I dati più recenti sull’inflazione negli Stati Uniti indicano un lieve rallentamento della corsa dei prezzi con l’eccezione del costo delle abitazioni e delle uova; ma non possiamo ancora conoscere, ovviamente, le conseguenze dei dazi voluti all’inizio di aprile dall’amministrazione Trump. Una eventuale ripresa della corsa dei prezzi sarebbe una pessima notizia per l’enorme “lower-middle class” americana, quella la cui economia familiare è spesso appesa a un filo e per cui la variazione del costo dell’affitto, di un’assicurazione o di un mutuo possono trascinare verso la povertà.
L’inflazione degli anni dell’amministrazione Biden ha innegabilmente avuto un peso nelle scelte elettorali dei milioni di americani senza istruzione superiore e in difficoltà economica che hanno scelto il Partito Repubblicano di Trump lo scorso novembre. Ma da dove viene questa povertà, chi affligge, e come la si misura?
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Le cause sono numerose e il costo delle abitazioni è senza dubbio un fattore determinante. Durante un recente viaggio negli Stati del Sud (Georgia, Alabama, Tennessee, Mississippi, Lousiana) per un lavoro sulla homelessness è apparso chiaro come e quanto il costo dell’affitto fosse una delle ragioni che spingevano le persone nei campi di tende ai margini delle città grandi e piccole. Le statistiche confermano questa impressione. Secondo diverse stime, negli Stati Uniti mancano più di 7 milioni di case in affitto per persone con redditi medio-bassi, e per ogni 100 famiglie di affittuari a reddito basso ci sono solo 34 case in affitto disponibili. Nel 2022, 7,2 milioni di famiglie pagavano più del 50% del proprio reddito per l’affitto: a loro basta una singola avversità di qualsiasi tipo per rischiare di finire su una strada.
Ma partiamo dai dati ufficiali sulla povertà per segnalare come e quanto questi sottodimensionino il fenomeno. La misura ufficiale della povertà la definisce confrontando il reddito monetario al lordo delle imposte con una soglia di povertà nazionale tarata sulla composizione della famiglia. Sul sito del Department for Health and Human services (HHS) questa soglia si colloca a 15.650 dollari l’anno per una sola persona e a 32.000 per una famiglia di quattro. Usando queste soglie, il dato del 2023 (ultimo ufficiale disponibile) ci parla di un tasso di povertà dell’11,1%, pari a 36,8 milioni di persone. E’ lo stesso dato calcolato utilizzando il reddito dopo le tasse e dopo gli eventuali benefici di welfare. Dal 2009 il Census Bureau utilizza anche la cosiddetta Supplemental Poverty Measure (SPM), che tiene conto di una serie di fattori determinanti: benefici di welfare ricevuti, tassazione, collocazione geografica (30mila dollari a New York City non valgono quanto quelli in una contea rurale dell’Oklahoma). Con la SPM il tasso di povertà del 2023 era pari al 12,9%.
Tra 2022 e 2023 i poveri SPM sono aumentati e l’aumento più grande si è verificato tra coloro che vivevano in affitto. Il numero di persone in difficoltà economica è sceso dopo un’impennata tra 2008 e 2012 e ha poi ricominciato a crescere dopo il Covid, una crescita attutita dalle misure adottate per alleviare gli effetti economici della pandemia. L’esaurimento di quelle misure è un fattore non indifferente nel far sentire chi è in bilico più povero: per un periodo non breve i sussidi hanno garantito un reddito che poi, di colpo, non è più arrivato.
Questi dati ci dicono qualcosa, ma certo non tutto, e in particolare non spiegano le cause di una povertà diffusa e neppure fotografano la situazione reale. Come mai? Perché nella maggior parte degli Stati Uniti con 30mila dollari l’anno non si vive in maniera dignitosa, non si mandano i figli all’università e neppure i bambini in un asilo che non sia una stanza con tappeto di gomma a terra a una o due persone che cambiano pannolini, non ci si può permettere una assicurazione sanitaria che consenta di affrontare un incidente o una malattia, non si può pagare un affitto. Oppure, con quel reddito, occorre scegliere tra queste cose.
Il reddito mediano USA (non medio) è di circa 80mila dollari e utilizzando il Living Wage Calculator del MIT, uno strumento che tiene conto delle spese di base contea per contea, scopriamo che una famiglia monoreddito con due figli per soddisfare le proprie esigenze (scuola, sanità, casa, internet, cibo, trasporti e altro) dovrebbe guadagnare 50 dollari l’ora a Los Angeles, 43 ad Atlanta, 34 a Selma, famosa città dell’Alabama (quella della Bloody Sunday) così malridotta che le strade del centro sembrano essere state bombardate di recente. Il problema è che il salario minimo orario federale è di 7,25 dollari l’ora dal 2009, mentre quello della California è di 16,25. Secondo i ricercatori del MIT lo stipendio minimo in grado di soddisfare le esigenze normali dovrebbe essere di 24 dollari l’ora.
Cosa ci dice questa valutazione? Che negli USA ci sono molti milioni di persone in quella che da noi chiamiamo “povertà relativa”, la cui alimentazione, istruzione, salute non è adeguata.
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La povertà si sperimenta più tra le minoranze che altrove, con ispanici e afroamericani che guidano la classifica della percentuale di poveri tra le loro fila.
