Il voto in Francia e i suoi tanti possibili esiti

“Ce l’abbiamo fatta!”, è il grido che ognuno, da simpatizzante, militante o candidato (a volte, persino da astensionista) vorrebbe poter pronunciare dopo una notte elettorale. Specialmente una come quella del 30 giugno in Francia dove, per dirla alla David Grossman che di svolte epocali se ne intendeva, “vita e destino” di un Paese sembrano davvero sul punto di cambiare.

Ma il primo turno delle elezioni anticipate per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale, la Camera del parlamento francese che dovrà dare la fiducia al prossimo governo, lascia spazio sì a tanti punti esclamativi, ma anche a una fila notevole di interrogativi.

I francesi si sono affollati alle urne – cosa che da tempo non facevano per occuparsi della propria assemblea legislativa, subordinata una riforma dopo l’altra alla posizione del Capo dello Stato, anche dal punto di vista del calendario: di norma si rinnova infatti subito dopo aver scelto il Presidente della Repubblica, come un biglietto da obliterare. Ha votato il 66,7%, non sembra tantissimo, ma è un livello che non si raggiungeva da quasi trent’anni, proprio dall’ultima volta (1997) che il voto parlamentare fu staccato da quello presidenziale; due anni fa non era andata ai seggi nemmeno la metà degli aventi diritto (il 47,5%).

Il risultato dei principali raggruppamenti al primo turno delle elezioni legislative francesi, 30 giugno 2024 (Le Monde).

 

Dei tre grandi blocchi in lizza, l’estrema destra, il centro macroniano e l’alleanza di sinistra, è il primo che ha ricevuto più voti: il 33,2%. Alle elezioni europee del 9 giugno il Rassemblement National (RN) di Marine Le Pen e Jordan Bardella (ora candidato alla guida del governo) aveva ottenuto il 31,4. La lista macronista si fermava invece al 14,6: proprio questa cocente disfatta aveva spinto Emmanuel Macron a sciogliere l’Assemblea, dove il suo partito aveva la maggioranza relativa dei seggi, facendo saltare il governo guidato dal fedelissimo Gabriel Attal, per cercare nuovi equilibri politici.

Il primo dei nuovi equilibri è questo: il partito di Marine Le Pen continua la sua progressione esponenziale in termini di seggi. Era a zero nel 2007. Ne ottenne 2 nel 2012. Furono 8 nel 2017. Divennero 89 nel 2022. E saranno tra i 240 e i 300 stavolta. E’ la traduzione numerica di una crescita elettorale impressionante, sempre più sostanziosa e sostanziale proprio durante gli ultimi anni, quelli che Macron ha passato all’Eliseo. Del passaggio da un voto marginale e di protesta, al radicamento largo nelle zone deindustrializzate del nord-est e nell’arco mediterraneo, all’odierno dilagare in tutti i territori del Paese (e in parallelo in tutte le categorie sociali), con l’eccezione delle città più importanti, in particolare Parigi e la sua area metropolitana. [molti dati, qui].

Ma il RN non “ce l’ha fatta”: non ha ancora compiuto l’ultimo passo della lunga strada che dalle pieghe oscure del dopoguerra, da quando nel 1956 il ventottenne Jean-Marie Le Pen (padre di Marine) fu il più giovane deputato eletto all’Assemblea, per la lista reazionaria Unione e Fraternità Francese, e da veterano d’Algeria e Indocina ed ex legionario divenne capo del “Fronte Nazionale dei Combattenti”, conduce nelle rilucenti stanze del potere francese. Perché tra 240 seggi e 300 cambia molto. La soglia della maggioranza assoluta all’Assemblea è fissata a 289, e dunque al di sopra di questa cifra il RN potrà governare da solo. Al di sotto, potrà provare a costruire delle intese tirando dentro altri deputati o gruppi. Ma non è affatto detto che ci riesca.

Marine Le Pen e Jordan Bardella

 

La ragione sta nel sistema elettorale francese, che prevede il doppio turno per eleggere i deputati all’Assemblea – un po’ come per i sindaci in Italia. Questo significa che la maggior parte dei posti non è stata ancora assegnata, anche se il RN ne ha già presi 39 al primo turno. Tra loro, Marine Le Pen, rieletta con il 58% nell’11° collegio del Passo di Calais, territorio-culla del partito. Jordan Bardella è invece al secondo mandato da europarlamentare ed è consigliere regionale in Ile de France. Il ventottenne (anche lui) che ora aspira alla guida del governo è stato in coppia per quattro anni con una nipote del patriarca Jean-Marie, fatto importante in un partito in cui le logiche di clan sono fondative e fondamentali. Bardella non era in gara per un seggio, ma la mamma della sua ex, sorella maggiore di Marine, sì: Marie-Caroline Le Pen è arrivata in testa nel 4° collegio della Sarthe, zona di Le Mans, ma dovrà vedersela al ballottaggio con una candidata del Nuovo Fronte Popolare (l’alleanza di sinistra) e una di Ensemble, la lista macronista.

