Il dilemma euroasiatico di Berlino

In Germania, le elezioni federali del settembre 2021 segneranno – dopo 16 anni – la fine del lungo cancellierato di Angela Merkel. Con esso finirà anche la gestione “merkeliana” dei principiali dossier di politica estera, generalmente caratterizzata da pragmatismo e delicato bilanciamento fra valori e interessi.

I rapporti con Cina e Russia assumono in questo contesto un ruolo centrale, non solo per la rilevanza intrinseca che essi hanno vieppiù assunto per la Germania e l’Europa. Essi rappresentano anche una cartina di tornasole dei limiti ma anche delle possibilità della politica estera tedesca nella nuova fase caratterizzata dalla competizione geoeconomica e geopolitica fra grandi potenze. Prevederne lo sviluppo richiede, dunque, da un lato un’analisi della loro evoluzione durante il lungo cancellierato Merkel, e dall’altro una valutazione realistica delle opzioni possibili della Germania post-Merkel.

 

Compartimentazione e bilateralismo

Sin dove può spingersi la Germania nei rapporti economici con i due giganti euroasiatici, Cina e Russia, senza incrinare la solidità della costruzione europea e dei legami transatlantici?

A questo dilemma storico della politica estera tedesca la Germania a guida Merkel ha risposto per lo meno sino al 2014-2016, con pragmatismo, in linea con lo stile di governo della Cancelliera, senza tuttavia saper o voler formulare una vera e propria strategia né a livello nazionale né a livello europeo.

Tramontata la fase schröderiana del “partenariato strategico” e degli eccessi di sintonia diplomatica con Mosca e Pechino, la Cancelliera ha adottato toni e atteggiamenti più distaccati, critici e freddi rispetto al suo predecessore. Ma ha comunque tentato sin dall’inizio di bilanciare la crescente interdipendenza economica con le crescenti tensioni geopolitiche, mantenendo un equilibrio fra interessi economico-commerciali e l’irrinunciabile ancoraggio politico e geopolitico europeo e atlantico del paese.

Ciò è avvenuto sostenendo diplomaticamente le imprese tedesche nel rafforzamento dei legami economico-commerciali con Pechino e Mosca come strumento per allargare e garantire la penetrazione su questi due mercati: la Cina è dal 2015 il primo partner commerciale della Germania e, dal 2021, anche della UE. D’altro canto, la Germania importa ancora circa il 40% del proprio fabbisogno di gas dalla Russia e soprattutto la Baviera e alcuni Land orientali – nonostante le sanzioni – mantengono forti interessi commerciali nel settore dell’agrobusiness e nell’export di macchinari industriali. Inoltre, Berlino ha continuato a puntare sul rapporto con Cina e Russia con lo scopo e la speranza di poter comunque, sul lungo termine, raggiungere una graduale convergenza e integrazione di questi ultimi nell’ordine economico internazionale liberale.

Nel perseguire questo approccio, il Governo federale si è avvalso di due modalità: la “compartimentazione” e la “bilateralizzazione” delle relazioni.

Riaggiornando un po’ stancamente la vecchia Ostpolitik, la politica di distensione nei confronti del blocco sovietico adottata da Willy Brandt negli anni Settanta, la prima si basa sull’assunto che i legami economici devono largamente rimanere estranei alle crisi politico-diplomatiche, anche dure, e la logica geopolitica non deve influenzare i progetti di cooperazione economica, né chiudere i canali del dialogo politico. Il progetto del gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2 ne è un esempio.

Quale diretta conseguenza, la Germania ha preferito dunque bilateralizzare le relazioni con Russia e Cina, sia rispetto ai partner europei che agli Stati Uniti. Berlino, facendo perno sul suo peso economico, ha sperato di apparire così agli occhi di Mosca e Pechino quale partner privilegiato in Europa. Agli occhi di Bruxelles, Washington e altre capitali, soprattutto dell’Europa centro-orientale, di riflesso, quale mediatore e garante degli interessi comunitari e transatlantici.

