L’istituzione sbagliata per condividere il rischio sovrano

Come professore americano di Economia politica a Bologna, dedico notevoli energie allo studio dell’integrazione monetaria europea. L’Europa mi ha insegnato molto, eppure resto perplesso di fronte a certe decisioni. Perché, ad esempio, i governi dell’eurozona sembrano preferire la maggior condivisione del rischio sovrano insita nel ricorso alla BCE, invece di mutualizzare il debito con uno strumento creato appositamente per collocare titoli sui mercati? Questa scelta bizzarra riveste una grande importanza, perché i rischi che l’Unione Europea corre oggi sono i maggiori della sua storia.

La sede della BCE a Francoforte

 

CONDIVIDERE IL RISCHIO, MUTUALIZZARE IL DEBITO. Il dibattito sulla condivisione (o mutualizzazione) del debito sovrano non è totalmente controverso. Sugli aspetti tecnici vi è generale accordo. Il primo passo consiste nel creare un’istituzione deputata a raccogliere credito sui mercati,
emettendo obbligazioni. Ogni governo partecipante dovrebbe impegnare una certa somma a
garanzia del veicolo in questione, affinché gli investitori confidino nel fatto che il loro investimento sia ripagato. Gli esecutivi dovrebbero altresì assicurarsi che il debito venga estinto, anche se ciò implica sborsare più di quanto originariamente stabilito. Se vi sono perdite, ogni paese deve contribuire a risarcire i creditori. È così che si condivide il rischio.

C’è un altro principio su cui tutti concordano: il governo che spende il denaro deve anche rifonderlo. Come ho scritto il 6 aprile scorso su Foreign Affairs, il dibattito verte piuttosto sul modo di spendere e rimborsare il denaro. In particolare, ci si divide sul fatto che i prestiti possano o meno essere usati per estinguere debiti pregressi, nonché sulle condizioni per accedere alle linee di credito. Alcuni politici vogliono porre restrizioni all’uso dei prestiti e controlli in capo ai governi che vi ricorrono; altri insistono per limitare le condizioni e abolire i controlli.

IL RUOLO DELLA BCE. La controversia ha generato uno stallo in seno all’Eurogruppo, come emerge dalla recente modifica del Regolamento ue sulla segnalazione di informazioni finanziarie a fini di vigilanza. La conseguente necessità per i governi europei di contrarre debito autonomamente crea disparità fra gli Stati membri: certi paesi possono indebitarsi a tassi risibili, altri devono pagare interessi maggiori. Riflettendo i diversi meriti di credito, questi divari alimentano, in un circolo vizioso, il rischio che alcuni governi non riescano a finanziare la lotta alla pandemia e alle sue conseguenze socioeconomiche, ovvero si rivelino incapaci di ripagare i debiti contratti a tal fine.

È verosimile che questa impasse si protragga finché la situazione non si deteriori a tal punto da
convincere le “formiche” a concedere un accesso incondizionato ai fondi, o da forzare le “cicale” ad accettare restrizioni e controlli. Nel frattempo, i paesi dell’eurozona sono ben lieti che sia la BCE ad attenuare il grosso della pressione sui titoli di Stato e a calmierare, almeno in parte, i differenziali tra i tassi d’interesse pagati dai governi.

Se tutto va bene, si pensa, Francoforte riuscirà a stabilizzare i mercati abbastanza a lungo da
far passare la crisi e da consentire ai due schieramenti di proseguire il loro contenzioso sulla
mutualizzazione del debito, fino al raggiungimento di un accordo (forse).

È questa la parte che trovo incomprensibile. Per stabilizzare il mercato dei debiti sovrani, la BCE
compra le obbligazioni esistenti, accettandole come collaterale (garanzie) per prestare danaro alle
banche. La Banca centrale acquista inoltre una vasta gamma di strumenti creditizi da organizzazioni
internazionali e aziende private; di recente, ha iniziato ad accettare come collaterale persino debito non scambiabile, sobbarcandosi il relativo rischio d’insolvenza. Accetta in più l’eventualità che il valore di mercato delle obbligazioni fluttui, con il rischio che quando arrivano a scadenza valgano meno di quando le ha acquistate.

