Il sistema israeliano in Cisgiordania: un approccio coloniale in violazione del diritto internazionale

Mentre assistiamo in tempo reale al genocidio che da quasi due anni si compie nella Striscia di Gaza, il progetto israeliano per ridisegnare la geografia e la demografia anche della Cisgiordania avanza sottotraccia. E si perfeziona nell’ombra del discorso internazionale.

Il premier israeliano Netanyahu mostra piani per l’annessione di terre in Cisgiordania (2020)

 

L’approvazione a larga maggioranza in Knesset, il 23 luglio scorso, della mozione – al momento priva di effetti giuridici reali – che chiede la formale estensione della sovranità israeliana su Giudea, Samaria e Valle del Giordano (ossia l’intera Cisgiordania), non è che l’ultima, chiarissima, espressione dell’agenda politica di Israele.

Da sessant’anni almeno, in aperta violazione dei principi fondanti del diritto internazionale, Tel Aviv persegue un progetto coerente di colonialismo d’insediamento sulla sponda occidentale del Giordano. E mantiene sotto un regime di segregazione razziale e apartheid i quasi tre milioni di palestinesi che la abitano, relegati a uno stato d’eccezione permanente in cui non solo ogni garanzia giuridica è indefinitamente sospesa ma l’intero ordine giuridico è neutralizzato, rimpiazzato da una struttura reticolare di oppressione politica, giuridica e militare. Uno scenario che equivale, già ora, a una progressiva annessione de facto.

 

Il quadro storico-giuridico

Appellandosi a ragioni storiche e giuridiche, lo Stato Ebraico si è sempre riferito alla West Bank come a un “territorio conteso” e non occupato – nonostante lo stato di occupazione illegale sia riconosciuto ormai pure dalla Corte internazionale di giustizia, che si è pronunciata con uno storico parere consultivo a luglio 2024 ricevuta la questione a seguito della risoluzione votata nel dicembre 2022 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, regolarmente intervenuta sul tema a fronte di un Consiglio di Sicurezza spesso in stallo per il veto statunitense.

Lo ha fatto sin dal 1967, quando, all’esito della Guerra dei Sei Giorni, la strappò al controllo giordano. E proprio da questa posizione ha potuto garantirsi ampio margine di manovra nel rivendicare il diritto a sottrarsi ai molti obblighi dell’occupante (che comunque resterebbero pienamente vincolanti a prescindere dalla qualificazione controversa del territorio).

È dentro questa architettura di conquista che Israele ha sistematicamente invocato motivazioni di imminente necessità militare e sicurezza a legittimare la propria presenza strutturalmente militarizzata sul territorio. E, con quella, il governo dei confini, dello spazio aereo, della circolazione di merci e persone, della sicurezza, della pianificazione urbanistica e delle pratiche fondiarie, persino dell’anagrafe.

La colonia israeliana di Givat Zeev in costruzione nei pressi della capitale palestinese Ramallah

 

Dall’alba di quella che è diventata la più lunga occupazione militare illegale della Storia moderna, i Regolamenti d’emergenza ereditati dal Mandato britannico hanno costituito l’impalcatura giuridica dell’ampio ventaglio di poteri eccezionali di repressione e controllo conferiti all’esercito israeliano in Cisgiordania. Sopravvivendo anche agli Accordi di Oslo, che – sabotati, va detto, anche dalle spaccature interne al fronte palestinese come dalle limitate capacità di autogoverno di un’Autorità Nazionale Palestinese fragile e poco legittimata – non sono riusciti a scalfire la capillarità di un apparato di dominio che Tel Aviv ha sostanzialmente conservato ben al di là delle formali cornici negoziali.

Quegli Accordi, che muovevano dal reciproco riconoscimento tra lo Stato di Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, avrebbero dovuto avviare un graduale processo di ridispiegamento della presenza israeliana nella direzione di una sempre maggiore autonomia palestinese. E perciò disegnarono un assetto transitorio fondato sulla creazione di un’autorità palestinese ad interim e la suddivisione della Cisgiordania in aree sottoposte a regimi di controllo differenziati con gradi variabili di competenza palestinese e ingerenza israeliana, nell’attesa di negoziati sullo status definitivo. Che però non sono mai stati conclusi, naufragati nella debacle diplomatica di Camp David. Piuttosto radicò quella che molti osservatori definiscono una “geografia del disastro”: il territorio palestinese ridotto a un mosaico di aree isolate, accerchiate e alla dipendenza pressoché totale da Israele.