In questa lunga fase, comunque, Berlino ha sempre approcciato il dossier cinese e quello russo separatamente, ignorando l’impatto del crescente asse russo-cinese sugli equilibri geopolitici e geoeconomici sia del mondo che dell’Europa. Gli effetti dei processi di trasformazione economico-commerciale in corso in Eurasia, dei quali la Germania ha pur indirettamente profittato più di altri paesi europei, sono stati a lungo minimizzati: Berlino si è limitata a rispondere con argomenti economici alle critiche provenienti dai partner europei e americani alla sua relazione speciale con Mosca e Pechino.

L’ex Cancelliere tedesco Gerhard Schroeder abbraccia Vladimir Putin

 

La svolta del triennio 2014-2016 e la fine delle illusioni

Questa fase di difficile bilanciamento ma sostanzialmente comodo equilibrio nell’approccio a Russia e Cina è entrata in crisi già nel biennio 2012-2013, (rafforzamento dell’asse euroasiatico tra Mosca e Pechino) per tramontare definitivamente a partire dal triennio 2014-16, durante il quale tre eventi fra loro correlati costringono in effetti la Germania e la Angela Merkel a ripensare i rapporti con Russia e Cina.

Primo, la crisi ucraina del 2014, con l’annessione russa della Crimea e il sostegno di Mosca al separatismo nella regione ucraina del Donbass, ha ridisegnato con la forza dei confini all’interno dell’Europa e con essa anche la percezione dell’élite politica tedesca dei rapporti con la Russia. Mosca appare ora non più un partner difficile ma necessario, ma un paese ostile e revisionista. Il Nord Stream,- il cui accordo viene pur firmato appena un anno dopo lo scoppio della “rivoluzione di Maidan” rimane – per quanto economicamente comprensibile – l’ultimo esempio di una anacronistica “Ostpolitik”.

Secondo, la pubblicazione nel 2015 delle linee guida del piano cinese della Via della Seta inizialmente ignorato da Berlino, e l’annuncio della strategia “Made in China 2025”, hanno provocato – dopo l’iniziale entusiasmo – crescente preoccupazione e opposizione. La Cina si configura così sempre meno come semplice partner economico e molto più come competitor strutturale tecnologico, industriale e anche tecnico-normativo (si veda il piano “China Standards 2035) e geopolitico, come  definito dal BDI (Bundesverband der Deutschen Industrie – Confindustria tedesca) – in un fondamentale documento strategico del 2019.

Il terzo evento che ha contribuito senza dubbio all’irrigidimento e al disorientamento di Berlino è l’elezione di Donald Trump nel 2016. Inaugurando una nuova era nella politica estera americana, ma di fatto dando espressione alla necessità di Washington di rispondere all’ascesa della Cina e al ritorno della Russia, la Presidenza Trump – con il suo rifiuto del multilateralismo, la bilateralizzazione ossessiva delle relazioni con alleati, partner e competitor politici in egual misura, e il ritorno ad una politica di interesse nazionale e di aggressivo mercantilismo protezionista, ha sconvolto le coordinate politico-diplomatiche di Berlino, come esse si erano definite dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Il combinato disposto di una Russia militarmente aggressiva, di una Cina fermamente decisa a emergere quale competitor tecnologico-politico e industriale e a ridisegnare gli equilibri geoecnomici in suo favore, e di una Amministrazione americana che si è sottratta al ruolo di garante dell’ordine internazionale liberale e dei suoi valori, ha costretto la Germania ad agire. Berlino ha accentuato come mai prima la contrapposizione politico diplomatica con Russia e Cina, e accettato una crescente “europeizzazione” della sua azione – se non della politica estera economica (sanzioni, controspionaggio, aumentata partecipazione nelle esercitazioni NATO, screening rafforzato degli investimenti cinesi in infrastrutture critiche (5G) ) – in difesa del modello e dell’ordine economico e politico liberale basato sul diritto internazionale vigente, sulla governance internazionale multilaterale e le sue norme, e sui mercati aperti (level playing field).

