I palestinesi e il progetto geopolitico che lega Israele ai Paesi arabi

Subito dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, molte voci in Europa e nel mondo si sono levate a difesa di Israele, chiedendosi chi avesse interesse a colpirlo all’interno della regione mediorientale. Ma successivamente, dopo due anni di devastazione assoluta della Striscia di Gaza, da molte autorevoli voci anche ebraiche e israeliane definita genocidio, ci si pone spontaneamente un’altra domanda: perché nessuno, soprattutto tra i Paesi arabi, interviene in concreto a sostegno dei palestinesi?

 

Israele e la normalizzazione regionale

La guerra arabo-israeliana del 1948, la crisi di Suez nel 1956, la guerra dei Sei Giorni nel 1967 e quella dello Yom Kippur nel 1973 hanno tutte contrapposto in vario modo Egitto, Giordania e Siria a Israele, alimentando le tensioni regionali nella contesa egemonica dell’area. I trattati di pace del periodo successivo – con l’Egitto (1979) e con la Giordania (1994) – promossi dagli Stati Uniti e presentati come la fine dello stato di guerra tramite il riconoscimento di Israele da parte dei Paesi arabi che si erano sempre rifiutati di farlo, hanno in effetti favorito l’agognata normalizzazione. Ma lo hanno fatto al prezzo della rimozione dal dibattito sulla nascita di uno Stato palestinese, sul diritto al ritorno dei rifugiati, e sulla fine delle discriminazioni nei confronti degli arabi sia dentro il territorio israeliano, sia in Cisgiordania.

Inoltre, il progetto messianico del “Eretz Israel” (Grande Israele) non è più confinato a pochi fanatici: il premier Netanyahu ha presentato il piano di espansione che comprende il Sinai a ovest, la Giordania e una parte di Arabia Saudita a sud, le Alture del Golan siriano e il Libano a nord, oltre a una porzione di Iraq a ovest. Annettere impunemente l’intera Cisgiordania, contro le risoluzioni ONU e il diritto internazionale, è il riflesso di una strategia etno-nazionalistica di più ampio respiro, che la componente araba della comunità internazionale non sembra ancora cogliere nelle sue ampie e pericolose implicazioni.

Un’ulteriore fase di normalizzazione tra Paesi arabi e Israele è stata promossa dalla prima amministrazione Trump, che nel 2020 mise il sigillo sugli Accordi di Abramo siglati prima con Emirati Arabi Uniti e Bahrein e successivamente con il Sudan e il Marocco. La teoria del sistema penetrato di Carl Brown illumina il ruolo degli Stati Uniti e le dinamiche di politica estera dei Paesi arabi: un Medio Oriente costantemente attraversato da pressioni politiche, economiche e diplomatiche esterne, che resta sotto influenza occidentale e si regge su Stati fragili, in competizione per l’egemonia e vincolati alla dipendenza dall’estero. Se da un lato l’accordo ha formalizzato scambi commerciali, turistici, accademici e di intelligence, rafforzando la cooperazione con una parte del mondo arabo, dall’altro – puntando all’esclusione totale dell’Iran e dei Paesi suoi alleati, e alla rimozione definitiva della questione palestinese – ha contribuito a innescare l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Questo in effetti è avvenuto proprio alla vigilia dell’estensione degli Accordi di Abramo anche all’Arabia Saudita.

 

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E’ la ripetizione di uno schema disfunzionale che abbiamo già conosciuto nel recente passato. La strategia degli Stati Uniti nel nome della Pax Americana si era già rivelata controproducente a seguito dell’invasione dell’Iraq nel 2003 e delle tensioni settarie generate dall’iniqua distribuzione del potere dopo la caduta di Saddam Hussein: così nacque il primo nucleo di quello che sarebbe diventato l’ISIS nel 2013, e una serie di terribili guerre locali concluse con l’aumento dell’influenza iraniana e di quella russa nella regione, proprio nel luogo dove sarebbe dovuta essere “esportata la democrazia”. Oggi per gli Stati Uniti supportare Israele corrisponde a contenere la presenza iraniana e cinese (lo si è visto nei tentativi di distensione tra Teheran e Riad propiziati da Pechino) nella regione, creare terreno fertile per un’area economica aperta tra gli Stati della regione è la tattica per arrivarci.

 

Il nesso tra apertura commerciale e sicurezza regionale

Nel 2024, gli scambi bilaterali tra Israele e i Paesi arabi con cui ha normalizzato le relazioni, tra cui Giordania ed Egitto, hanno toccato i 4 miliardi di dollari. Se il Bahrein a novembre 2023 ha interrotto i legami economici e diplomatici con Israele, non si può dire lo stesso degli Emirati Arabi Uniti. Nonostante le crescenti richieste di boicottaggio, l’export dagli EAU verso Israele è aumentato da un anno all’altro di $122 milioni, che rendono Abu Dhabi il principale partner commerciale arabo di Israele.