All’uso della BCE come strumento di condivisione del rischio sovrano si associano due importanti
circostanze. Primo: una delle principali controversie relative alla mutualizzazione del debito
concerne l’uso dei prestiti per coprire debiti pregressi (contratti cioè prima della pandemia); ma per Francoforte, l’acquisto di debito pregresso è normale amministrazione. Secondo: la Banca centrale europea sopporta un rischio legato alla fluttuazione dei prezzi di mercato, di cui viceversa un normale emettitore non deve preoccuparsi. Quando un’entità colloca delle obbligazioni, il corrispettivo che incassa è fisso; qualsiasi rischio legato alla fluttuazione del valore di mercato dei titoli resta in capo all’acquirente. Quando la bce compra le obbligazioni sovrane, si espone dunque al rischio che le quotazioni di mercato delle stes- se crollino, ovvero che il loro valore effettivo sia inferiore al prezzo di acqui- sto quando arrivano a scadenza. (Al riguardo, è incredibile quanto denaro abbiano perso alcune banche centrali dell’eurozona su obbligazioni sovrane acquistate a prezzi ben superiori ai successivi valori di rimborso.)

 

SVANTAGGI COMPARATI. Certo, la BCE può compensare qualsiasi perdita sul suo portafoglio titoli, perché beneficia dei profitti sugli investimenti effettuati e perché dispone del capitale di garanzia versato dai suoi sottoscrittori al momento di aderire all’euro. Tuttavia, dato che i suddetti altro non sono che i governi dell’eurozona, ne discende ipso facto che questi ultimi condividono i rischi sul portafoglio di Francoforte. Ciò non vale per tutto quanto fatto dalla bce al fine di stabilizzare i mercati; ad esempio, i governi hanno deciso di non condividere i rischi associati ai loro investimenti in titoli emessi da soggetti terzi (ecco perché prima, tra parentesi, accennavo ai soldi persi dalle singole banche centrali, non dalla bce). Tuttavia, resta vero per il grosso del bilancio dell’istituto. Pertanto, in una certa misura i rischi associati alla stabilizzazione del debito sovrano da parte dalla Banca centrale europea risultano mutualizzati (sebbene non lo sia l’accesso dei governi al mercato).

L’aspetto ancor più singolare di questa costruzione bizantina è che potrebbe rovinare su sé stessa se uno o più paesi perdessero l’accesso al credito. Quando il debito pubblico di uno Stato risulta incollocabile, infatti, la bce non può più acquistarlo. Nemmeno con quegli acquisti dell’ultimo minuto che l’allora presidente dell’istituto Mario Draghi promise con il suo famoso discorso del “whatever it takes”, pronunciato nel luglio 2012, durante l’ultima crisi. Inoltre, Francoforte promette di comportarsi come qualsiasi altro creditore quando acquista titoli sul mercato; sicché deve accettare perdite in caso di ristrutturazione del debito. Le probabilità di un’insolvenza sovrana saranno anche basse, ma sono certamente maggiori rispetto al rischio che un governo non riesca a rimborsare prestiti contratti mediante un accordo di mutualizzazione del debito.

Quando si considerino queste circostanze, appare chiaro che fare affidamento sulla BCE comporta
non solo maggiori rischi correnti associati all’acquisto e alla detenzione di obbligazioni, ma anche maggiori rischi eccezio- nali e potenzialmente catastrofici nel caso in cui uno o più debitori dovessero rivelarsi insolventi. Insomma, ricorrendo alla Banca centrale, i governi dell’eurozona accettano di fatto un livello di mutualizzazione del rischio maggiore di quello associato a uno strumento creato appositamente per raccogliere capitali sul mercato.

 

IL PROBLEMA DELL’OTTIMISMO. Il paradosso ha senso solo se il bilancio della BCE è abbastanza grande da impedire a un singolo governo di inguaiarsi sui mercati fino a precipitare
nell’insolvenza. È questa la scommessa, almeno fintanto che l’Europa permane nella crisi attuale. Occorre sottolineare, però, che nell’aumentare il proprio bilancio, Francoforte mutualizza una quota sempre più grande di rischio sovrano: un bilancio maggiore significa un rischio maggiore da gestire, in nome e per conto di tutta l’eurozona.