 

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Detenzioni amministrative, confische e demolizioni di proprietà, punizioni collettive, separazioni stradali e restrizioni di movimento hanno finito per essere normalizzate come pratiche ordinarie di governo in Cisgiordania. Draconiani ordini militari – oltre 1800 quelli in vigore, tra cui il famigerato Ordine 101 che punisce l’espressione politica “o suscettibile di essere interpretata come politica” – si sono imposti come principale fonte normativa per i palestinesi, che per i loro reati, reali e presunti, sono giudicati da tribunali militari che fanno registrare tassi di condanna prossimi al 100%. L’uso della forza, sproporzionata e spesso letale, è sistemico.

E quello che i gruppi per i diritti umani e i relatori speciali delle Nazioni Unite denunciano come un abusivo e abusante doppio sistema giuridico e istituzionale non risparmia nemmeno i bambini. Da decenni – è l’accusa degli esperti indipendenti riassunta in un comunicato ufficiale rilasciato a luglio 2024 – i palestinesi nella Cisgiordania occupata sono bersaglio di processi iniqui nel quadro di un ingranaggio di ingiustizia che avalla l’occupazione e gli insediamenti illegali e “chiude un occhio” sulla violenza e la criminalità dei coloni. È lo stesso sistema, tuona la nota, incardinato su giudici militari che “forniscono costantemente copertura legale e giudiziaria agli atti di tortura e ai trattamenti crudeli e degradanti perpetrati contro i detenuti palestinesi dai loro colleghi delle forze armate e delle agenzie di intelligence”, rendendo peraltro impossibile qualsiasi difesa legale.

Se da generazioni, ogni giorno, sulle rive del Giordano, nasce un palestinese senza diritti civili – per parafrasare Human Rights Watch, da altrettante generazioni, sulle stesse colline, per le stesse strade, agli occupanti civili israeliani è riconosciuto uno status legale superiore.

Nell’Area C, che rappresenta circa il 60% del territorio cisgiordano e ricade sotto la piena amministrazione civile e militare di Israele, unicamente ai cittadini israeliani residenti nelle colonie – e in parte anche agli “ebrei secondo la Legge del Ritorno”, che non hanno cittadinanza israeliana – si applica, a titolo personale, la giurisdizione civile israeliana. Che si traduce in accesso a diritti, protezione e servizi garantiti da Tel Aviv: giustizia, sanità, welfare, educazione, registri civili, tutti deliberatamente negati ai palestinesi che restano al giogo della legge militare.

La storica organizzazione non governativa israeliana Peace Now oggi conta in West Bank 141 insediamenti in continua espansione – si è appena registrato il record storico con la promozione di quasi 20.000 unità abitative solo dallo scorso gennaio. 270 sono gli avamposti, molti dei quali in via di regolarizzazione dal 2024. Complessivamente sarebbero non meno che mezzo milione gli israeliani in terra palestinese, senza considerare quelli insediati a Gerusalemme Est. E ora si punta al milione pieno con l’approvazione dei piani per l’area E1, sulla Gerusalemme-Gerico, che marcherebbero la frattura geografica e demografica definitiva, tagliando di fatto a metà la Cisgiordania.

 

Gli sviluppi recenti e l’approccio dei governi Netanyahu

Si collocano all’interno di una visione strategica di lungo periodo, che ha l’obiettivo di rafforzare la presa israeliana sul territorio ed evitare la creazione di uno Stato palestinese”, ha dichiarato, senza lasciare adito a incertezze, il ministro israeliano della Difesa Katz , affiancato dal ministro delle Finanze Smotrich, autorizzando in maggio più di una ventina di nuovi insediamenti che per il diritto internazionale sono indiscutibilmente illegali.

È corsa all’accaparramento delle terre. Le motivazioni spaziano su diversi livelli. Ci sono i motivi ideologico-religiosi che infervorano le frange più radicali; gli incentivi fiscali, le sovvenzioni governative speciali e le politiche preferenziali sull’assegnazione dei terreni, l’edilizia abitativa e le misure infrastrutturali che allettano molti altri; e anche le complesse manovre di ingegneria legale affinate nei decenni dallo Stato Ebraico.

Così le colonie si fanno struttura politica. Sono “i nuovi fatti sul terreno” che il governo pianifica, finanzia e protegge brandendo la ragione politica ricorrente: che l’assenza di una controparte affidabile e il presunto mancato rispetto degli Accordi da parte palestinese – riconosciuto in parte anche dalla comunità internazionale – rendano inevitabile il consolidamento del controllo territoriale, nelle maglie di un processo di pace arenato. Una questione di sicurezza nazionale, dunque.