Sì perché in Francia il secondo turno non è riservato solo ai due candidati più votati. Possono esservi ammessi anche altri, purché abbiano ricevuto un certo numero di consensi, da calcolare secondo un quoziente. In questo passaggio è la chiave del risultato elettorale. E’ vero infatti che il RN è il partito più votato. E’ vero anche che parte in vantaggio in molti ballottaggi, ma è anche vero che gli altri due raggruppamenti – Nuovo Fronte Popolare (FP) e Ensemble – possono mettersi d’accordo per unire i loro voti contro il nome dell’estrema destra. Ciò accadrebbe proprio in questi ballottaggi a tre, detti triangolari: il candidato più debole “desisterebbe”, invitando ufficialmente i suoi elettori a convergere sull’altro, che grazie a questo travaso supererebbe il Rassemblement National.

Il FP ha ottenuto a livello nazionale il 28,3% dei suffragi. Ensemble, il 21,7%. Insieme sopravanzano largamente l’estrema destra. Ma sommare questi voti – per dire “ce l’abbiamo fatta”, a bloccare il RN – non è tanto semplice: i partiti del Fonte Popolare – socialisti, verdi, e radicali “indomiti” di Jean-Luc Mélenchon – sono costituzionalmente contro Macron. Sono stati sempre in piazza nei tanti e prolungati episodi di conflittualità sociale esplosi in Francia negli ultimi anni (un clima non facile da comprendere per noi: anche la sera delle elezioni nei centri delle città i negozianti hanno deciso la serrata, “per prudenza”). I gilet gialli, il movimento contro la riforma delle pensioni, e tante altre proteste, sono state il collante della loro intesa, che gli ha permesso di superare la patologica litigiosità interna. Il loro buon risultato elettorale, tre milioni di voti in più rispetto al 2022, è proprio dovuto a questa palestra d’opposizione.

I negoziatori e i principali dirigenti della sinistra francese in posa dopo aver raggiunto l’intesa per il Nuovo Fronte Popolare

 

D’altra parte, lo stesso progetto politico macroniano nasce come rivoluzione tecnocratica antipolitica. Nasce per rottamare i vecchi partiti tradizionali: come una specie di buco nero posto al centro dell’arena politica, il macronismo li ha inghiottiti e riversati in una dimensione del tutto nuova, con diverse coordinate. Prima è toccato alla componente socialista, che era stata dei Mitterrand, dei Jospin e degli Hollande; poi a quella gaullista di centro-destra, degli Chirac, dei Sarkozy e dei Fillon. I più fortunati, cooptati dentro la macronìa. Gli altri, resi inoffensivi e irrilevanti.

Tra le aspirazioni di Macron, apertamente, c’è sempre stata la negazione della contrapposizione tra destra e sinistra. La competenza e il merito, diceva, sarebbero dovuti bastare, come stella polare. Durante la breve campagna elettorale, il Presidente ha ribadito che “l’estrema destra e l’estrema sinistra incarnano il rischio di guerra civile”. E si è presentato come “baluardo democratico” tra due radicalismi definiti come ugualmente pericolosi. D’altra parte, se l’alleanza tra macronisti e sinistra deve oggi servire “per fermare il RN”, perché non si è fatta invece delle elezioni? Nell’Assemblea sciolta da Macron il 9 giugno c’erano tutti i numeri per realizzarla.

 

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La collaborazione di due blocchi socio-politici che si percepiscono come alternativi e oppositivi non è dunque tanto lineare. A questo va aggiunto che il macronismo è più impopolare che mai: la Francia economicamente è il Paese più pessimista d’Europa, con il 71% delle persone che credono che i figli saranno più poveri dei genitori. E le opinioni favorevoli al presidente sono da tempo inferiori al 30%. Perciò in tanti potrebbero comunque rifiutarsi di votare un suo candidato, oppure scegliere nonostante tutto il Rassemblement National, per voltare pagina. In effetti nei vari collegi gli elettori si sono divertiti a castigare le figure più eminenti del macronismo: il ministro degli Interni Gérald Darmanin, quello dell’Economia Bruno Le Maire, la ex prima ministra Elisabeth Borne e l’attuale Gabriel Attal sono tutti costretti al ballottaggio in posizione scomoda nei loro rispettivi collegi. La domanda è appunto se gli elettori di sinistra, presi di mira dalle loro politiche e spesso anche dalle forze dell’ordine, il cui codice di condotta è stato radicalizzato sotto Macron, andranno a votare per salvare il posto a questa classe dirigente.