La questione, dunque, è come la BCE gestirà il proprio bilancio una volta passata la tempesta. Si tratta di un grosso dilemma, perché ogni decisione in merito produrrà effetti immediati sulle finanze nazionali, sulla stabilità dei mercati e sull’inflazione; ma anche perché la Banca centrale non è stata creata per compiere scelte che abbiano impatti diretti sulle finanze pubbliche. Il mandato di Francoforte è mantenere la stabilità dei prezzi; è solo da poco che ha accettato responsabilità in merito alla supervisione finanziaria. Le decisioni che la bce è chiamata a prendere riguardo alle finanze statali coprono un ampio ventaglio di temi: quando intervenire per stabilizzare i tassi d’interesse sui titoli sovrani; quali titoli acquistare o accettare come collaterale e quali no, perché troppo rischiosi; quando è tollerabile fare eccezioni; quali obbligazioni comprare e in quali contesti; per quanto tempo mantenere i titoli a bilancio; cosa fare con gli investimenti principali quando vengono a scadenza. Francoforte deve inoltre decidere le proporzioni degli acquisti, in termini di nazionalità e di categoria dei titoli; quanto acquistare di ogni emissione e da ogni emettitore; quando è giustificato allentare le restrizioni alle proprie politiche; quando è opportuno ripristinarle. La Banca centrale europea è in grado di compiere tali scelte, non manca certo delle necessarie competenze tecniche. Ma deve anche contemperare interessi, a volte confliggenti, relativi al finanziamento dei governi, alla stabilità dei mercati e alla performance macroeconomica. I dilemmi che ne derivano genereranno controversie; le loro implicazioni creano vincitori e perdenti nell’eurozona.

Dopo tutto, nel 2015 la BCE ha reintrodotto i requisiti minimi di rating sui titoli greci da accettare come collaterale; difficilmente l’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis l’avrà dimenticato. Anche in Irlanda sono in molti a conservare vividi ricordi di quelli che altri considerano astrusi dettagli di tecnica finanziaria. Come abbiamo avuto modo di constatare dal 2008 in poi, le decisioni della BCE suscitano l’attenzione dei governi nazionali, dei partiti politici e delle opinioni pubbliche. Oggi tutti si concentrano sul coronavirus, ma solo pochi mesi fa a infiammare il dibattito era il populismo e i guasti delle democrazie.

Considerare la Banca centrale europea quale risposta principale alla crisi odierna non solo mutualizza il rischio finanziario tra i paesi dell’eurozona molto più di quanto farebbe un apposito strumento creditizio comune; implica anche demandare la gestione dell’euro in una fase critica a un’istituzione mal equipaggiata per questo. Tuttavia, i politici dell’eurozona preferiscono continuare così pur di evitare un accordo che comporti una minor condivisione del rischio, rassicurando al contempo sulla solidità dell’euro.

 

LA CREATIVITÀ DEGLI EUROPEI. Certamente, alla politica europea non mancano i motivi di frizione. Del resto, che un vincolo come la moneta unica provochi disaccordi e malumori non sorprende. Ciò che non arrivo a capire, invece, è come i politici europei possano immaginare che i problemi attuali spariscano d’incanto, o siano affrontabili singolarmente dai vari paesi, o possano essere domati da istituzioni inadatte a gestire tensioni politi- che (anche perché concepite per essere super partes).

I rischi che gli europei fronteggiano oggi sono già mutualizzati, nel senso che quanto accade in una parte d’Europa produce un impatto sulle altre. La sfida è ora trovare un modo per costruire istituzioni capaci di gestire quei rischi nel modo più efficiente e duraturo possibile. La storia dell’integrazione europea sta lì a dimostrare l’ingegno degli europei al momento di affrontare simili sfide. A ben vedere, nessuno più di loro è capace di condividere i rischi tra paesi.

La moneta unica e la BCE sono proprio il tipo di passi senza precedenti che, nelle giuste circostanze, gli europei sono disposti a compiere, malgrado l’aspro dibattito politico e le polemiche interne. Si stenta a credere che i politici europei possano gettare alle ortiche tali istituzioni in un momento di estremo bisogno, sovraccaricandole di rischi inutili e di responsabilità per cui non sono state concepite. È possibile che, a forza di temporeggiare, riescano a sfangarla anche questa volta; ma la loro capacità di affrontare le inevitabili crisi future risulterebbe fortemente compromessa.

 

 


Una versione di questo articolo è apparsa su Encompass-Europe.com.

 

 

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