Il paradosso della termovalorizzazione: lezioni cinesi

È notizia di questi giorni che la Repubblica Popolare Cinese ha raggiunto la cifra di mille termovalorizzatori, pari a una capacità di incenerimento di oltre la metà della capacità mondiale. Negli ultimi quindici anni infatti la Cina ha investito massicciamente negli impianti di incenerimento dei rifiuti per eliminare la spazzatura che soffocava le sue città in seguito alla rapida urbanizzazione.

 

Oggi il Paese conta oltre mille inceneritori, più della metà della capacità mondiale, poiché l’incenerimento è stato percepito come una soluzione rapida, capace di dare risposte immediate rispetto a processi di selezione e riciclo dei materiali che richiedono tempi più lunghi e un cambiamento culturale diffuso, ed oggi la capacità installata supera i 330 milioni di tonnellate annue, ma questa corsa ha generato un problema inatteso, ovvero la scarsità di rifiuti da bruciare. Per avere un senso delle proporzioni, l’Italia brucia circa 5,4 milioni di rifiuti annualmente, ovvero un sessantesimo della quantità cinese, una cifra sproporzionata rispetto al medesimo rapporto fra le dimensioni delle due popolazioni.

Con una potenzialità giornaliera che supera ormai 1,1 milioni di tonnellate, molti operatori cinesi si trovano in condizione di sovracapacità, alcuni impianti hanno dovuto fermare le linee di incenerimento o addirittura pagare condomini e gestori per forniture di rifiuti, mentre altri sono arrivati a scavare vecchie discariche pur di alimentare i forni. In prospettiva, si prevede che il rallentamento economico e le regole più stringenti sulla raccolta differenziata, come anche a medio-lungo termine il calo demografico, finiranno per ridurre ulteriormente i flussi disponibili.

Parallelamente, gli esperti continuano a segnalare i rischi ambientali e sanitari dell’incenerimento: emissioni tossiche, percolati con metalli pesanti e grandi volumi di ceneri volatili difficili da collocare, soprattutto in un contesto immobiliare in crisi che non ne assorbe più l’impiego come materiale da costruzione.

L’esperienza cinese dimostra dunque il paradosso di una strategia basata sull’incenerimento come risposta rapida ma non sostenibile nel lungo periodo, quando le dinamiche sociali, normative ed economiche portano a una diminuzione dei rifiuti, gli impianti diventano sovradimensionati, con costi di gestione e rischi ambientali persistenti.

La questione è spesso vista dalla sola prospettiva economica, ovvero di ricavi e di costi: se si spende meno in bruciare, per esempio, plastica per produrre elettricità anziché recuperare quella plastica di scarto, allora si opta per la prima soluzione, e non per la seconda, avendo così una vista corta, poiché la questione riguarda anche, e forse soprattutto, lo sfruttamento delle risorse naturali. E poi i processi di recupero dei rifiuti aumentano di efficienza, ovvero riducono i costi unitari di produzione, solo se sono in uso, attraverso economie di scala, economie di scopo, innovazione tecnologica, innovazione organizzativa, miglioramento continuo e altro ancora.

Anche per i policymaker europei, la lezione cinese suggerisce di non puntare in modo esclusivo sull’incenerimento come soluzione strutturale. È fondamentale bilanciare le politiche di smaltimento con strategie di riduzione, prevenzione e valorizzazione dei materiali attraverso il riciclo e l’economia circolare.

I governi nazionali dovrebbero guardare a sistemi flessibili e modulabili, capaci di adattarsi alla variabilità dei flussi nel tempo, privilegiando tecnologie pulite, raccolta differenziata di qualità e investimenti in innovazione. Solo un approccio integrato e orientato al futuro potrà garantire stabilità economica e reale sostenibilità ambientale al settore.

 

 

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