Altro gruppo particolarmente a rischio povertà sono i minorenni, con un tasso di povertà pari al 13,8% (10mln) nel 2023, un enorme balzo in avanti rispetto al 5,2% del 2021. In mezzo c’è la scelta dei Repubblicani – divenuti maggioranza congressuale dopo il voto di metà mandato del novembre 2022 – di non rinnovare un credito fiscale volto ad alleviare la povertà infantile voluto dall’amministrazione Biden. Secondo un rapporto del National Center for Children in Poverty, però, quasi la metà dei bambini negli Stati Uniti vive in famiglie a basso reddito, cioè a rischio povertà.
Interessante è la distribuzione geografica della povertà: il Midwest, cioè la regione che negli anni elettorali finisce sotto la lente di ingrandimento e il racconto è quello della disperazione per le fabbriche chiuse, è la regione con meno poveri in percentuale; il West, ma a pesare di più è la California, quella con più ricchi e anche più poveri; a Sud il fenomeno è piuttosto diffuso con Alabama, Louisiana, Mississippi e Arkansas che presentano alcune tra le percentuali più alte.
Se è vero che in termini percentuali la povertà incide più sulle minoranze che non sui bianchi, in termini assoluti il più grande gruppo di cittadini USA, i bianchi, comprendono in termini assoluti anche il numero più alto di poveri. La povertà, insomma, non è solo o tanto quella del ghetto o delle contee nere dell’Alabama o del Mississippi (dove pure il tasso di povertà nera è altissimo).
Il reverendo William J. Barber, leader della “Poor’s people campaign”, campagna per la giustizia sociale ispirata dalle parole di Martin Luther King, ha di recente pubblicato un libro in cui sostiene una tesi interessante sulla polarizzazione e il voto a destra di segmenti della società più bassi. Cito: “In questo Paese ci sono tra i 135 e i 140 milioni di persone povere o a basso salario – 26 milioni sono neri. Si tratta di quasi il 60% dei neri, ma 66 milioni tra questi sono bianchi, ovvero 40 milioni in più dei neri in termini numerici (…) Come mai votano contro i loro interessi?” Barber imputa questo mancata vicinanza tra due gruppi di poveri alla strategia del Partito Repubblicano: “Il loro obiettivo era quello di dividere intenzionalmente, e il modo in cui lo hanno fatto è di suggerire a molti fratelli e sorelle bianchi: “Tu non hai perché qualcun altro sta prendendo da te. Il problema è qualcun altro. In altre parole, hanno offerto loro l’identità bianca piuttosto che un salario adeguato e l’assistenza sanitaria”.
Di recente ho intervistato il sociologo Doug McAdam, che pure segnala come a suo modo di vedere la storia della polarizzazione USA sia anche e molto figlia delle leggi sui diritti civili del 1963. Il Partito Repubblicano ha scientemente lavorato in questa direzione e (in questo Ronald Reagan è probabilmente il campione), utilizzato l’idea di una popolazione nera come segmento che vive di assistenza erogata dai Democratici per comprare il loro voto. C’è la famosissima immagine della “welfare queen”, il caso di una donna che campa di sussidi che non le spettano, vivendo alla grande, usata da Reagan nella campagna elettorale del 1976 come figura paradigmatica. In un certo immaginario bianco, anche nutrito di razzismo, ci sono i poveri assistiti e, poi, ci sono le persone che hanno avuto un rovescio e che la politica dimentica: i primi sono neri, i secondi bianchi.
A proposito di welfare, è utile segnalare come i pur deboli strumenti federali USA funzionino. Abbiamo accennato al credito fiscale per minori, ma il Census Bureau segnala anche come i programmi della sicurezza sociale risparmino la povertà assoluta a circa 28 milioni di persone, e altri programmi ottengano benefici simili per quote minori della popolazione (perché coinvolgono meno persone). Per ciascuno degli strumenti di welfare la percentuale che esce dalla povertà è più alta per le minoranze, ma in numeri assoluti è più alta tra i bianchi. L’argomento del reverendo Barber, insomma, è confortato dai dati.
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Ciò che invece i dati non ci dicono è che ci sarebbero (in realtà non ci sono) milioni di truffatori che ricevono sussidi e pensioni al posto di altri, come hanno invece sostenuto Elon Musk e il presidente Trump impegnati nell’esercizio di tagliare la spesa pubblica federale. I dati indicano che le truffe sono poche e per una quantità di risorse relativamente piccola. Parlare di truffe e sprechi in questo caso somiglia molto all’esercizio di cui si è detto sopra: individuare dei capri espiatori che vivono “alle nostre spalle” e giustificare tagli ai servizi di welfare come modi per punirli.
La legge di indirizzo approvata dalla Camera dei Rappresentanti lo scorso 25 febbraio prevede 4.500 miliardi di crediti fiscali e tagli alla spesa federale per 2.000 miliardi (il che naturalmente significa un aumento del deficit pubblico di 2500 miliardi). Nelle ipotesi i tagli toccheranno il programma di assicurazione sanitaria per i poveri Medicaid, le mense scolastiche pubbliche, i buoni pasto che vengono usati da 42 milioni di persone ogni mese. Chi colpiranno questi tagli? I poveri e le categorie in bilico, che votano in percentuali minori delle altre categorie di reddito.
Quegli stessi poveri americani sono anche quelli che muoiono prima degli altri: il divario di aspettativa di vita tra le contee più ricche e quelle più povere è di quasi 20 anni. In un Paese dove 100 milioni di cittadini hanno debiti con le assicurazioni sanitarie, dove mezzo milione di persone l’anno finiscono in bancarotta, dove il numero di carcerati è il più alto del pianeta e dove trovare un lavoro dopo essere passati per il carcere è un’impresa titanica, e dove è in corso da anni un’epidemia di tossicodipendenza senza precedenti, tagliare i servizi pubblici alla persona è un viatico certo per creare più povertà e disagio sociale.