Il dilemma per l’Europa: come trattare con i Talebani?

Dialogare con il governo afgano in fieri, ma senza riconoscerlo ufficialmente. Questa la linea di compromesso adottata dai Ministri degli Esteri dell’UE e annunciata dall’Alto Rappresentante Josep Borrell. Compromesso fra due esigenze morali, quella di concordare le condizioni per l’esodo degli ex collaboratori del governo filo-occidentale rimasti intrappolati a Kabul e quella di non avallare le vendette ed altre violazioni dei diritti umani che i Taliban hanno iniziato e certamente continueranno a perpetrare.

Una scelta moralmente ineccepibile ma debole sul piano dell’efficacia. Si parte dal presupposto che il non-riconoscimento sia il miglior mezzo di pressione di cui disponiamo e si lega l’eventuale futuro riconoscimento a cinque condizioni, definite „non negoziabili“. Resta da vedere quanto i Taliban ci tengano, e quale prezzo siano pertanto disposti a pagare.

Il portavoce dei Talebani Zabihullah Mujahid parla alla stampa all’aeroporto di Kabul

 

Ma cosa si intende per riconoscimento? Senza addentrarci nelle vecchie disquisizioni fra giuristi sul riconoscimento di stati o di governi, giuridico o politico, dichiaratorio o costitutivo (teoria, quest’ultima, superata), va chiarito che in questo caso si tratta del riconoscimento di un nuovo governo (non già dello stato afgano), il quale non ne ha in fondo nessun bisogno per esistere legittimamente. Dunque un atto politico.

Il non-riconoscimento di un nuovo governo è solo una espressione di biasimo e di freddezza, e coincide in sostanza con la decisione di non stabilire (o di interrompere) i rapporti diplomatici, quasi che questi fossero un premio o un certificato di buona condotta. In realtà i rapporti diplomatici sono il canale migliore per „parlare“ col nuovo regime. Anche se ne esistono di alternativi: colloqui esplorativi fra dirigenti dell’intelligence o delle forze armate, incontri segreti fra emissari governativi o fra esponenti della società civile („track two diplomacy“), mediazione di terze parti, istituzione di rappresentanze statali prive di veste diplomatica, come uffici commerciali o consolari.

Quest’ultimo strumento è stato scelto, alquanto curiosamente, dall’UE: il Servizio di Azione Esterna dispone di una rete di Rappresentanze parificate alle Ambasciate, ma non di consolati. Aprire un Consolato – in questo caso una Ambasciata di fatto ma non di nome – è certo un gesto di apertura e al tempo stesso di freddezza, ma rende poco convincente la finzione del non-riconoscimento.

Il non-riconoscimento può essere un mezzo di pressione psicologica – e materiale se abbinato a sanzioni – di media efficacia se vi aderisce l’intera comunità internazionale. Vi sono pochi esempi nella storia, fra questi la Rhodesia del post-UDI (la Dichiarazione Unilaterale di Indipendenza): resistette all’assedio internazionale e alla guerriglia per tre lustri, dal 1965 al 1980.

Ma l’Afghanistan non è affatto isolato e assediato: può contare sulla protezione di Pakistan, Cina e Turchia e sui buoni rapporti con l’Iran. Se questi paesi e la Russia tengono aperte le loro Ambasciate, l’Occidente che chiude le proprie si condanna all’irrilevanza. Non riaprirle si può giustificare in base a considerazioni di sicurezza, non a fini di rafforzamento della propria posizione negoziale.

Varrebbe la pena adattare realisticamente gli obiettivi alla nostra limitatissima capacità di pressione. Irrinunciabile è quello di ottenere un credibile impegno dei Taliban a non ospitare organizzazioni terroristiche; qui vediamo una limitata convergenza con gli interessi di Cina, Russia e repubbliche centro-asiatiche.

Perseguibile ma con esiti limitati è il duplice obiettivo di concordare il deflusso degli ex-collaboratori locali e l’afflusso degli aiuti umanitari verso i loro destinatari (ospedali, ONG, etc.). Richiederà una serie di specifici negoziati in cui abbiamo da offrire come contropartita concreti aiuti economici e tecnici, piuttosto che un premio simbolico (riconoscimento).

Auspicabile ma poco realistico è il tentativo di usare la nostra (scarsissima) influenza per indurre i barbari vincitori a rispettare i diritti delle donne (hanno combattuto per decenni proprio per abolirli!) e a spartire il potere con pezzi della vecchia dirigenza filo-occidentale, screditata agli occhi della popolazione per la sua ignominiosa corruzione. Se queste condizioni inattuabili saranno incise nella pietra, il riconoscimento slitterà alle calende greche. I Taliban se ne faranno una ragione, l’irrilevanza dell’Europa si cronicizzerà, e il paese graviterà sempre più nell’orbita della Cina.

Dato che non intendiamo voltare le spalle all’Afghanistan e anzi ci ripromettiamo di inviare sostanziosi aiuti umanitari, il modo migliore per gestirli e per parlare con le autorità locali sarebbe la riapertura delle Ambasciate, sempreché le nuove autorità di Kabul lo vogliano e le condizioni di sicurezza lo consentano. E ciò senza rinunciare a mostrare freddezza, o biasimo per il trattamento delle donne: la prassi diplomatica prevede la figura del downgrading del capomissione al rango di incaricato d’affari, rimandando a tempi migliori la nomina di un Ambasciatore.

 

 

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