I macronisti ne sono consapevoli: già esterrefatti per l’indizione delle elezioni anticipate con soli venti giorni d’anticipo sulla data stabilita, oggi tra loro c’è un clima da Squid Game: si salvi chi può, a qualsiasi costo. Nell’Assemblea sciolta dopo le europee del 9 giugno sedevano 245 deputati di obbedienza presidenziale. Circa due su tre di loro perderanno il posto – e non saranno certo i grossi calibri a essere risparmiati, come sa già il ministro degli Affari Europei Clément Beaune, strettissimo collaboratore dell’Eliseo a Bruxelles in questi ultimi anni, sconfitto nel 7° collegio di Parigi, quello che va da Notre-Dame alla Bastiglia. L’area metropolitana parigina è stata invece molto generosa nei confronti del Fronte Popolare, che ha fatto man bassa di collegi soprattutto nel nord e nell’est meno benestanti, totalizzando 31 eletti al primo turno, e soprattutto guadagnando il grado di secondo gruppo più consistente, nel prossimo parlamento, dopo quello lepenista.

E’ questa forse la vera certezza che emerge dal primo turno appena concluso: la Francia è tornata a dividersi tra destra e sinistra; il ciclo macronista, con la perdita della maggioranza in parlamento e la scadenza del secondo mandato presidenziale nel 2027, appare avvitato su sé stesso, senza avere quasi nulla a cui appigliarsi. Va sottolineato che il 20,8% dei consensi non è un disastro, soprattutto partendo dal 14,6 delle europee. I critici evidenziano però un dato spietato: durante gli anni di Macron i voti al partito di Marine Le Pen sono cresciuti dai 3 milioni del 2017 ai 10 milioni e mezzo del 30 giugno 2024.

Il partito in testa nei singoli collegi elettorali francesi. In rosso (radicali) rosa (socialisti) e verde (ecologisti) la coalizione del Nuovo Fronte Popolare. In giallo le liste macroniane. In azzurro i Repubblicani. In blu la coalizione del Rassemblement National. (Fonte: Contexte)

 

Ma chi governerà questo nuovo scenario non è affatto certo. Lo farà il Rassemblement National, se avrà i numeri, avviandosi a un’inedita coabitazione con Macron fino al 2027, quando Marine Le Pen tenterà il quarto assalto alla Presidenza della Repubblica. A fare da stampella al RN potrebbero arrivare anche quei Repubblicani (la destra classica, o ciò che ne rimane) che in campagna elettorale si sono lacerati tra annessionisti, cioè quelli che volevano dare sostegno diretto all’estrema destra, o indipendentisti, favorevoli alla corsa solitaria, che gli ha fruttato il 7,2% dei voti. I primi, guidati da Eric Ciotti, che verrà eletto nel suo collegio del centro di Nizza, potrebbero però trascinare con sé i secondi, se il Rassemblement dovesse arrivare a pochi seggi dalla maggioranza assoluta: in quel caso sarebbero decisivi, nel futuro parlamento. Sempre meglio che nel buco nero macronista, osservano. Buco nero che però potrebbe anche trasformarsi nel cilindro del prestigiatore, da cui uscirebbe un governo di transizione, tecnico, se proprio non si trovasse nessuna maggioranza politica.

Le vie aperte sono molte, e tra queste esiste anche la possibilità di un’intesa di governo tra il gruppo presidenziale e il Fronte Popolare, dovesse funzionare così bene il meccanismo delle desistenze: a quel punto il compito di arginare l’estrema destra toccherebbe a un esecutivo plurale, a delle intese larghissime che vanno dalla sinistra radicale ai liberal-conservatori. Non esattamente il manifesto della solidità politica. Non esattamente lo scenario preferito da Macron, che alle desistenze continua a porre condizioni e distinguo, e che ha definito il Fronte Popolare chienlit (più o meno “bordello”: descriveva così Charles De Gaulle la Francia in rivolta nel 1968).

 

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Ma non è la ricerca del compromesso o la condivisione del potere la lente da cui poter interpretare le scelte di Macron. Invece che da padrone di casa mal tollerato del caminetto della sinistra plurale, il Presidente sembra vedersi molto meglio nella posizione del garante delle istituzioni assediate dal caos, la zattera a cui si aggrappano i naufraghi della République, come quelli della Medusa dipinti da Géricault. E se proprio fosse, si ritiene certo in grado di dominare, sabotare e sgonfiare, dall’alto del suo posto all’Eliseo, l’eventuale futuro governo di Jordan Bardella: al grado assoluto dell’elitismo, sarebbe il suo solitario “ce l’ho fatta!”.

La parola torna agli elettori, il 7 luglio.

 

 

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