Mentre – lo dice il rapporto siglato a settembre 2024 dal Segretario generale delle Nazioni Unite – con l’allineamento delle normative edilizie e il rafforzamento delle competenze ministeriali sulla gestione amministrativa dei Territori Occupati, in particolare sulla pianificazione in Area C, per le comunità ebraiche costruire in West Bank è diventato “sostanzialmente identico” che farlo in suolo israeliano, per i palestinesi è praticamente impossibile ottenere permessi di costruzione (il 95% delle loro richieste viene regolarmente rigettato).

La riqualificazione dei terreni, poi, riduce ogni giorno di più la proprietà privata palestinese a un miraggio. Terreni di Stato, zone militari chiuse, aree di tiro, aree di interesse culturale e archeologico, persino riserve naturali – “colonialismo green” lo chiama l’Associazione internazionale degli avvocati democratici, coprono percentuali sempre maggiori di territorio. Il dossier di aggiornamento tematico delle Nazioni Unite di maggio 2025 segnala che quest’anno si è realizzata la più grande confisca di territorio dichiarato demaniale dal 1992, e che il 99,76% dei milioni di ettari di terreni palestinesi che Tel Aviv ha fin qui espropriato come “Land State” sono illegalmente assegnati agli israeliani.

Ed è in atto un processo sistemico di trasferimento dei poteri sull’avanzamento degli insediamenti dall’esercito al governo civile israeliano – in particolare alla neonata Amministrazione degli insediamenti, diretta dal ministro aggiunto alla Difesa (il già ministro delle Finanze Smotrich) – che segna un passaggio di sovranità funzionale eloquente: si lascia cadere la maschera dell’“amministrazione militare temporanea” e si riconduce apertamente l’affare Cisgiordania nell’orbita della politica pubblica nazionale di Israele.

In questa direzione, l’11 maggio scorso il governo Netanyahu ha approvato la riattivazione del processo di registrazione fondiaria in Cisgiordania, sospeso dal 1967. Una misura che consente allo Stato Ebraico di condurre indagini catastali, stabilire titolarità e assegnare terre con un valore legale permanente, sottraendole a ogni possibile rivendicazione palestinese. È la configurazione finale di un meccanismo di annessione territoriale, vestita da semplice atto amministrativo.

Sequestri, sgomberi e demolizioni, oltre che un esteso repertorio di atti di violenza quotidiana, spingono i trasferimenti forzati dei palestinesi e spianano il terreno agli occupanti. Blindati, muri, e manette. Ma anche sentenze, leggi retroattive, cavilli normativi, procedimenti amministrativi, mappe catastali, controllo anagrafico, scrivono l’apartheid dei palestinesi.

Intanto che il parlamento israeliano si preoccupa di cristallizzare sul piano normativo un progetto di annessione (e connessi tentativi di rimodellamento etnico) che è già un fatto, gli ultimi dati raccolti dalle Nazioni Unite parlano di un’impennata di violenza e violazioni dei diritti umani su una scala senza precedenti nella Cisgiordania occupata.

 

Dopo il 7 Ottobre

Da ottobre 2023, sono poco meno di mille i palestinesi uccisi e quasi 10.000 quelli feriti. Quasi tutti erano disarmati, tanti sono stati colpiti tentando di rientrare nelle loro case distrutte dalle ruspe mandate dall’esercito israeliano o bruciate dai coloni, qualcuno è stato vittima di esecuzioni sommarie pianificate, altri sono morti per le mani civili armate dal Comando dell’IDF – le cosiddette “squadre di emergenza degli insediamenti”. Almeno 200 sono le vittime infantili nelle ultime stime del Global Protection Cluster.

Il più aggiornato studio congiunto dei gruppi per i diritti dei prigionieri palestinesi, diffuso a inizio a agosto, indica che da ottobre 2023 oltre 18.500 palestinesi sono stati arrestati in West Bank, tra cui 1.500 minori, 570 donne, 194 giornalisti. Attualmente sono più di 10.700 i detenuti “di sicurezza” nelle carceri di Israele, dove torture e abusi non sono reato: in larghissima parte sono palestinesi trasferiti dai Territori Occupati, e un terzo di loro è costretto in detenzione amministrativa – vale a dire detenuto senza accusa né processo, a tempo indeterminato, sulla base di prove segrete.

Centinaia di checkpoint, blocchi stradali, barriere di ferro e di cemento, coprifuochi hanno cancellato ogni residuo spazio umanitario e civico concesso ai palestinesi in trappola di Cisgiordania. A questo punto sono circa 800 le barriere fisiche disseminate per la regione. Che frammentano il territorio, separano le famiglie. Tengono lontani gli agricoltori e i pastori dai terreni e dall’acqua, i bambini dalle scuole, gli ammalati dagli ospedali. La società è paralizzata, l’economia al collasso.