Angela Merkel tra gli altri leader del G7 al summit del giugno 2018 in Canada

 

 

Le “nuove” relazioni degli anni ‘20

Lo scoppio della pandemia ha accentuato questa contrapposizione con Mosca e Pechino, estendendola ormai anche al campo economico-industriale. Facendo leva su questo, soprattutto il Partito dei Verdi, al momento favoriti dai sondaggi e quanto meno destinato ad entrare nella futura coalizione di governo se non a presiederlo, si è fatto sostenitore di un più radicale riposizionamento della Germania nei confronti di Russia e Cina, all’insegna di una più aperta e dichiarata politica di difesa dei diritti umani e dell’ordine liberale. Con i socialdemocratici presumibilmente fuori da una futura coalizione e una CDU divisa fra cooperazione pragmatica e contrapposizione ideologica, i Verdi sono considerati il vero ago della bilancia nella ridefinizione della futura politica estera tedesca.

La pandemia e le strozzature nelle forniture medico-sanitarie hanno drammaticamente evidenziato la fragilità della filiera produttiva globalizzata delle imprese europee e tedesche, troppo dipendenti dalle forniture cinesi. La Germania – quale paese maggiormente integrato nella produzione globale e partner principale di Pechino – sembra aver sposato e accettato la posizione francese della necessità di un’Europa sovrana in termini produttivi e interventista in termini di politica economica. Berlino ha così appoggiato la prima strategia di politica industriale dell’Unione Europea, approvata nel 2020, volta a rafforzare l’autonomia produttiva e la sicurezza delle forniture dell’Unione Europea in settori chiavi come quello medico-sanitario, quello delle energie rinnovabili e delle tecnologie digitali, supportando il parziale decoupling dalla Cina e un “rimpatrio” della produzione. Su questa linea sembrano muoversi i Verdi, che parlano della necessità di dialogare e contenere la Cina, favorendo al contempo una diminuzione della dipendenza strategica di Berlino dal mercato e dalla produzione cinese e un rimpatrio (reshoring o nearshoring) in Europa.

Allo stesso tempo, la trasformazione verde e la difesa dell’ambiente a livello nazionale e soprattutto europeo – con l’approvazione del Green Deal – rappresentano il nuovo mantra della politica estera tedesca. In questo quadro, il dibattito sul senso e lo scopo del Nord Stream 2 e delle relazioni economiche con la Russia ha assunto nuova centralità. Secondo la ricostruzione della parte più critica dell’opinione pubblica e della classe politica soprattutto verde, in uno scenario in cui la domanda di gas in Germania e Europa sarà destinata a diminuire con il passaggio alle energie rinnovabili, il prezzo politico pagato dalla Germania per il suo continuo supporto al gasdotto non è più giustificabile né sostenibile. Un nuovo governo federale dovrebbe imporre una moratoria sul Nord Stream 2. Ciò permetterebbe di ricucire i rapporti incrinati con Varsavia e Washington sul tema e dare un chiaro segnale a Mosca che la Germania è in grado di agire “strategicamente” e di utilizzare l’interdipendenza economica in maniera politica.

In questo contesto, l’elezione del democratico Joe Biden alla Casa Bianca sembra aver messo fine al vuoto di autorità e di direzione politica dell’Occidente lasciato dal quadriennio trumpiano. Berlino sembra pronta, anche e soprattutto con un nuovo governo a partecipazione verde, a rilanciare l’asse transatlantico soprattutto per far fronte alla sfida russo-cinese.

Elettricità generata da fonti rinnovabili in Germania negli ultimi trent’anni

 

Le alternative possibili e il vettore industriale

Mentre questa lettura presenta indubbiamente alcuni aspetti di plausibilità, sarebbe prematuro e fuorviante considerarla l’unica via possibile.

E’ infatti lecito dubitare che una normalizzazione del vettore euroasiatico della politica estera tedesco avvenga lungo queste linee, e che una soluzione al “dilemma” delle relazioni di Berlino con Mosca e Pechino sia un ritorno ad un mix di transatlantismo e di “Kerneuropa” franco-tedesca sulla base di autarchia industriale e rivoluzione verde.