D’altronde, Nel 2022, Israele e gli Emirati Arabi Uniti hanno siglato un altro accordo storico per la regione: il Comprehensive Economic Partnership Agreement (CEPA). Questo prevede l’eliminazione o la riduzione dei dazi su circa il 96% dei prodotti e apre nuove opportunità di investimento in settori strategici come l’energia e il digitale. L’intesa ha portato a un incremento del commercio bilaterale, che supererà i 10 miliardi di dollari entro il 2030. Infatti, non si tratta solo di scambi economici, ma anche di una stretta collaborazione in settori strategici come intelligenza artificiale, cybersecurity, fintech, difesa, sanità e gestione delle risorse idriche, che consentiranno agli Emirati di attrarre investimenti nell’innovazione tecnologica e in altre aree fondamentali.

Tel Aviv considera il rapporto con gli EAU come una porta strategica verso i mercati regionali e internazionali, consolidandosi come un hub chiave per le economie basate sull’innovazione. Allo stesso tempo, le strette relazioni con Israele permettono al piccolo Stato del Golfo di esercitare una maggiore influenza nella regione e di guadagnarsi il favore di potenze come gli Stati Uniti. Ciò gli garantisce protezione nelle diplomazie multilaterali assieme a stabilità e sicurezza nella regione.

Anche il recente accordo da 35 miliardi di dollari, stipulato fino al 2040 tra l’Egitto e NewMed Energy, compagnia energetica israeliana, che prevede forniture di gas naturale a prezzi competitivi, evidenzia l’integrazione crescente tra i due Paesi, la dipendenza energetica dell’Egitto e l’accesso strategico di Israele ai mercati energetici globali, nonostante le possibili ripercussioni derivanti dai crimini commessi a Gaza. Il grande progetto infrastrutturale “India-Middle East-Europe Economic Corridor” (IMEC), lanciato nel 2023 durante il G20 e promosso da India, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti, Italia, Francia, Germania e Unione Europea (con forte sostegno del G7), mira a creare un corridoio economico intercontinentale per facilitare la logistica e il commercio euroasiatico collegando i porti del Golfo arabo con il Mediterraneo anche attraverso rotte terrestri.

L’apertura dei mercati, se portata a termine, avrebbe una funzione securitaria inserendosi nella più ampia strategia di contenimento dell’influenza iraniana nel Medio Oriente e farebbe da contraltare alla Belt & Road Initiative (BRI) cinese rafforzando così l’ancoraggio della regione al sistema economico occidentale. A essere sacrificati sull’altare degli interessi contingenti degli Stati della regione sono innanzitutto i principi fondamentali della causa palestinese.

 

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Il consolidamento dei rapporti, nonostante Gaza

La paralisi della comunità internazionale di fronte ai crimini di guerra contro i palestinesi viene criticata da una crescente porzione dell’opinione pubblica globale. Pur promuovendo una retorica di pace attraverso accordi commerciali, l’integrazione di Israele nel sistema economico regionale e internazionale in realtà non risolve i nodi storici di conflittualità e insicurezza regionali.

La prosecuzione dell’azione genocidaria nella Striscia, la minaccia di trasferimento forzato dei palestinesi da Gaza e Cisgiordania, l’assenza di una Costituzione che definisca i confini israeliani e le varie violazioni del diritto internazionale commesse in Palestina, Libano, Siria e Yemen spesso al costo di tante vite di civili, rendono quest’area sempre più insicura, instabile, e con grandi vuoti di sovranità.

 

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I Paesi arabi, pur adottando un approccio pragmatico nella loro politica estera e cercando di bilanciare il bisogno di stabilità e sicurezza con la necessità di diversificare le proprie economie, non dovrebbero sottovalutare le implicazioni dell’impunità concessa a Israele. La mancata reazione ai crimini di guerra israeliani deriva dal fatto che molti di questi attori sono ormai intrinsecamente legati da interessi economici e geopolitici, trasformandosi in vassalli e clienti di Israele, visto anche come elemento di contrasto all’Islam politico prevalente nello scenario palestinese, e rifiutato dalle élite al governo nella maggior parte dei Paesi arabi. Inoltre, non è da sottovalutare il peso del collante anti-iraniano tra i Paesi di una regione che negli ultimi decenni ha sentito il peso delle manovre internazionali orchestrate a Teheran, e spesso vi si sono opposti.

In questo modo, Tel Aviv riesce a consolidare la sua posizione regionale aggirando ogni eventuale opposizione, e senza che i suoi vicini spingano nell’arena internazionale perché si agisca contro i crimini israeliani a Gaza e in Cisgiordania.

 

 


*il contenuto dell’articolo riflette solo le opinioni personali dell’autrice.

 

 

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