Le demolizioni delle proprietà palestinesi ordinate dai generali dell’IDF corrono al ritmo più veloce dell’ultimo mezzo secolo. Hanno superato il migliaio dall’inizio di quest’anno e hanno costretto a sfollare almeno 600 bambini, mai così tanti in appena un semestre da quando se ne tiene traccia (dal 2009).

 

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Emblematico è il caso di Masafer Yatta, tra le molte aree palestinesi decretate “Firing Zone” israeliane – “uno degli strumenti utilizzati dalla potenza occupante per confiscare terre palestinesi ed espandere gli insediamenti”, confermano le Nazioni Unite. Il gruppo di villaggi a sud di Hebron è da lunga data nel mirino delle autorità israeliane e dei coloni degli avamposti limitrofi (anch’essi costruiti all’interno della “Firing Zone 918”, ma puntualmente scansati da ogni ordine di sfratto). Dallo scorso giugno, però, l’Amministrazione Civile ha ordinato il rigetto automatico di tutte le richieste di costruzione e pianificazione avanzate dai palestinesi, e pure di ogni obiezione legale alle demolizioni in corso, aprendo la strada a quella che potrebbe essere la più vasta operazione di smantellamento ed espulsione degli ultimi sessant’anni. Le preoccupazioni per il futuro delle comunità costrette a “condizioni sempre più invivibili, parte di un ambiente coercitivo che induce il trasferimento forzato” si sono infiammate tanto che il Protection Cluster ha lanciato un Appello all’azione contro quello che sarebbe un crimine di guerra, e potenzialmente anche contro l’umanità.

A soffocare la Cisgiordania c’è anche il Muro di ferro. Dal lancio dell’operazione che per l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) è “di gran lunga la più duratura e distruttiva nella Cisgiordania occupata dalla seconda Intifada degli anni 2000”, sono come minimo 40.000 gli sfollati dai governatorati settentrionali, soprattutto dai campi profughi di Jenin, Tulkram e Nur Shams rasi al suolo.

Provocare un cambiamento demografico permanente all’interno del territorio occupato può costituire un crimine di guerra ed equivale a una pulizia etnica“, è il monito del portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR), Thameen Al-Kheetan, in riferimento al più massiccio spostamento di popolazione palestinese dalla Cisgiordania dai tempi della Naksa, 58 anni fa.

E crescono esponenzialmente nell’impunità anche gli attacchi dei coloni, che ormai agiscono alla luce del giorno, “con l’acquiescenza, il sostegno e, in alcuni casi, la partecipazione delle forze di sicurezza israeliane” – per citare l’Alto Commissariato nei Territori palestinesi occupati (OHCHR – OPT). Oltre mille, contro 230 comunità palestinesi, gli episodi documentati dalle Nazioni Unite nei primi otto mesi del 2025.

Un soldato dell’IDF osserva il fumo proveniente dalla cittadina palestinese di Duma (vicino Nablus) appena attaccata da coloni israeliani il 13 aprile 2024.

 

Intimidazioni, molestie, pestaggi. Saccheggi e distruzione di case e terreni – gli uliveti secolari soprattutto, spesso dati alle fiamme. Furti di bestiame e avvelenamento delle fonti d’acqua. Sfollamenti forzati. Prende corpo “un modello sistemico di violazioni dei diritti umani”, ripetono gli esperti delle Nazioni Unite allarmati per quanto si stia svelando con una chiarezza disarmante l’intenzione di cancellare la presenza araba in aree strategiche della Cisgiordania e “in ultima analisi, separare i palestinesi dalla loro terra”.

Insomma, è evidente che quel che si dichiara oggi, è già stato realizzato ieri nei Territori Occupati. Sul terreno, nei registri, nel (non) diritto applicato. Le violazioni della IV Convenzione di Ginevra si accumulano in Cisgiordania come i cadaveri a Gaza. E il diritto internazionale non è altro che retorica.

Senza clamore, nella debolezza della leadership palestinese e nella paralisi dell’azione internazionale, tra le parole tarde e vuote dell’Europa e il beneplacito americano, pezzo dopo pezzo, Israele cambia la mappa e le facce della Cisgiordania. E con un voto che è chiaramente una mossa diretta a ricompattare le fila della destra nazionalista sulla questione identitaria, manda un segnale politico inequivocabile: la linea d’orizzonte di uno Stato di Palestina è più sfumata che mai, la soluzione a due Stati sempre più remota, fuori dal dibattito politico interno israeliano.

 

 

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