Le relazioni economiche con la Cina saranno ridefinite dalle due trasformazioni epocali: la trasformazione energetica e il possibile catch-up tecnologico-geopolitico cinese, che renderanno le stesse più dinamiche ma ricche di frizioni. Questo tuttavia difficilmente porterà la Germania a sposare la linea autarchico-sovranista di indipendenza energetica e produttiva che attualmente proviene dalla Francia o la politica di allontanamento aggressivo e competizione tecno-politia dell’Amministrazione Biden.

L’industria tedesca, vero motore e asset geoeconomico della Germania, non ha né l’interesse ne la possibilità di perseguire una politica di disimpegno dal mercato cinese o dai mercati in via di sviluppo dell’Eurasia. Perseguirà invece la politica cosiddetta della “Cina+” in cui Pechino rimarrà partner decisivo sia per la lotta al cambiamento climatico, sia per discutere della standardizzazione tecnica, sia come piattaforma per accedere ai mercati asiatici. Le imprese tedesche tenteranno sì di ridurre la dipendenza dalla Cina, dove possibile, diversificando in Asia e su altri mercati euroasiatici, ma difficilmente lo faranno rinchiudendosi nei confini produttivi europei. In questo senso, significativa è la forte spinta di Berlino a sostegno dell’accordo per gli investimenti fra UE e Cina alla fine del semestre tedesco di Presidenza europea nel dicembre del 2020, così come l’assenza di fatto di ogni critica aperta alle azioni repressive cinesi ad Hong Kong e nello Xinjiang.

D’altro canto, le relazioni con la Russia rimarranno tese e nulla sarà più come prima, ma anche nelle mutate circostanze, la Germania tenterà sempre di riallacciare i fili della cooperazione con Mosca. Tanto più che le conseguenze della rivoluzione verde, con il rischio di destabilizzazione del modello socio-economico del petrostato russo o di riorientamento massiccio verso la Cina – rappresentano nel lungo periodo una preoccupazione forse anche maggiore delle politiche aggressive di Mosca nel breve.

Comunque, la Germania avrà ancora bisogno di gas nel lungo periodo di transizione, a maggior ragione se in assenza di carbone e energia nucleare. Il recente accordo tra i Ministeri dell’Economia dei due paesi per una cooperazione industriale nel campo dello sviluppo, produzione e vendita dell’idrogeno blu, rosa e verde testimoniano che il legame tra i due paesi, seppur non guidato da valori politici o da una comune visione, prosegue, proprio nello spirito della diversificazione delle relazioni industriali-commerciali dal polo cinese.

Nel passato il limite di Berlino è senza dubbio stato quello di aver sempre depoliticizzato le relazioni economiche con Mosca e Pechino, e non averne colto dunque la dimensione  strategica e geopolitica. Oggi, in un’era di competizione globale, e di rapporti a geometria variabile senza alleanze stabili, l’Amministrazione democratica degli Stati Uniti si presenta nella sostanza più in linea con l’era trumpiana che con quella di Obama; la Francia, il principale alleato e partner europeo, mantiene una visione asfittica e colbertista della competizione geoeconomica, senza veri strumenti per realizzarla; e la Polonia persegue un suo disegno egemonico nello spazio energetico e infrastrutturale dell’intermare, ossia di quello spazio geopolitico compreso tra il Mar Baltico e il Mar Nero. In questo quadro, Berlino non può limitare la sua azione “strategica” a questo tipo di riallineamento, anche in presenza di un Governo a partecipazione verde e anche al di là delle buone intenzioni per rafforzare gli equilibri europei e transatlantici.

Berlino potrebbe arrivare dunque effettivamente a formulare – come viene richiesto da più parti – una politica estera guidata da considerazioni strategiche e geopolitiche chiare, ponendo fine alla sua ambiguità. Il rapporto con Cina e Russia, seppur su basi nuove, più competitive e di contrapposizione, depurato da ogni nozione di “partenariato stabile”, non sarebbe comunque nemmeno in questo caso votato alla rottura ideologica, ma ad una sana formulazione di interessi nazionali chiari ed espliciti, di competizione nella cooperazione. Se accadesse, ciò non avverrebbe solo nei confronti di Mosca e Pechino, ma inevitabilmente anche verso Parigi, Varsavia, Bruxelles e Washington.

 

 

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