperta all’interno di una società chiusa. I giovani che all’estero o in patria impararono le tecniche occidentali assorbivano con esse una visione del mondo allergica alla tradizione e alla stasi e “ritornava in Cina e alla vita cinese dopo aver vissuto esperienze sconvolgenti, che trasformavano i giovani studiosi in rivoluzionari decisi a mutare completamente la situazione del Paese” (Piero Corradini, Cina, 2005).

Fu per questo che la Cina non ebbe le vele e i cannoni ma la rivoluzione, la fine dell’Impero, elezioni di tipo occidentale e la repubblica di Sun Yat sen nel 1912. La reazione tuttavia non si fece attendere e, come in Iran più tardi, la lunga marcia di Mao Zedong fu innanzitutto il tentativo di richiudere le porte del Celeste Impero all’Occidente e al mondo. Fu il tentativo, comune a tutti i totalitarismi del Novecento, di ricreare una Gemeinschaft, retta dalla cogenza di una Tradizione vissuta come sacra: dal maoismo al Volk.

Mao durante la Lunga Marcia

 

Dopo i disastri che questa scelta causò, Deng Xiaoping decise alla fine degli anni ‘70 di aprire nuovamente le porte della Cina, e lo fece con lo stesso principio del movimento dell’autorafforzamento: innestare le industrie occidentali in Cina, così da favorire il trasferimento tecnologico e fare in modo che questi pezzi di Occidente lavorassero per la maggior gloria del Partito comunista cinese. Lo confessò candidamente in una intervista a Oriana Fallaci: sarete voi occidentali a renderci più forti, disse il “piccolo timoniere”, che però non si rendeva conto in questo modo di mettere in moto il vecchio meccanismo di “una cosa tira l’altra” che aveva mandato a gambe all’aria l’Impero.

Così nel 1989, quando i giovani cinesi iniziarono a chiedere le libertà occidentali come quelli del 1911, Deng (che nulla sapeva della legge di Toynbee) inviò i carri armati nelle strade a stroncare nel sangue quel naturale passaggio dalla modernizzazione economica a quella politica. Bloccando quel processo di trasfusione che lega la modernizzazione economica e tecnologica a quella culturale e politica.

Tutto ciò significa che quella cinese non è una via istituzionale alternativa al binomio “libertà e mercato”, ma un tentativo pericolosissimo di far convivere il diavolo con l’acqua santa, vale a dire autocrazia e mercato (quel poco che c’è). Tutto ciò vuol dire che la Cina è su un vicolo cieco. Il partito per restare al potere ha bisogno di aumentare sempre di più il controllo sulla società e sull’economia per evitare che questi sottoinsiemi acquistino sempre più autonomia; ma questo significa il progressivo raffreddamento dell’economia del paese, che si sta infatti sclerotizzando. Per ridare vita all’economia sarebbero necessarie delle riforme politiche, ma il sistema politico si è sclerotizzato anch’esso, intorno a un leader politico che ha scelto la vita del dispotismo asiatico.

E se, fino a qualche tempo fa, era ipotizzabile un sussulto dei pezzi di società aperta che pure erano presenti nel paese, ora tutto ciò pare improbabile. Il vecchio dispotismo asiatico che in Cina ha avuto millenni per affinarsi sta soffocando ogni spazio di libertà. Come dimostra il caso di Hong Kong.

Hong Kong era un pezzo di società aperta conficcata nel corpaccione del vecchio dispotismo asiatico cinese. Un’isola di libertà e prosperità la cui ricchezza non era certo stata prodotta dagli inglesi, ma da quella massa di disperati che per sfuggire alle purghe di Mao e alle violenze delle bande degli studenti con il Libretto rosso non videro altra alternativa che gettarsi senza avere niente con sé nel fiume delle Perle e farsi trasportare dalla corrente fino ad arrivare sulla costa.

È da questo mix di disperazione e della libertà garantita dalla rule of law britannica che nasce il miracolo di Hong Kong, che ha trasformato una manciata di scogli nel cuore pulsante dell’Asia.

Quando nel 1997 la città è ritornata sotto la sovranità cinese secondo il principio di una nazione (la Cina)- due sistemi (quello libero occidentale e quello dispotico cinese), si sono aperte due prospettive. O la società aperta di Hong Kong avrebbe esteso la sua influenza a tutta la Cina, diffondendo l’aspirazione a una vita libera, o il vecchio dispotismo asiatico, che è la pasta con cui è fatta in pratica tutta la storia cinese, avrebbe soffocato Hong Kong e le sue libertà. Sono ai nostri occhi si sta prendendo forma la seconda opzione, e noi stiamo assistendo alla scomparsa di Hong Kong.

Manifestazione di protesta contro il governo filo-cinese a Hong Kong, ottobre 2019

 

La questione è di grande rilevanza non solo per la scomparsa di Hong Kong in sé, ma perché se la Cina arriva a soffocare nel modo in cui lo sta facendo le libertà e i diritti, che pure aveva promesso di rispettare all’atto di annessione, allora significa che la causa della libertà e dei diritti, dell’autonomia della società e del mercato a petto del potere politico nel resto della Cina è definitivamente persa. Il Partito, così come aveva fatto nel 1989, è riuscito a tagliare quel filo che lega la modernizzazione economica a quella politica.

Il punto è che senza modernizzazione politica, senza la struttura dello Stato di diritto, il governo della legge, l’autonomia della magistratura, il rosario delle libertà liberali, senza una libera scuola e una libera stampa, nessun mercato può sopravvivere, e senza mercato non vi è sviluppo economico.

Così, di fatto, soffocando Hong Kong e quelle libertà che sono il vero motore della crescita economica, la Cina soffoca se stessa.

 

 

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